Il vanto del credente

di:

romani

La tesi di dottorato in Teologia biblica difesa nel 2020 presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale dalla suora Francescana Missionaria di Gesù Bambino, Anna Maria Borghi, ha per tema il lessico del “vanto” – chaukaomai, chaukēsis ecc. – quale espressione particolare della nuova identità del credente, personale e relazionale, in Gesù Cristo come unico salvatore.

L’autrice analizza il tema nella Lettera ai Romani (in specie Rm 1–5), ma anche nelle pericopi di Fil 3,2-16 e Gal 6,11-17.

Borghi ricostruisce dapprima la storia della ricerca sul motivo del vanto all’interno della soteriologia paolina (c. I, pp. 9-48). I primi passi degli studi consideravano la critica di Paolo rivolta contro il vanto del giudaismo considerato come una religione fondata sulle opere, una religione automeritoria.

Con E.P. Sanders e J.D. Dunn iniziò il periodo della Nuova Prospettiva su Paolo: il vanto criticato sarebbe quello fondato su una base etnica, quello cioè di essere il popolo scelto da Dio.

Una fase ulteriore è segnata dall’opera di N.T. Wright con la Fresh Perspective: si criticherebbe il vanto nazionale di chi si dichiara la “soluzione” al problema dell’umanità. Con J.M.G. Barclay il vanto criticato sarebbe quello considerato come negazione dell’incongruità della grazia.

Il vanto dei giudei

L’autrice studia il vanto come lessico soteriologico relativo all’identità del credente come un suo elemento fondativo.

Il metodo di studio utilizzato da Borghi (c. II, pp. 49-58) è quello sincronico-pragmatico, caratterizzato da un’integrazione del profilo letterario del genere epistolografico a quello retorico, che insieme qualificano gli scritti paolini, in particolare la pericope di Rm 1–5 presa in esame.

Si procede quindi a una ricognizione semantico-lessicografica dei lessemi facenti parte del campo semantico del vanto, per scoprirne il valore intrinseco e i possibili ambiti di pertinenza (c. III, pp. 59-80).

Il c. IV della ricerca (pp. 81-152) studia il vanto giudaico che viene contestato. Dopo il prescritto (Rm 1,1-7) e l’esordio (Rm 1,8-17), Rm 1,18–3,20 contiene la prima parte della probatio della tesi esposta in Rm 1,16-17. Rm 2,17-24 e 2,25-29 rientrano nella pars destruens paolina rispetto al vanto giudaico.

L’autrice procede con un’analisi esegetica a tutto campo. Paolo contesta il vanto del giudeo a partire dalla sua trasgressione della Legge e, a partire dalle implicazioni del vanto contestato al giudeo, si riformulano i criteri della sua identità.

Nel c. V (pp. 153-228) l’autrice procede ad analizzare il vanto giudaico che viene escluso. Rm 3,21-31 e Rm 4 rientrano nella pars costruens della prima parte della lettera paolina. Anche in questo caso si analizzano le pericopi a livello esegetico.

In Rm 3,21-31 l’esclusione del vanto giudaico viene motivato con l’evento della giustizia di Dio per mezzo della fede di Gesù Cristo.

In Rm 4,1-25 si smentisce il vanto di Abramo in virtù della giustizia di Dio senza Legge testimoniata dalla Legge. Abramo è giustificato per la sua fede quando era ancora pagano e incirconciso. E questo viene riconosciuto dalla Legge in quanto Scrittura e profezia. In conclusione, si afferma che il vanto giudaico viene escluso dalla “legge della fede” che Dio gratuitamente computa a giustizia “per tutti quelli che credono” come Abramo.

Il vanto legato alle opere è negato per ben due volte. Esplicitamente escluso nella prima ricorrenza, è supposto ma poi smentito nella seconda. Tutto questo «in virtù della fede, cioè come nella prima parte della probatio è desunto come corollario soteriologico di un principio teologico. Esso giunge a configurare a livello fondativo l’identità credente in modo del tutto indipendente dalla dimensione etnica» (p. 224).

