L’Ufficio catechistico nazionale ha dato vita a due seminari (14-15 gennaio; 21-22 aprile 2022) destinati ai Direttori degli Uffici catechistici regionali, ai membri della consulta nazionale UCN e ad esperti invitati. Si tratta di una fase previa al Convegno che si terrà dal 30 giugno al 2 luglio 2022, destinato ai Direttori degli Uffici catechistici diocesani.
L’obiettivo prossimo è sostenere la catechesi nella stagione successiva alla pandemia da Covid-19. L’obiettivo remoto consiste nel preparare un terreno di riflessione all’elaborazione dei nuovi strumenti per la catechesi.
L’incontro di aprile ha fatto scoprire armonie antiche e nuove tra l’umano e il divino, tra la scienza e il cammino cristiano, tra la grandezza e la fragilità di ogni vita. Nel racconto di ciò che è stato presentato possiamo intuire queste e altre armonie.
La coscienza dell’uomo
Il Convegno ecclesiale di Firenze del 2015 aveva inteso sollecitare una riflessione comunitaria che rimettesse al centro la questione dell’uomo e, al contempo, la questione della persona di Gesù Cristo. L’umanesimo integrale che interessa la Chiesa oggi è quello che riconosce e valorizza nell’uomo tutte le sue dimensioni: corporea, affettiva, intellettuale spirituale, sociale. Un umanesimo realistico, consapevole della grandezza, ma anche della fragilità umana, della capacità di compiere il bene ma anche della possibilità tragica di compiere il male.
Per questo diventa essenziale riprendere a formare la coscienza, la parte più intima e profonda della persona, in cui ciascuno matura le decisioni del suo destino.
Per il cristiano la formazione ha per paradigma l’esperienza che Gesù ha fatto fare ai suoi discepoli. Si tratta di un processo di affrancamento dal superfluo in vista di un esercizio maturo della libertà. Il cristiano mira ad usare le cose in vista del compimento del bene; cerca quindi di essere libero anche da sé, di non assolutizzare se stesso, i proprio bisogni e punti di vista, per acquisire uno sguardo più elevato e, infine, per donare tutto se stesso per il bene degli altri.
La questione del rendere ragione in maniera affidabile di quanto uno vive, è estremamente rilevante nella vita ecclesiale e nella catechesi, ma anche in altri contesti come quello della psicologia e delle scienze cognitive. Il mondo della catechesi non può evitare una riflessione proveniente da questi ambiti di ricerca.
Il contesto destabilizzato
La parola “catastrofe”, che in più occasioni è stata usata in questi ultimi due anni, è molto forte ma, se la prendiamo nel suo significato etimologico di “rivolgimento”, di “capovolgimento”, allora ha, assieme a note di enorme preoccupazione, anche sfumature che aprono a delle possibilità. È importante tentare di leggere il tempo pandemico e postpandemico, nel segno della creatività, del sostegno, del rafforzamento reciproco.
Mai come ora si sente la nostalgia delle relazioni “incarnate”, esperite in una corporeità vissuta. La relazione è centrale per l’educazione non solo per un assunto retorico, ma per la consapevolezza data da un attraversamento esistenziale. Ne assumiamo con più forza gli elementi essenziali: l’incontro, il valore della differenza, il dialogo.
Inoltre, la pandemia – e anche la stessa guerra in Ucraina di questi due mesi – ha dato modo di guardare con attenzione gli aspetti della fragilità e dell’imprevisto che spesso nei percorsi educativi sono stati messi in secondo piano, cedendo ai parametri dell’efficienza, della programmazione e della riuscita.
La demotivazione dovuta alle difficoltà relazionali sperimentate è molto frequente, ma i momenti di vuoto, di “fame e sete” sono quelli che orientano alla ricerca di fonti autentiche. Lo scoramento è rivelatore della necessità di trovare nuovi significati, un senso nuovo a ciò che si fa e si vive. Uno dei modi per combatterlo è mettersi in ricerca, individuare risposte stando in connessione con gli altri. Esercitare una “fedeltà creatrice”, che è capacità di stare radicati nelle cose, ma con uno sguardo differente. Non fuggire, ma sperimentare nella stessa realtà angoli di visuale differenti.
