La seconda monografia del 2022 della rivista Presbyteri si concentra sulla relazione che lega il vescovo e i preti. Un terreno «delicato», con molte ricadute sia sul piano personale che pastorale. La riflessione poggia sulle radici bibliche e su una approfondita rilettura della teologia conciliare, per inserirsi nell’oggi, con le sue sfide, al fine di trovare forme e luoghi per una concreta collaborazione, capace di diventare anche corresponsabilità e reciprocità nell’aiuto. Pubblichiamo di seguito l’editoriale firmato da don Nico Dal Molin.
Nel racconto della chiamata dei Dodici, proposto da Marco (3,13-19), non può sfuggire come, da quell’elenco di nomi, emerga chiaramente quanto essi siano diversi tra loro. Di alcuni conosciamo qualcosa di più rispetto agli altri. Sappiamo che in comune hanno la stessa area culturale, erano probabilmente tutti originari dalla Galilea, provenendo dalle città e dai villaggi intorno al lago di Tiberiade.
Ognuno è chiamato per nome, ma dietro a quel nome c’è una storia, c’è una vita. Succede così anche nelle nostre comunità cristiane: ci sono volti molto familiari e a noi strettamente legati da amicizia, collaborazione, vicinanza; di altri invece conosciamo appena il nome o al massimo qualche piccolo frammento di vita. Di altri ancora, a causa dei confini molto evanescenti delle appartenenze sociali e religiose, oggi, non conosciamo assolutamente nulla.
È sufficiente, però, che ci si ritrovi insieme per condividere la stessa fede, la stessa eucaristia, la stessa parola di Dio, perché si crei tra noi un filo invisibile agli occhi, che talvolta risulta essere anche più forte di alcuni legami di parentela.
Gruppo eterogeneo
È quanto Gesù vive con «i Dodici»: un gruppo che raccoglie volti e nomi con identità ben marcate, con caratteristiche piuttosto diverse, eppure «insieme» formano una unità. Non sempre c’è accordo, neppure c’è sempre amicizia tra loro, però «insieme» seguono il Maestro.
Ciascuno porta il proprio nome, alcuni ne ricevono uno nuovo. A Simone viene dato il nome di Pietro, la roccia su cui la misericordia di Dio costruisce la sua Chiesa. Altri ricevono i nomi di «Boanèrghes, i figli del tuono», una definizione che accomuna i fratelli Giacomo e Giovanni, paragonati ai fulmini, forse per il tratto impulsivo del loro carattere o per la loro ambizione. Di uno già si anticipa che sarà il traditore di Gesù, colui che lo consegnerà a un destino di passione e di morte.
Di questo gruppo di discepoli così eterogeneo, probabilmente si ricordò anche san Francesco d’Assisi quando, alla richiesta di delineare un identikit dell’autentico frate minore, disse che non poteva esserci un’unica figura di riferimento, ma che la vera fraternità nasce dalla sintesi di persone diverse.
Così parlò della fede di Bernardo, della semplicità e trasparenza di Leone, della gentilezza e bontà di Angelo, del buon senso e della dolcezza di Masseo. E si ricordò dell’intelligenza di Egidio, della preghiera di Rufino, della pazienza di Ginepro, della robustezza fisica e spirituale di Giovanni delle Lodi, della carità di Ruggero e della inquietudine di Lucido, che non sapeva stare per più di un mese nello stesso luogo.[1]
Questa è la Chiesa: una pluralità di nomi e di vite, di doni e di limiti, di santi e di peccatori riconciliati. Questo potrebbe essere un presbiterio insieme con il proprio vescovo: un gruppo di persone che non ha nulla di eccezionale ma che condivide «la sfida di scoprire e trasmettere la “mistica” di vivere insieme, di mescolarsi, di incontrarsi, di prendersi in braccio, di appoggiarsi, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio».[2]
Chiesa è relazione… insieme
Non vuole essere solo uno slogan, perché questo è uno dei capitoli dell’interessante analisi proposta nel saggio Il gregge smarrito. Chiesa e società nell’anno della pandemia.[3]
Il professor De Rita, nella sua introduzione, puntualizza in maniera nitida ciò che tutti noi abbiamo sperimentato e stiamo tuttora toccando con mano: i due anni di pandemia sono stati, per la Chiesa Italiana, un difficile banco di prova.