Gli statuti etnici del giudeo e del gentile rimangono distinti – né confusi né negati –, ma vengono equiparati anche davanti alla paternità e all’eredità della promessa di Dio ad Abramo solo in virtù della medesima fede. Invalidando il suo ipotetico vanto per le opere, Paolo «implica l’equiparazione della condizione del Patriarca non solo a quella dei Gentili che non hanno opere ma anche a quella dei Giudei rispetto ai quali egli non costituisce un caso unico perché la Scrittura attesta che fin dall’inizio e per tutti l’unico criterio della giustizia di Dio è la fede, radice della sua paternità e dell’eredità della promessa per tutti» (p. 227).

In sintesi, conclude l’autrice, «quel vangelo che Paolo aveva enunciato fin dall’incipit della lettera (Rm 1,1-2), quella giustizia di Dio per la fede della propositio generale (Rm 1,16-17), qualificata in rapporto a Cristo a partire da Rm 3,21-22a, è per tutti coloro che credono, “per il Giudeo prima e poi per il Greco”, per dirla con un’espressione che Paolo più volte ha reiterato e che, nella chiusura di Rm 4, non riprende, plausibilmente perché ormai l’identità credente, che invece è replicata più e più volte, riunisce gli statuti etnici senza alcuna distinzione in ordine alla giustificazione e quindi senza alcun vanto davanti a Dio» (ivi).

Il vanto del credente

Il c. VI (pp. 229-274) rappresenta il nucleo centrale del lavoro dell’autrice. Si analizza a livello esegetico Rm 5,1-11 dove viene espresso per tre volte il vanto del credente in Dio per mezzo di Gesù Cristo (vv. 2.3.11).

Dopo aver studiato il vocabolario, i soggetti implicati, le forme verbali e le figure di stile, si conclude con il riconoscere che il vanto del credente è una categoria della soteriologia paolina. Il vanto del credente riposa in Dio per mezzo del Signore Gesù Cristo, nel quale si è manifestato l’amore di Dio verso i deboli, gli empi, i peccatori e i nemici. Con la morte del Figlio, Dio ci ha giustificati e riconciliati a sé gratuitamente e ci ha indirizzati verso la pienezza della salvezza. Il v. 11 recita (CEI 2008): «Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora abbiamo ottenuto la riconciliazione».

Rm 5,1-11 presenta, in definitiva, un profilo altamente cristologico ed espone le implicanze relative allo statuto presente e futuro dei credenti a partire dalle conclusione a cui si è giunti in Rm 1–4.

Gli statuti etnici dei giudei e dei gentili sono equiparati, pur rimanendo distinti. Per ben tre volte si menziona il vanto, ma esso non ha un fondamento antropologico bensì cristologico.

Nel v. 2 il fondamento del vanto è dato dalla charis/grazia che è la “morfologia” essenziale dell’agire di Dio rivelato e partecipato in Cristo. Indipendentemente dalla condizione del ricevente e da un’appartenenza etnica precisa, il credente è certo del suo compimento in un possesso della gloria di Dio, cioè della partecipazione soggettiva alla stessa vita di Dio. Tra speranza e gloria c’è una tensione escatologica, che connota anche la condizione del credente tra passato, presente e futuro.

Il dono della grazia è certo in Cristo, al presente, ma il credente si vanta non solo di questo ma anche del suo compimento futuro. Assieme ad altre categorie soteriologiche di partecipazione, Paolo assume anche quella del vanto quale lessico particolarmente propizio a enunciarne l’elemento fondativo.

La seconda ricorrenza del lessico del vanto si ha al v. 3. Il vantarsi del credente nelle tribolazioni assume un carattere paradossale. Ciò «che potrebbe ergersi a smentita della consistenza dell’identità fondata sulla grazia del dono di Cristo e sostenuta nella certezza del suo compimento ne è in realtà la sua più efficace conferma e occasione di crescita della medesima speranza sulla quale poggia» (p. 272).

La terza ricorrenza del lessico del vanto, al v. 11, richiama le prime due e compendia in qualche modo l’intera identità credente delineata nella pericope. Il vanto si fonda nella relazione con Dio ed è una positiva alternativa al vanto giudaico contestato ed escluso.