Le vulnerabilità affettive
Questo stato di destabilizzazione è stato affrontato con verità dalla professoressa Daniela Lucangeli, docente di Psicologia dello sviluppo all’università di Padova, esperta di disturbi dell’apprendimento.
Negli ultimi anni stiamo assistendo a una pandemia silente di disturbi del neurosviluppo: i più comuni sono ritardo mentale, disturbo dello spettro autistico, dsa o disturbi della memoria e dell’attenzione, del comportamento e dell’iperattività. Per non parlare delle vulnerabilità della sfera emozionale e affettiva. Dati recenti dicono che su 48 bambini 1 è autistico. Si sta spegnendo la centralina dello sviluppo. Ci stiamo impoverendo nei processi senzienti.
Accanto a questo, ci sono tutti i fenomeni che riguardano l’insorgenza dei disturbi dell’umore. Le emozioni antagoniste occupano la maggior parte del tempo di vita già prima della pubertà. Siamo tutti con un sistema molto fragile delle emozioni.
Oltre al disturbo dell’umore oggi si parla di disturbi mentali da dipendenze da tecnologia. Già prima della pandemia il 70% dei ragazzi aveva un disturbo dell’umore verso la scuola. La nostra vita psichica è dominata dalla costante interconnessione tra le cellule neuronali collegate tra loro. Occorre superare l’errore di dire “io ho un cervello”, perché di fatto “noi siamo un cervello”.
Le ricerche degli ultimi anni hanno dimostrato che tutto il corpo è costituito da neuroni. I neuroni cardiaci sono di una potenza ancestrale. Il cuore sviluppa più informazioni del cervello. Il cervello incarnato in tutto l’organismo fa arrivare l’informazione là dove deve esistere. Arriva in ogni parte del corpo e alla parte sensibile della pelle. La carezza, l’abbraccio, l’abbiamo tolto nel sistema d’aiuto, riducendolo a violazione, e ci siamo dimenticati che la nostra struttura antica non risponde alla voce, ma al tono, non risponde all’esplicitazione di affetto, ma al contatto. Se il sistema educante inibisce la struttura antica, stacchiamo i contatti e generiamo patologie.
I disturbi dell’ambiente
Alcuni fattori ambientali sembrano interferire con l’organizzazione del cervello proprio nel momento in cui esso si forma, “confondendo” i segnali che i neuroni ricevono. Se il segnale è disturbato, i neuroni non possono migrare correttamente verso le sedi alle quali sono destinati. Per frenare questa epidemia dobbiamo fare un grosso lavoro di prevenzione.
Entro i due anni di vita del bambino (i primi mille giorni), quando la neuroplasticità è massima, è possibile ottenere il meglio dalla traiettoria evolutiva delle funzioni cerebrali. Perciò l’obiettivo, è arrivare prima che il tempo giochi a sfavore.
Le agenzie educative sono speranza allo stato puro perché nulla è altrettanto potente nel forgiare la forma mentis delle persone. A scuola, nella catechesi, come nella vita di ogni giorno, non è indifferente la fonte dalla quale attingiamo le informazioni, non è indifferente chi aiuta. E non filosoficamente, ma “neuropsicologicamente”.
La scienza contemporanea ci insegna che ciò che leggiamo o ascoltiamo, i sapori che gustiamo, le strade che percorriamo, le persone che incontriamo, le emozioni che ci attraversano, tutto interferisce con il nostro epigenoma, inducendo trasformazioni nel funzionamento del nostro cervello.
Quando un formatore supporta un bambino induce una trasformazione nelle sue reti neuronali, nel suo connettoma. Un’influenza che non si esaurisce nella trasmissione di nozioni o insegnamenti ma che, impattando sulle reti neuronali dell’altro, impatta sulla maturazione della sua individualità. Per questo è importantissimo che gli adulti che affiancano i bambini nel loro percorso di crescita e di apprendimento siano ben consci dell’enorme potere che è nelle loro mani.
Le emozioni, da e-movere, manifestano un processo articolato in più componenti e con un decorso temporale che evolve. Tale struttura differenzia le emozioni da altri fenomeni psicologici come le percezioni e o i pensieri. Le emozioni sono il segnale che vi è stato un cambiamento nello stato del mondo interno percepito come saliente.
