Romeo Castellucci: Requiem per Dio

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Regista, creatore di scene, luci e costumi, Romeo Castellucci (Cesena, 1960) è conosciuto in tutto il mondo per aver dato vita a un teatro fondato sulla totalità delle arti e rivolto a una percezione integrale dell’opera. Il suo teatro propone una drammaturgia che ribalta il primato della letteratura, facendo del suo teatro una complessa forma d’arte; un teatro fatto di immagini straordinariamente ricche espresso in un linguaggio comprensibile come la musica, la scultura, la pittura o l’architettura. Nel 1981, insieme a Claudia Castellucci, Chiara e Paolo Guidi (che ne fa parte fino al 1996), fonda la “Societas Raffaello Sanzio“, nella condivisione di un’idea di teatro dalla scena prevalentemente visiva, plastica e sonora. La compagnia si è presto distinta in tutto il mondo, nei principali festival e teatri internazionali. Dal 2006 la compagnia si trasforma in Societas, la cui azione comune è basata sulla produzione distinta delle opere di ciascuno, sulla promozione di idee e azioni teatrali di altri artisti e su tutte le iniziative empiriche che vanno sotto il nome di Istituto di Ricerca di Arte Applicata Societas, apice delle molte esperienze didattiche che hanno come fulcro il Teatro Comandini di Cesena, sede della compagnia e degli Osservatòri di Teatro, Danza, Musica da essa curati.

Il teatro di Romeo Castellucci porta con sé un’interrogazione che interpella, con  discrezione e precisione, l’esercizio della fede e la teologia. Questo, all’interno di un percorso estetico e artistico che fa del teatro un’istanza critica contro la pretesa totalitaria della realtà – ed è qui che troviamo, disseminati, gesti e atti raccolti dalla millenaria storia del cristianesimo.

In una traslazione che ne modifica l’assetto, svincolandoli dal loro ancoraggio alla versione ecclesiastica e consentendo così la riattivazione di una possibile interpretazione che viene lasciata alla libera percezione dello spettatore e della sua storia personale.

Certo, questa liberazione del lascito del cristianesimo, ancora disseminato nella secolarità contemporanea, ha un effetto di destabilizzazione per il canone teologico della fede – che si trova come spiazzato dalla malleabilità e delocalizzazione dei suoi gesti e delle sue pratiche più care. Effetto che, però, ha anche una valenza salutare per la stessa impresa del credere e per un esercizio della teologia nell’ora presente che tutti viviamo.

Se non altro, perché induce a pensare e lasciarsi investire da un’interrogazione che non cade sotto il controllo del suo potere. Condizione inusuale per una pratica teologica ancora troppo abituata a dare risposte più che formulare domande; e che fatica a disincagliarsi da una millenaria sicurezza di “sapere già” come le cose dovrebbero essere affinché possano apparire nella luce del Vangelo.

Se nell’anima profonda del teatro di Castellucci vi è un esercizio corporeo che prende la forma scenica (quindi momentanea, volatile, contingente) di un’interruzione dell’assolutismo della realtà, la percezione teologica vi può cogliere anche una cesura di quella volontà di potenza che allinea la realtà del cristianesimo con la sua destinazione evangelica – fino a farle coincidere tra di loro, erodendo così una dialettica originaria della stessa forma cristiana.

Quando i suoi gesti e le sue pratiche entrano in scena nel teatro di Castellucci, si apre la possibilità di percepire l’abilità dei gesti e delle pratiche cristiane di andare ad abitare altre scene del mondo e del vivere rispetto a quella fissata dal canone ecclesiastico della fede.

In questa ospitalità scenica, questi gesti e pratiche interrompono la linearità senza soluzione di continuità a cui troppo spesso cerchiamo di ricondurli; e lo fanno caricandosi sul proprio dorso anche tutta l’assolutezza che quella linearità vorrebbe garantire: entrando a teatro tutto il peso della loro codificazione univoca si sbriciola nel gesto che li mette in scena. Ed è grazie a questa frantumazione che tali gesti e pratiche rivelano un’operosità sopita e inattesa; la cui riattivazione, però, non solo non è più nelle loro corde, ma chiede anche di attraversare un momento di cesura, di perdita, un lutto, che essi non sembrano più in grado di celebrare a partire da sé.

Una volta riattivati sulla scena del teatro, gesti e pratiche del cristianesimo si trovano a essere altro da sé perché spogliati di ogni immunizzazione davanti alla percezione che, eventualmente, se ne appropria fuori dal canone che ancora ne organizza la presenza sulla scena del contemporaneo. Fosse anche solo per un momento, perché non più di questo può essere la pretesa del teatro secondo Castellucci.