L’autrice concorda con S. Bosch «quando afferma che il credente Gentile eredita il vanto giudaico, positiva dichiarazione di una relazione fondante con Dio, che avevamo visto contestato non in sé. Esso peraltro si conferma quale eredità dalla LXX che Paolo senza reticenze raccoglie e riformula alla luce della nuova economia salvifica» (p. 272).

Paolo aveva contestato il vanto giudaico di una condizione previlegiata rispetto al gentile in ordine alla relazione con Dio in virtù del possesso della Legge. Lo aveva fatto per l’incoerenza nell’osservare quella medesima Legge e poi escluso in virtù della rivelazione di Dio in Cristo, che appare ora unica possibile mediazione per la fede.

Le due forme di mediazione sono disomogenee: la prima (quella della Legge) è strumentale, la seconda è personale, come sottolinea il lessico di Rm 5,1-11, che accenna anche ad altre categorie di partecipazione.

«Il vanto di cui Paolo non si vergogna (o si vanta) – afferma la studiosa – è salvezza per tutti, Giudei e Gentili, solamente nella forma di un rapporto personale che anche il lessico del vanto iscrive nella sua formulazione paradossale». E conclude: «Altra configurazione del profilo fondativo dell’identità del credente che non sia quella di un rapporto di affidamento di persona (del credente appunto) a persona (in Dio) e per mezzo di una persona (il Signore nostro Gesù Cristo) non sussiste. E questo, lo ribadiamo, è per tutti, Giudei e Gentili, per il “noi” della totalità dei credenti» (p. 273).

L’unico vanto è Cristo Gesù

Nelle conclusioni tratte dall’autrice (pp. 275ss), si descrive il profilo fondativo personale e relazionale dell’identità del credente inscritto nel lessico del vanto. L’identità del credente è connotata totalmente da un fondamento personale e relazionale con Cristo Gesù, con l’esclusione di altri supposti mezzi di salvezza che possano mettersi sullo stesso piano accanto all’unicità di Gesù Cristo mediatore unico di salvezza donata gratuitamente da Dio Padre e appropriata dal credente con la fede. Dalla pars destruens del vanto a quella construens, esiste nella Lettera ai Romani il dibattito come percorso relativo all’autentico fondamento personale e relazionale dell’identità credente.

Borghi prende in esame più velocemente anche le pericopi di Fil 3,2-16 (pp. 283-293) e di Gal 6,11-17 (pp. 294-299).

Come nella Lettera ai Romani, anche Fil 3,2-16 sottolinea il vanto del credente in Gesù Cristo.

Gal 6,11-17 esprime a sua volta il vanto del credente fondato sulla croce del Signore nostro Gesù Cristo.

Il messaggio di Paolo non può essere limitato ai destinatari storici della sua lettera, ma è rivolto evidentemente anche ai lettori odierni che vogliano aprirsi alla fede. Il profilo fondativo personale e relazionale dell’identità del credente inscritto nel lessico del vanto vale per ogni “lettore” che crede.

Il volume di Borghi si conclude con l’abbondante bibliografia (pp. 303-320), l’indice delle citazioni bibliche (pp. 321-332) e quello degli autori (pp. 333-337).

Nato da stimoli ricevuti durante un corso tenuto alla FTIS da Stefano Romanello sull’identità del credente nelle lettere paoline, la tesi dottorale di A.M. Borghi si inserisce perfettamente in questa linea, sviluppando un elemento che può apparire periferico, ma che appartiene intrinsecamente all’identità fondativa del credente in Cristo Gesù. La sua natura personale e relazionale, fondata in un rapporto da persona a persona che non è strumentale come quella offerta dalla Legge, presenta il profilo dell’identità del credente che può ben vantarsi nella grazia offertagli da Dio Padre in Cristo Gesù Signore, accolta nella fede assieme allo Spirito Santo riversato nel suo cuore.

  • ANNA MARIA BORGHI, Il vanto nella Lettera ai Romani. Un profilo dell’identità credente (Dissertatio Series Mediolanensis – 31), Edizioni Glossa, Milano 2021, pp. 340, € 47,00, ISBN 9788871054698.
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