Il circuito dell’intelligenza ha tre direzioni: “da fuori a dentro” (introietto quello che mi viene comunicato); “da dentro a fuori” (esplicito cosa ho capito). Queste azioni non hanno a che fare con il processo filogenetico che troviamo pienamente nella terza azione, “da dentro a dentro”. Emozioni e apprendimento sono collegati: se, mentre apprendiamo, proviamo un’emozione, ogni volta che recuperiamo dal magazzino della nostra memoria l’informazione, inevitabilmente riattiviamo anche l’emozione stessa. Questo perché nelle situazioni emotive amigdala e ippocampo lavorano in sinergia, influenzandosi a vicenda e rendendo possibile l’incontro tra emozione e memoria.
Se un insegnante ci fa sorridere, nella nostra memoria si imprimerà questa informazione: “ti fa bene, cercalo ancora”. Se, invece, mentre studiamo, sperimentiamo ansia, stress, paura, noia, la nostra memoria immagazzinerà questa informazione: “ti duole, scappa”. E il mattino dopo, quando il professore ci interrogherà, ci ritroveremo a fare i conti con quelle emozioni.
Dare valore alla consapevolezza emotiva
Accanto a punti di luce, ci sono punti non risolti, laddove, ad esempio, la didattica ingozza bambini e ragazzi, dimenticando che non sono vasi da riempire di informazioni.
La ricerca ha portato a osservare che spesso i ragazzi sono in “alert” costante a causa dei giudizi che accompagnano la valutazione, delle continue verifiche, delle scadenze che si accavallano e per l’impossibilità di dedicare tempo a ciò che amano.
Non si possono evitare tutte le memorie di dolore. Sono quelle che hanno il segreto di farti uscire cicatrici e lacrime. Nel momento in cui piangiamo, le nostre lacrime contengono la storia emotiva che il cervello descrive in una direzione biochimica. Se vedo piangere te e mi commuovo, nelle mie lacrime è connessa la tua storia emotiva. Questo dice che non siamo più delle parti singole. Separate, scienza e fede non hanno strada. Il dolore della mente, è anche dolore dell’anima. In tal senso il processo formativo chiede un cambio di passo.
La prima cosa su cui lavorare, in senso trasversale, per adulti e ragazzi, giovani e bambini, è la consapevolezza emotiva: occorre imparare a dar un nome a ciò che risuona in noi, a riconoscere i sentimenti e le emozioni che si agitano nel nostro intimo e che spesso ci travolgono. Ripartire dall’attivazione/riattivazione dei cinque sensi che, come finestre, ci permettono di restare in contatto con il mondo fuori, ma che contribuiscono anche a dare spessore e sapore alla nostra esistenza e quindi a irrobustirne il senso.
Va attivata una catechesi da intendere nel senso dell’accompagnamento dei vissuti e nella loro rielaborazione di significato a partire da una buona notizia che è già presente e che ci anticipa. Una proposta fedele al Vangelo che è apertura alla vita in tutta la sua interezza laddove si parla di vista riattivata, gusto ritrovato, profumo e tocco, udito riaperto (cf. 1Gv1,1-3).
Questione degli apprendimenti
Ogni persona ha diritto di esprimere le sue potenzialità al massimo. La didattica non deve dare a tutti la stessa cosa ma a ciascuno la migliore, in base alle sue possibilità. Un cervello in età evolutiva non può adattarsi a un metodo unico per tutti. Facile essere d’accordo, difficile metterlo in pratica. Il modello prevalente oggi è ancora: io insegno-tu apprendi-io verifico. Stiamo usando un modello di mente frigorifero: impegniamo gli interlocutori a riconsegnarci i saperi che gli abbiamo trasmesso. Il risultato è un apprendimento formale, formalizzato e passivizzante.
Questa modalità non funziona per motivi neurologici, non ideologici. Le nozioni si fissano nel cervello insieme alle emozioni. Se imparo con curiosità e gioia, la lezione si incide nella memoria con curiosità e gioia. Se imparo con noia, paura, ansia, si attiva l’allerta. La reazione istintiva della mente è: scappa da qui che ti fa male. Certa formazione ancora crea questo cortocircuito negativo.