Nel testo si dice: «Una riflessione tutta interna alla Chiesa oggi rischierebbe di essere infruttuosa, la vita della Chiesa è nella relazione e questa è anche una grande testimonianza che deve dare al mondo». E continua: «In una società sempre più vittima dell’individualismo, i richiami a tornare al “noi” rischiano di rimanere solo uno slogan; la cultura cattolica della centralità della persona umana, può superare l’individualismo non tanto con un ritorno indietro, ma dando completezza all’Io che, nella relazione positiva con l’altro, realizza pienamente sé stesso».
Come non ricordare quello straordinario momento di preghiera che papa Francesco propose alla Chiesa e all’umanità, la sera del 27 marzo 2020? Come non lasciarsi provocare da quelle parole che possono essere il vademecum del cammino sinodale in corso?
«Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti».
Questa è la forza dell’insieme, del camminare e del sorreggersi insieme, del pensare e del progettare insieme, di una reale emancipazione di quella coscienza fraterna capace di dare coraggio e un maggiore senso di responsabilità nel dare, nel ricevere e nell’illuminarsi vicendevolmente.
In questi mesi, che si sono drammaticamente complicati per la guerra in Ucraina, è ancora più necessario maturare una reale e concreta consapevolezza che ogni ricostruzione, ogni progettazione, ogni speranza di un futuro diverso si fonda sull’aiuto reciproco.
Non vale solo per la società civile, perché questo è anche il senso profondo dell’essere Chiesa. Parafrasando una espressione dello scrittore A. de Saint-Exupéry, potremmo dire che il vero cammino insieme «non è guardarsi l’un l’altro, ma è guardare insieme nella stessa direzione».[4]
Un gioco di squadra… insieme
Recentemente, in un incontro con i giovani preti in cui si rifletteva sulla formazione iniziale e permanente al presbiterato, uno di loro ha fatto notare che un obiettivo del cammino formativo dovrebbe essere quello di preparare il presbitero all’esercizio della leadership e che una buona leadership pastorale richiede qualche strumento per essere un po’ mental coach e un po’ team builder.
Detto così suona come un approccio piuttosto laico e soprattutto aziendale, ma personalmente questa affermazione mi ha fatto molto riflettere. Certo, la priorità della formazione, in ogni fase della vita, è quella di rimotivare il proprio cammino di fede e di sequela del Signore Gesù nella testimonianza del suo Vangelo.
Lo ricorda san Paolo scrivendo a Timoteo: «Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio (anazôpyrein to charisma), che è in te mediante l’imposizione delle mie mani» (2Tm 1,6).
È vero però che il presbitero è chiamato ad essere anche un po’ mental coach, o forse più che un allenatore di menti, un allenatore di cuori. È colui che, alla luce della Parola, può riscaldare il cuore delle persone e aiutarle a non lasciarsi imbrigliare dalla sfiducia o dall’apatia, ma a tirare fuori il meglio di sé.
È altrettanto vero, poi, che ogni prete è chiamato non a muoversi come un battitore libero ma ad essere piuttosto costruttore di un gioco di squadra (team building), ad aiutare le persone che gli sono affidate a saper stare insieme, a lavorare e a costruire insieme un progetto di vita comunitaria.
Mi è tornata alla mente la partita finale degli Europei di calcio dell’11 luglio 2021 quando, allo stadio Wembley di Londra, la nazionale italiana ha portato a casa una vittoria inaspettata battendo l’Inghilterra. A detta degli esperti, quella italiana non era certo la squadra più forte; in altre nazionali giocavano dei fuoriclasse unanimemente riconosciuti ma, in quel caso, è risultata determinante la capacità «di fare e di essere squadra».
