Il vangelo di Leonard Cohen

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La musica pop, non è una novità, ha visto una gran quantità di autori cimentarsi con il tema del rapporto con la religione: campo alquanto difficile e insidioso, dove le trappole della banalità e del cattivo gusto sono sempre in agguato e non è sempre detto che l’immediatezza della comunicazione – qualità importante per una canzone – riesca a coniugarsi con la complessità dell’argomento.

Il piccolo ebreo…

Leonard Cohen

Leonard Cohen al Coachella Valley Music & Arts Festival in Indio, California, 17/4/2009 (AP Photo/Chris Pizzello)

Ci sono alcuni artisti, però, che hanno saputo scavalcare brillantemente gli ostacoli trattando con un mezzo apparentemente facile e popolare come la canzone le tematiche proposte dai testi sacri; ce ne sono altri, in misura minore, che ne hanno felicemente fatto un fondamento della loro poetica in musica, arrivando al cuore del proprio pubblico. Tra questi c’é sicuramente Leonard Cohen, scomparso in questi giorni a ottantadue anni; a mio avviso il più significativo per esiti artistici e popolarità planetaria sotto questo profilo, la cui autodefinizione presente in The future (1992) – «Io sono il piccolo ebreo che ha scritto la Bibbia» – non è per niente esagerata o fuori posto.

Si badi: i suoi testi sono generati dalla Bibbia, più che ispirati a essa, ma il testo, sacro alla tradizione ebraica e cristiana, non è scelto in conseguenza di una presa di posizione fideistica. La Scrittura è una presenza immanente alla poetica coheniana, esattamente come il Grande Codice è la pagina sorgiva dell’intera cultura occidentale. «Mi piace la compagnia dei monaci e delle suore e dei credenti ed estremisti di ogni genere – ha detto lui una volta – e mi sono sempre sentito a casa tra le persone di quella fascia. Io non so esattamente perché, so che rende solo le cose più interessanti…».

Ne Il vangelo secondo Leonard Cohen (Claudiana 2010), da parte nostra, mia e del compagno di scorribande musicalteologiche Odo Semellini, abbiamo cercato di analizzare la dimensione del sacro nell’opera dell’allora settantasettenne artista canadese, prendendone in esame, oltre al canzoniere, anche le raccolte di poesie, i romanzi e le interviste rilasciate nel corso degli anni. Sono infatti convinto che il poeta di Montréal ha saputo fare del suo percorso spirituale e religioso un argomento degno di essere cantato, raccontato senza mai scadere nell’autocelebrazione, sapendolo arricchire anche della complessità del rapporto non solo tra l’uomo e Dio, ma anche tra l’uomo e la donna, cogliendo perfettamente le contraddizioni di tale rapporto, che scandisce quotidianamente l’esistenza di ognuno di noi.

Al tempo stesso, come scrive Alberto Corsani su Riforma del 21 maggio 2010, i riferimenti biblici nelle canzoni di Cohen «fanno parte dell’humus in cui il cantautore è cresciuto, costituiscono il suo retroterra, senza esaurirlo e senza impedire che le sue canzoni vengano interpretate a prescindere dalla fede… Cohen ci porta alla soglia di un paesaggio sconfinato, che forse avremo il privilegio di scoprire; ben sapendo che perfino a Mosè fu negato di vedere compiutamente la Terra promessa».

Sacro e profano

Di questa peculiarità si era ben accorto il nostro Fabrizio De André, che non a caso tradurrà quattro brani di Cohen (tra cui la famosa Suzanne, una rilettura della figura evangelica di Maria Maddalena, e Giovanna d’Arco), al quale abbiamo dedicato un capitolo, in cui sono messe a confronto le tematiche etiche e religiose del cantautore genovese e del collega d’oltreoceano.

Nel libro abbiamo voluto inserire un altro faccia a faccia illustre tra Cohen e Bob Dylan, per certi versi il suo corrispettivo statunitense. Ma anche la sua vicenda buddhista: nel 1993, dopo la promozione mondiale del suo album The future, egli decideva di ritirarsi al Mount Baldy Center, un monastero zen sorto nel 1971 e situato a duemila metri di altezza, e di sostarvi per oltre sei anni con il nome di Jikan, il silenzioso. Pur conservando il suo essere ebreo di fondo, si badi, quella che chiama la religione di famiglia… Sta lì la sua storia, il suo retaggio.

Ne fanno fede, ad esempio, le sue numerose dichiarazioni all’esaurirsi dell’esperienza di Mount Baldy: «Ho deciso di entrare nel monastero di Roshi (il suo maestro, nda) perché cercavo delle risposte. E ci sono rimasto più di quanto pensassi perché il maestro era affidato alle mie cure e adorava le mie zuppe di pollo. Non cercavo una nuova religione né l’ebbrezza di una conversione o di un’abiura. Mi sono tagliato i capelli, ho indossato l’abito del monaco zen, ma non ho mai nuotato in altri oceani, sono nato ebreo e morirò ebreo, la religione di famiglia già soddisfa tutti i miei appetiti spirituali. Tornare a casa è stata una bella sensazione». E ancora: «Sono diventato un monaco perché questa era la forma che il mio maestro aveva scelto: per studiare con lui era appropriata e direi anche naturale. Ma nello zen non c’è Dio, non c’è affermazione né negazione di Dio, e dunque non c’è mai stato alcun conflitto con la mia vecchia religione».