C’è una necessità di cambiamento e di innovazione sentita da tanti ma che stenta a imporsi.
Anche in ambito pastorale non c’è corrispondenza tra ciò che si dice e ciò che si fa. C’è urgente bisogno di rispondere ai bisogni delle persone. È importante che laddove c’è uno che fa fatica, ci sia un accompagnatore che lo aiuta, non che lo giudica. Il grande decisore non è la ragione ma la parte emotiva. È l’area più antica del cervello che determina l’apertura o la chiusura agli stimoli. Non si può trasmettere ciò di cui non si fa esperienza.
È tempo di credere in una scienza servizievole, che non rimane chiusa nelle università, che non circola solo tra specialisti, ma che esce nelle strade e mette i suoi strumenti a disposizione di tutti coloro che possono, vogliono e dovrebbero usarli.
Crescere spiritualmente nelle esperienze di vita
Un passo ulteriore è stato prodotto dall’intervento di Alessandra Augelli, docente di pedagogia interculturale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Piacenza. Essa ha evidenziato che crescere nell’esperienza è un atto complesso. Nella conoscenza giochiamo fra la realtà e la rappresentazione.
Il linguaggio è una forma di semplificazione e di alleggerimento della realtà. Nell’interpretazione preferiamo una versione delle cose che ci viene data da chi ci fidiamo e ascoltiamo ciò che conferma la nostra versione. Attuiamo un’opera di semplificazione per controllare e manipolare la realtà che è sfuggente.
È necessario sviluppare la pratica della meraviglia. Qui e ora. Assistiamo al riduzionismo esperienziale, perché l’esperienza oggi è “fare delle cose”. Viviamo in un’epoca del fare dimostrativo, invece è importante il fare espressivo (emozioni, esperienze…).
Oggi, invece, si fanno esperienze “controllate”, che chiedono verifica. Le esperienze sono tutte costruite sotto lo sguardo degli adulti che ti osservano. Ci sono esperienze cliché dove lo spazio di espansione e di ricerca è ridotto al minimo, ed è una falsa esperienza. Sono esperienze in solitaria, perché, anche quando avvengono in gruppo, sono vissute da singoli, tutto è già preconfezionato senza la necessità di un personale intervento.
L’esperienza formativa
La reale esperienza formativa è qualcosa che si stacca dallo sfondo generale, dall’anonimato, e diventa mio (personalizzazione). L’esperienza si comprende e non si spiega, è capace di abbracciare il tutto che la rivela, introduce un punto di vista inedito, ci sposta dalla nostra confort zone. Supera tutti i tentativi di racchiuderla, offre sempre un’eccedenza di senso. È importante stare nel mentre dell’esperienza e non arrivare subito a chiedersi: che cosa ti ha insegnato? che cosa hai fatto? ma, piuttosto, come sei stato?
Attraverso i sensi realizziamo una vita più sensata; pertanto, per vivere in pienezza ciò che succede, devo avere una riflessività dentro l’esperienza. Attivando il vissuto emotivo, la conoscenza si imprime nelle cellule. L’esperienza dice di un tentare, di un provare.
Le domande legittime per cogliere il valore di un’esperienza sono le domande aperte, che permettono di mettere in circolo l’esperienza. Per fare domande legittime, c’è bisogno di tempo: «Gli uomini si lasciano convincere da quello che scoprono da sé, più che da ciò che dicono gli altri» (Pascal).
L’obiettivo della crescita è lasciare andare
Sovente nei processi formativi diventa comodo usare meccanismi di dipendenza, che soddisfano chi ha il potere. La vera formazione si ha nella fiducia e nella libertà, nel lasciare andare: la mia fine e il tuo inizio. Se si accoglie la convinzione che l’educazione è infinita… l’esperienza dell’annuncio deve avvenire ogni volta nel qui ed ora.
Di fatto le comunità cristiane in genere lavorano sui programmi e non sui progetti. Tante volte, si lavora su un principio di infittimento. Le comunità dovrebbero essere spazi e occasioni di distensione, dove si tira il fiato e si intessono relazioni, passando dal groviglio di fili dei vissuti e delle iniziative, verso una tessitura.