Potremmo dire che ogni presbitero è il regista del gioco di squadra nella parrocchia o nella unità pastorale dove opera, e che il vescovo è l’allenatore e il regista nel «gioco di squadra» del suo presbiterio.
Preti e vescovo… insieme
Il Concilio Vaticano II, avendo messo al centro l’idea della Chiesa come «popolo di Dio», favorisce un’importante ricomprensione del ministero ordinato.
In quest’ottica va letto e riattualizzato il decreto Presbyterorum ordinis che, in particolare al n. 7, va al cuore di questa riflessione: la relazione tra presbiteri e vescovo è essenziale non solo in prospettiva funzionale, ma soprattutto per il suo fondamento sacramentale. Il decreto conciliare afferma che «tutti i presbiteri, insieme ai vescovi, partecipano del medesimo e unico sacerdozio e ministero di Cristo in modo tale che la stessa unità di consacrazione e missione esige la loro comunione gerarchica con l’ordine dei vescovi» (PO 7a).
È sempre PO a definire che una delle priorità del servizio episcopale deve essere l’interesse e la cura del vescovo per il proprio presbiterio. «Per questa comune partecipazione nel medesimo sacerdozio e ministero, i vescovi considerino dunque i presbiteri come fratelli e amici, e stia loro a cuore, in tutto ciò che possono, il loro benessere materiale e soprattutto spirituale. È ai vescovi, infatti, che incombe in primo luogo la grave responsabilità della santità dei loro sacerdoti: essi devono pertanto prendersi cura con la massima serietà della formazione permanente del proprio presbiterio» (PO 7c).
Ci sono sicuramente molte opportunità perché questo si realizzi, ma una via diretta e semplice è di praticare l’arte del «parlare insieme».
Sorprende sempre il racconto del cammino che Gesù compie insieme con i due discepoli diretti ad Emmaus. È uno sconosciuto qualsiasi che si unisce a loro, conversando lungo il cammino. Gesù era un uomo di conversazione, soprattutto con le persone difficili; basterebbe ricordare lo straordinario incontro con la donna samaritana al pozzo.
Timothy Radcliffe, incontrando il presbiterio di Bologna, ha detto: «Al centro della vocazione del sacerdote c’è l’arte della conversazione (…) Il presbitero dovrebbe essere qualcuno a cui piace parlare con le altre persone, soprattutto se non sono d’accordo con lui. C’è bisogno di fiducia per parlare e di umiltà per ascoltare (…) Noi abbiamo bisogno l’uno dell’altro. Non siamo mai preti solitari, ciascuno con la sua vocazione privata. Insieme come presbiterio, ciascuno con il suo diverso ruolo, facilitiamo il complesso dialogo tra la Chiesa e la Parola, il Vangelo e la realtà secolare, Gerusalemme ed Emmaus».[5]
Un dialogo sincero, un dialogo costante, un dialogo sereno tra preti e vescovo, insieme. Non è solo un desiderio, è una necessità.
[1] Il testo completo lo si trova in “Fonti Francescane” n. 1782, Come descrisse loro il frate perfetto, Specchio di perfezione, cap. 85; Editrici Francescane, Padova 2011.
[2] Francesco, Evangelii gaudium 87.
[3] Essere Qui, Il gregge smarrito. Chiesa e società nell’anno della pandemia (introduzione di Giuseppe De Rita), Rubettino, Catanzaro 2021.
[4] Antoine de Saint-Exupéry, Terra degli uomini (ediz. francese 1939), Mursia, Milano 2013.
[5] Timothy Radcliffe o.p., Cosa significa essere preti oggi?, Riflessione sull’esercizio del ministero nel nostro tempo proposta nel corso della “Tre giorni del clero” della diocesi di Bologna, 16 settembre 2021.