Il Nostro non è stato certo un autore prolifico – appena quattordici album in studio in un quarantennio di carriera, compreso l’appena uscito You want it darker – ma ha saputo suscitare l’ammirazione di diversi suoi colleghi (Bono degli U2 e Jeff Buckley, tanto per fare solo un paio di esempi notevoli) che lo hanno omaggiato con un numero pressoché sterminato di cover. Su tutte, la celeberrima Hallelujah, titolo che allude alla preghiera di lode a Dio nella liturgia ebraica, che ha fatto scorrere i proverbiali fiumi d’inchiostro e registrato una serie pressoché infinita di reinterpretazioni.

Cohen è riuscito a raccontare come pochi il suo tempo cercando, come ha sottolineato Gianfranco Ravasi su Il Sole 24 ore del 1° settembre 2010, «di intrecciare nel suo pensare, scrivere e cantare, spirito e corpo, mito e storia, mistica e amore, sacro e profano, ma soprattutto Dio e uomo, avendo sempre accesa nel suo cielo la stella della Bibbia». E, aggiungo, raccontando le inquietudini umane alla luce di una fede che, proprio perché finita e imperfetta, ha saputo affascinare generazioni di fedeli ascoltatori. Perché le domande sull’esistenza sono le stesse per tutti, e le risposte che ha provato a dare quello che mi piace definire il canadese errante, così pregne di armonia e bellezza, possono servire, anche solo in parte, a noi tutti. Perché, come dice lui, «ogni canzone che ti consente di dare via te stesso è una buona preghiera».

Si vada al secondo album di Cohen, Songs from a room, del 1969, seguito evidente di Songs of Leonard Cohen, uscito due anni prima, ancora con un titolo minimalista: vi campeggia un pezzo dall’esplicita ispirazione biblica: Story of Isaac (La storia di Isacco). L’autore vi rilegge il famoso passo contenuto in Genesi 22,1-19, la messa alla prova del patriarca Abramo; quello che la tradizione cristiana conosce come il sacrificio di Isacco, e quella ebraica come la akedà, vale a dire la legatura (in riferimento alla condizione di Isacco quale potenziale vittima sacrificale). Egli compie una sorta di midrash, aggiornando il dato biblico e filtrandolo con la propria sensibilità pacifista. Il primo elemento di novità è, nella canzone, lo spostamento del punto di vista, che in Genesi vede in primo piano il narratore onnisciente e il personaggio di Abramo, e qui invece è quello di Isacco. Isacco, la vittima. Il figlio tanto atteso e giunto in tardissima età, il figlio della speranza. Isacco/Cohen, nell’ultima strofa della canzone, grida la sua alterità, la sua non riducibilità alla logica del tempo presente, piatto e massificato: «And if you call me Brother now,/ forgive me if I enquire:/ Just according to whose plan?». Ovvero: nulla mi obbligherà a essere come voi, perché ho scelto di non essere come mio padre e sono qui, legato sull’altare come i vostri figli, pronto a testimoniarvelo. È tempo di cambiare.

Darker

Questa è la chiave attraverso la quale ascoltare il suo estremo, e letteralmente meraviglioso, album: un testamento trasparente, You want it darker. In esso Cohen chiude il cerchio di una carriera straordinaria, facendo interagire, nel pezzo che dà il titolo al CD, un coro maschile da sinagoga con la propria voce roca e abissale in un fiume carsico del tutto pacificato, fino a dire: «Hineni Hineni (Eccomi qui, rivolto a Dio), sono pronto, mio Signore». Lui che, una volta, si è lasciato scappare questa considerazione: «Mi piace la compagnia dei monaci e delle suore e dei credenti ed estremisti di ogni genere, e mi sono sempre sentito a casa tra le persone di quella fascia. Io non so esattamente perché, so che rende solo le cose più interessanti…».

Anche se forse la descrizione più calzante di Cohen è stata fatta da un suo collega, il chitarrista The Edge degli U2, all’interno del film a lui dedicato nel 2005 I’m your man. Ecco come lo presentava: «Quando penso a Leonard, ripenso ai primi tempi della cristianità, quando si capì che, per udire la voce di Dio, bisognava andare in un posto molto tranquillo. Fu così che nacquero le prime forme di vita monastica. La gente si isolava in aree di natura incontaminata: meditava e ascoltava con attenzione, digiunando. In Irlanda, si spinse oltre: si murò in poche stanze senza porte né finestre, ma con una piccola apertura attraverso la quale riceveva il cibo. Non credo che Leonard si sia mai spinto fino a quel punto, ma per me è colui che è sceso dal monte con le tavole di pietra, dopo essere stato lassù a parlare con gli angeli».

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