La devozione scomparsa

In un mondo che si è trovato improvvisamente immerso in una sorta di lutto collettivo a causa della pandemia, ci siamo tutti ritrovati come sommersi da rappresentazioni funebri della morte che hanno invaso le nostre case, e i nostri animi, attraverso le immagini dei mezzi di comunicazione.

E abbiamo scoperto, con dolore lancinante, la mancanza nella nostra civilizzazione occidentale di devozioni che ci potessero sostenere nel portare il peso di una morte fattasi onnipresente. Pagando sulla nostra pelle l’assenza di gesti performativi che potessero introdurci, umanizzandolo, al lutto della perdita, della cesura senza congedo, dell’evidenza quasi brutale della finitudine che tutti ci accomuna.

In questa atmosfera turbata dall’infinitesimo di un virus, Romeo Castellucci è andato a pescare nella pietà popolare del Medioevo, riesumando la tradizione della danse macabre con il progetto “Milano”, per mettere in scena una performance che sospendesse, almeno per una notte, il potere totalizzante della rappresentazione, a cui tutti ci siamo consegnati da tempo, grazie a un esercizio devozionale del corpo che attraversa una città ignara di sé e del suo destino.

Anche un gesto artistico di questo genere chiama in causa, e intriga, la teologia; spingendola a interrogarsi sul senso e sulle ricadute di un cristianesimo moderno che sembra aver sancito la fine della legittimità di ogni devozione – proprio nel momento in cui più ce ne sarebbe bisogno: appunto, di gesti che fanno, di movimenti corporei di un accadere sentito e vissuto (per quanto fantasmatici essi possano essere).

E qui non si può sfuggire alla domanda sul perché la performance artistica sia in grado di riattivare senso ed efficacia di pratiche devozionali la cui declinazione ecclesiale riesce al massimo a rappresentarla come un residuo degno al più di un qualche cantuccio museale.

Il Requiem di Mozart

L’apertura delle “Wiener Festwochen” di quest’anno, con la messa in scena del Requiem di Mozart sotto la regia di Romeo Castellucci (qui la prima dell’opera – Aix-en-Provence, 2019), ha permesso un dialogo-incontro fra il suo teatro e il lavoro della teologia: che si è mosso tra religione e teatro, teologia e ritualità scenica – toccando nessi, intrecci e distanze tra la pratica teatrale e quella religiosa. Di questo scambio amicale raccolgo solo alcuni degli spunti emersi nel confronto e nel dibattitto col pubblico presente.

Si potrebbe partire da un dato storico, che è quello scelto da Castellucci per dare l’avvio al dialogo: ossia, il nesso fra la nascita del teatro moderno e la morte di Dio (con tutti gli effetti e ambivalenze legate alla dinamica sostitutiva che un tale evento può mettere in moto: dalla confessione estetica dell’arte come nuova religione a quella della fede della bellezza come salvezza). Così stimolata dal versante artistico, la teologia non può evitare di interrogarsi, e di cercare di comprendere, sulla forza generativa insita nel paradigma della morte di Dio. E, forse, deve iniziare a dismettere tutto l’armamentario che ha messo in campo per cercare di negarla – proprio perché così facendo si impedisce di cogliere il movimento generativo di cui essa è capace, anche per la fede.

Il peso dell’affermazione storica non cade però solo sulle spalle della teologia, anche il teatro è chiamato a dichiararsi davanti a essa. Castellucci circoscrive con moderazione e chiarezza il lavoro che compete alla messa in scena teatrale (nella sua distanza dalla religione): il teatro mira a far accendere nello spettatore una domanda, niente di più di questo. Domanda per cui il teatro confessa di non avere risposta, né di volerla cercare, perché questo compete eventualmente allo spettatore stesso se lo desidera. In questo modo, l’opera teatrale funziona, al massimo, da attivazione di un’interpretazione di cui essa non si fa, fin da principio carico, proprio perché non intende rappresentarla.

Quindi, seconda differenza dalla religione, il teatro lascia solo lo spettatore con questo suo lavoro tutto da fare: l’ultima scena sancisce, dunque, quella solitudine dello spettatore che si annuncia fin dall’inizio della messa in scena (come momento che fa parte di essa e che, quindi, la costringe a un’apertura che non può e non vuole dominare). Si potrebbe dire che l’opera teatrale finisce senza sapere come finisce – un non sapere, questo, che appunto le sottrae ogni potere sullo spettatore stesso e sulla sua interpretazione (per la quale neanche l’opera compita rappresenta un canone normativo).