L’attenzione educativa è creare condizioni, è apparecchiare esperienze, ampliando il raggio esperienziale fino a sentire che «vorrei fare con te ciò che la primavera fa con i ciliegi» (Pablo Neruda).
L’esperienza è formativa quando ha delle polarità. Ogni compito di sviluppo prevede dei contrasti, diventa crescita come trasformazione, verso l’autonomia, la libertà.
Alcune conseguenze per la catechesi
Il ricco confronto ha evidenziato, se ancora ce ne fosse bisogno, che siamo in tempi di svolta. Cambio di modelli e di paradigmi pedagogici.
È bello che, dal punto di vista scientifico, ci sia una domanda di collaborazione. C’è la necessità di progettare nuovi percorsi insieme. I settorialismi non tengono più, occorre mettere al centro le esperienze delle persone. I punti di vista specifici funzionano in una prospettiva sinodale. Perno della crescita è il precosciente, il tratto e il contesto. Prendersi cura della persona guardando alla dimensione affettiva e non solo cognitiva.
C’è bisogno di tenere aperto/vivo un dialogo, perché nessuno può fare da sé. Siamo tutti in relazione. Ciò di cui facciamo esperienza diventa memoria ed esperienza comunitaria. È importante riappropriarci di un lessico dell’affettività, della relazione, dello stare con noi stessi, andando oltre le sicurezze personali, riappropriandoci di uno stile vissuto nella corresponsabilità.
Non solo nozioni
La catechesi non può quindi accontentarsi di ripetere alcune nozioni basilari del depositum fidei: dovrà avere il coraggio di andare più a fondo, là dove il credente è sé stesso. Si tratta di un impegno tipico della migliore tradizione pedagogica e spirituale cristiana.
Indubbiamente ci sono distanze da colmare, esiste una domanda di senso sbiadita. Una comunità mediamente vecchia nel suo personale religioso, per certi versi un po’ ancorata a visioni rigide, può avere difficoltà a sintonizzarsi e a far sì che «tutti imparino a togliersi i sandali davanti alla terra sacra dell’altro» (Es 3,5).
Non ci si può nascondere che c’è un’area di formatori e di catechisti un po’ anonimi, che non staccano la spina del rapporto con la Chiesa, ma sopravvivono grazie a un’eredità sempre meno spendibile. Occorre prendere consapevolezza che non sono forze facilmente recuperabili.
Occorre prendere consapevolezza che l’infinito è nel finito, la memoria di Dio è presente in ogni creatura.
Nella catechesi è urgente che si passi da un modello cristocentrico, a un modello pneumacentrico, vicino al modello psicocentrico, assunto dalla pedagogia della religione che ha posto l’accento sul soggetto.
Per l’oggi viene un invito a celebrare e a vivere i sacramenti come un principio di riorganizzazione del cristianesimo intorno alla vita quotidiana, intorno ai legami, agli affetti, alle speranze e alle disperazioni degli uomini e delle donne. Considerando secondario il rapporto del cristianesimo con l’organizzazione e gli apparati della società.
La nostra è una società che patisce la pressione degli apparati. Noi dobbiamo restituire dignità ai legami della vita quotidiana, che è stata l’energia propulsiva del cristianesimo. Se recuperiamo i legami, il cristianesimo rinascerà, se cerchiamo solo soluzioni istituzionali, si perderà.
Desiderare il nuovo
Sentiamo che, nei nostri giorni, è importante alimentare il desiderio di questo incontro. Il desiderare si riferisce al principio generatore di ogni cosa, perché desiderare è la modalità attraverso cui la nostra esistenza dà significato al vuoto che è in noi. Ognuno di noi è mancanza di essere, e questa mancanza è la propulsione del desiderio. Il desiderio da solo non va da nessuna parte, si deve accompagnare con una relazione, con la realtà che si fa carne, con il Cristo che si è fatto carne.
Circa le immagini distorte di Dio, è normale che ci siano, sarebbe preoccupante un Dio saturante. Dio a volte ci lascia soli, e da quella solitudine si impara a muoversi.
È richiesta una catechesi che aiuti a stare nel mondo, c’è la necessità di un recupero della fedeltà all’uomo e a Dio: l’unità in noi stessi e con gli altri viene dall’amore e dal lasciarci amare.
