Sotto i nostri occhi, l’aggressione della Federazione russa sull’Ucraina sta provocando la fuga dalle proprie case di centinaia di migliaia di persone, in particolare donne e bambini, alla ricerca di riparo e protezione. I profughi hanno sperimentato traumi, terrore, violenze, deprivazioni, fame, lutti familiari, rottura violenta delle relazioni della vita quotidiana. Se vogliamo accoglierli bene, dobbiamo riconoscere loro il diritto di star male e riconoscerne le ragioni.
Attacchi terroristici, guerre, bombardamenti, incidenti aerei, stermini di massa, ma anche terremoti, inondazioni e altri tragici eventi, producono effetti drammatici sulla salute mentale dei sopravvissuti, dei familiari, dei conoscenti. Tali esperienze possono lasciare tracce profonde, indurre disturbi strutturati e duraturi nel tempo.
Tale complesso di traumi è stato codificato negli Stati Uniti – quindi nei manuali diagnostici oggi in uso – quale Post Traumatic Stress Disorder, PTSD. Gli iniziali studi al riguardo – che hanno preso le mosse a partire dal trattamento dei disturbi disabilitanti dei reduci dal Vietnam – sono stati confermati da quelli condotti su sopravvissuti della Shoah e da catastrofi naturali quali i terremoti e le guerre in Bosnia, Siria, Libano. Il PTSD può manifestarsi in persone di tutte le età, dai bambini e adolescenti agli adulti, nei testimoni, nei soccorritori coinvolti.
Le persone hanno una diversa suscettibilità e vulnerabilità rispetto agli stress a cui sono sottoposte, anche in relazione al maggiore o minore coinvolgimento diretto nell’esperienza traumatica. Tra i fattori che contribuiscono allo sviluppo a vari livelli del PTSD, vi sono le caratteristiche specifiche dell’evento causale e il grado o la modalità di esposizione della vittima, le caratteristiche degli individui rispetto alla loro storia medica, psicologica e familiare, le modalità di gestione della sofferenza nel periodo post-trauma.
Vi sono vittime che manifestano stati d’ansia e cattivi ricordi che si risolvono con un adeguato trattamento rapidamente. All’opposto, vi sono individui nei quali l’evento traumatico causa effetti negativi a lungo termine, come testimoniano ricerche su persone esposte a violenza, tortura, maltrattamenti continuativi.
Un trauma rivissuto
Secondo il National Institute of Mental Health (NIMH) statunitense, caratteristico del PTSD è il fatto che la vittima riviva ripetutamente l’esperienza traumatizzante sotto forma di flashback, ricordi, incubi e/o in occasione di anniversari e commemorazioni. Le persone affette da PTSD manifestano difficoltà nel controllo delle emozioni, irritabilità, rabbia improvvisa o confusione emotiva, depressione e ansia, insonnia, ma anche determinazione a evitare qualunque situazione che li porti a ricordare l’evento traumatico.
Dal punto di vista più prettamente fisico, alcuni sintomi sono dolori al torace, capogiri, problemi gastrointestinali, emicranie, indebolimento del sistema immunitario. Tali sintomi possono durare per mesi e accompagnarsi a depressione, abuso di sostanze, disturbi d’ansia cronici. La diagnosi di PTSD è appropriata quando, sempre secondo il NIMH, il paziente presenta i sintomi caratteristici per un periodo di oltre un mese dall’evento causale.
L’American Psychiatric Association (APA) ha proposto un elenco dettagliato e schematico dei sintomi del PTSD. Secondo l’APA, i sintomi compaiono solitamente entro tre mesi dal trauma, anche se in qualche caso lo stato di stress manifesto appare più tardi. I sintomi sono classificabili in tre categorie ben definite:
- episodi di intrusione, ossia ricordi che si manifestano improvvisamente in modo molto vivido, accompagnati da emozioni dolorose tali da “rivivere” il dramma. A volte, l’esperienza è talmente forte da riproporre la stessa intensità dell’evento;
- volontà di evitare e mancata elaborazione, ossia l’individuo cerca di evitare contatti con chiunque e con qualunque cosa che lo riporti in qualche maniera al trauma; inizialmente la persona sperimenta uno stato emozionale di disinteresse e di distacco, riducendo la sua capacità di interazione emotiva sino a condurre attività solo molto semplici e di routine; nel contempo, si manifesta frequentemente il senso di colpa di essere sopravvissuto e/o di non aver potuto salvare altri individui. La mancata elaborazione emozionale causa un accumulo di ansia e di tensione che può cronicizzarsi portando a veri e propri stati depressivi;
- ipersensibilità e ipervigilanza, ossia le persone si comportano come se fossero costantemente minacciate dal trauma, reagiscono in modo violento e improvviso, non riescono a concentrarsi, hanno problemi di memoria e si sentono costantemente in pericolo; a volte, per alleviare il proprio stato di dolore, si rivolgono al consumo di alcol o di droghe; una persona affetta da PTSD può anche perdere il controllo sulla propria vita ed essere a rischio di comportamenti suicidi.
Non esiste un consenso generale sul modo di cura delle persone affette da PTSD. Non è neppure escluso che il PTSD si risolva senza specifici trattamenti, se l’individuo è assistito e aiutato nell’ambiente familiare e comunitario e se le sue risorse personali lo consentono. Tuttavia, in generale, una forma di trattamento è auspicabile prima che i sintomi degenerino in forme croniche.
Importante è naturalmente la consapevolezza del rischio di sviluppare il disturbo che devono possedere sia le vittime, sia le persone in qualche modo coinvolte. È fondamentale che il trattamento parta dall’informazione dei superstiti e delle loro famiglie sulla possibilità e sulle modalità di sviluppo del PTSD per favorire il riconoscimento dei sintomi nelle settimane successive, e agire rapidamente per gestire la sofferenza.
Dobbiamo dunque considerare che la popolazione dei rifugiati non è omogenea per età e sesso. Può ritrovarsi in campi, in centri temporanei di accoglienza o in abitazioni private nei Paesi ospitanti. Può trattarsi di persone sole o di famiglie e parti di famiglie, in ogni caso in condizioni e contesti della vita quotidiana assai diversi rispetto al tempo precedente gli eventi e i fattori di stress.
Risulta evidente come un buon processo di integrazione sociale sia un eccellente fattore di protezione e di promozione della salute mentale, così come lo sono la comprensione o il possesso della lingua del Paese che ospita, la possibilità di lavorare, ottenere presto un’occupazione, essere ascoltati e protagonisti partecipi del racconto delle esperienze traumatiche, poter contare sul sostegno sociale e psicologico specialistico e quindi sulla disponibilità di servizi istituzionali di comunità facilmente accessibili.
Quanto abbiamo qui definito PTSD è la risposta individuale a tragedie collettive, a traumi la cui intensità ha superato le possibilità della persona di reagire organizzando la propria emotività, scossa da vissuti di terrore e da sensazioni di totale impotenza che tendono a ritornare nel tempo, compromettendo le capacità di funzionare nella vita quotidiana secondo le attese degli ospitanti.
La prevenzione e il trattamento delle sofferenze e dei disturbi da traumi bellici e catastrofi naturali sono campo di elezione di un lavoro di accoglienza e cura che tiene conto di tutti gli aspetti psicologici, fisici e relazionali.
Auspico che gli organizzatori dell’accoglienza delle decine di migliaia di persone – di tutte le età – in fuga dall’Ucraina, anche in Italia, sappiano considerare il rischio di PTSD e quindi predisporre occasioni, luoghi di ascolto, servizi adeguati.