Più puntualmente sul Requiem, Castellucci ha tenuto a precisare che non si tratta di un’opera di Mozart pensata per il teatro (per quanto la sua musica sia intrisa di elementi teatrali), quanto piuttosto per una messa funebre. Ora, ciò che colpisce il regista teatrale nel Requiem è una dissonanza che lo ha interrogato da lungo tempo: quella di una gioia di fondo che emerge da una musica pensata per celebrare il lutto della morte.

Se non erro, nella sua messa in scena del Requiem, questa gioia trova il suo riverbero soprattutto nei corpi che danzano – lungo una musica che si muove su parole gravose e cariche di un senso della finitudine che sembra paralizzare ogni gesto. Tutto questo mentre sullo sfondo del palcoscenico scorrono le immagini delle grandi estinzioni della storia del nostro pianeta – che sembra essere fatto così più da mancanze e vuoti di ciò che non è più, che dà ciò che occupa oggi i suoi spazi.

Da un lato, colpisce la forza estetica della scena teatrale capace di ospitare tutte queste dissonanze senza volerle risolvere in un’armonia superiore, ma anche senza arrendersi alla loro reciproca contraddittorietà che le vorrebbe scindere l’una dalle altre per dichiararne l’impossibilità della contemporaneità e della coesistenza.

D’altro lato, la messa in scena del Requiem ha anche il sapore di una restituzione: pensato per un atto liturgico (ma qui la critica musicale si divide), esso ha finito per avere più un destino concertistico che rituale. Il gesto di Castellucci, che lo porta al luogo improprio del teatro, lo riavvicina a quel tenore performativo e scenico che dovrebbe essere l’imbastitura portante della celebrazione cristiana.

Ed è proprio rispetto alla dimensione liturgica che si produce la vicinanza più alta fra teatro moderno e cattolicesimo. In merito, l’artista non può che registrare una crisi della qualità liturgica della celebrazione; che sembrerebbe annidarsi proprio nel punto di massima prossimità con il teatro: quello della ripetizione, appunto.

Se il teatro può tenere fermo davanti alla liturgia che la ripetizione non è un ostacolo, anzi, all’evento performativo in cui accade qualcosa, la teologia è indotta a chiedersi le ragioni di quella “perdita dei sensi” (Illich) per cui nella celebrazione cristiana non sembra accadere più nulla – attanagliata nell’involuzione di una ripetizione solo meccanica su una scena dove già tutto è scritto (e saputo) da prima.

Eppure, alla teologia così stimolata dal teatro sorge il dubbio che ci siano anche altre ragioni che sfociano nel fare della liturgia una dottrina e dei suoi gesti concetti. Finendo così per disattivare quella performatività che abita i gesti e le pratiche della celebrazione liturgica stessa. Ma ci si può spingere un po’ più in là, ricongiungendosi al punto dal quale tutto il dialogo è partito – ossia, dal nesso generativo fra morte di Dio e teatro moderno.

Appunto, se il teatro moderno si genera dal congedo di Dio (Caproni), allora è proprio questo evento che il lutto della fede dovrebbe celebrare per riconfermare la liturgia nella sua funzione performativa del e per il credere.

Invece, l’inquadramento ecclesiastico della fede ha finito per immunizzare la comunità credente dall’evento storico; e lo ha fatto più per preservare se stesso che per custodire una tradizione di pratiche e gesti ritenuti essere il bacino di una forza operosa a cui la fede stessa può attingere. L’eccesso di stabilizzazione con cui la Chiesa cattolica ha reagito alle evenienze storiche della modernità occidentale ha prodotto una liturgia museale, che in fin dei conti non chiede neanche di essere celebrata comunitariamente per poter diventare ciò che è. Trasformandola da strumento (sacramentale) di un accadere sorprendente e inatteso a un fine (istituzionale) in se stesso – di cui si può disporre come mezzo del proprio potere.

Solo quando sarà capace di celebrare il proprio requiem, su passi di danza che evocano una gioia controfattuale (e quindi mettono in scacco la pretesa assoluta della realtà), la Chiesa cattolica potrà forse trovare in questa stessa celebrazione la forza generativa racchiusa nel paradigma, troppo abusato o bistrattato, della morte di Dio.

Perché solo se celebrata, la fine si apre su orizzonti di una speranza inattesa – come un cucciolo d’uomo che a gattoni muove i suoi primi passi giocando con la realtà del mondo.

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