La vista e l’udito sono ancora i sensi più utilizzati, ma li abbiamo intellettualizzati.
Ma è pur vero che l’azione sacramentale e liturgica continua a funzionare. Anche se non ci rendiamo conto, c’è un non consapevole e un non avvertito che funziona molto di più rispetto a quanto noi immaginiamo.
Se prestiamo attenzione, scopriamo che è rimasta una sola parte della parrocchia in cui non si deve presentare un certificato: è la porta della chiesa che dà sulla strada. Tutte le altre entrate nella chiesa sono un po’ bloccate, uno deve fare il corso dei ricomincianti, degli ex lontani, degli arrivati… Passano anni. Uno che entra dalla porta della chiesa è a contatto con il mistero, è in presa diretta.
Sarebbe bello se, chi entra nelle nostre eucaristie, trovasse un clima un po’ incantato di persone che si aspettano di essere guardate, toccate dal Signore. Non gruppi che stanno mettendo in mostra la loro identità, che stanno esprimendo magari con qualche espediente la loro fede.
Rendere consapevoli del bene
Alla catechesi appartiene il compito di rendere consapevoli, recuperando l’aspetto della riflessività (capire dentro di sé) delle esperienze di vita.
L’uomo non è né solo bestia né solo angelo, né solo spirito né solo carne, ma spirito incarnato, e l’amore ha il potere di unire lo spirito e la carne in modo sempre più completo, cosa che si manifesta con un profondo e stabile senso di pace.
Ma non basta mai, perché il problema è più profondo. Un bambino piccolo, dopo aver rotto un vaso, non va forse a gettarsi proprio tra le braccia del padre o della madre? Vuole sapere se, a essere andato in frantumi, è un oggetto o se stesso. Solo l’amore può dargli risposta: tu resti intero, anche se hai fatto questo. Il bambino non si identifica più con il suo errore ma con l’abbraccio che gli è dato.
Su questa linea del rendere liberi sta la necessità a livello di proposte catechistiche di superare le funzioni cognitive dell’apprendimento a breve termine. Infatti, con i modelli deduttivi si ottengono ragazzi e adulti che scoprono poco e forniscono prestazioni nell’immediato, ma che, dopo, dimenticano rapidamente quasi tutto.
L’intelligenza non cresce se tutte le energie cerebrali sono impegnate a stabilizzare prestazioni e a procedere. Il cervello “ingozzato” non può trasformare in energia il nutrimento e deve quindi, come lo stomaco, liberarsi dall’eccesso di informazioni per usare l’energia allo scopo di fare ciò che è suo nell’età dello sviluppo, scoprire, far crescere la persona e le sue potenzialità.
Il catechista non è chiamato solo a conoscere i contenuti da trasmettere, ma a “energizzare” le informazioni per generare emozioni che alimentano il cervello e dicano al corpo cosa fare. Emozioni positive danno picchi energetici alti e brevi, per dire: “torna presto”; quelle negative picchi bassi e duraturi: “scappa sempre”. Quel che apprendono si salda a ciò che provano in quel momento (gioia o paura), perché l’atto cognitivo diventa tutt’uno con le emozioni che veicolano l’informazione.
“Torna presto…”. Ci auguriamo che questo possa arrivare alla vita di tutti coloro che accompagniamo nella fede. Per questo è importante che ogni catechista e formatore sia tra gli uomini un seminatore che osserva la misura di Dio.
Certamente interessante. Tuttavia andrebbe inserito in un più ampio sguardo d’insieme.
interessante, attuale , aiuta a riflettere per poi agire . Grazie p. Rinaldo
ARTICOLO INTERESSANTE E CONCRETO, SI BASA SU ESPERIENZE VISSUTE NEL QUOTIDIANO. SE DA UNA PARTE SUSCITA ALCUNE OVVIE INQUITUDINI, DALL’ALTRA STIMOLA A RIPRENDERE CON OTTIMISMO ED ENERGIA UN CAMMINO NUOVO, NUOVO NEL SENSO CHE “LE COSE DI PRIMA SONO CAMBIATE… NE SONO NATE DI NUOVE”. PERTANTO ESIGE DA TUTTI UN CAMBIO DI MENTALITA’
GRAZIE P. RINALDO