Premesso che capisco sempre meno – quasi niente! – di ciò che succede, non riesco però a non azzardare alcune congetture per cercare di illuminare almeno qualche aspetto del quadro confuso e irrazionale delle congiunture politiche mondiali.
Da anni ormai, e praticamente in quasi tutte le nazioni occidentali, esiste un innegabile risorgimento delle destre, eredi della tradizione nazifascista. Il Brasile non fa eccezione. Ma da anni, ormai, il reciproco insistere di destre e sinistre su posizioni binarie è permanentemente contraddetto dalla complessità degli eventi.
La mescolanza delle posizioni e il rincorrersi delle contraddizioni rivelano un processo de decostruzione, che impedisce – o almeno dovrebbe impedire – l’arroccarsi radicale e polarizzato alla ripetizione dei leitmotiv della sinistra. Posizione, quest’ultima, che, spesso in nome della classe o – in Brasile – in nome del mito del meticciato, ha ignorato e perseguitato popoli e gruppi umani portatori di altre culture o di altre prospettive di genere. Ricordiamo come furono trattati i popoli indigeni dalla rivoluzione sandinista in Nicaragua o come sono trattati attualmente dal Venezuela chavista o come furono perseguitati gli omoaffettivi nella rivoluzione cubana.
Anzi, i cambiamenti succeduti alla scomparsa del comunismo sovietico, con la fine del bipolarismo della guerra fredda, dovrebbero convincerci che è necessaria e possibile una revisione radicale dei paradigmi che hanno costruito la prassi delle sinistre, dalla crisi della Seconda Internazionale fino ad oggi.
Lezione difficile da imparare: infatti, oggi, senza Bernstein e orfani del “rinnegato Kautsky”, le sinistre si rifugiano nuovamente nel paradigma nazionalista e guerrafondaio. L’unica differenza è data dal fatto che in quel tempo la rivoluzione appariva come possibile perché c’era ancora futuro e c’era la parola antinazionalista e internazionalista di politici come Luxemburg, Trotzki e Lenin.
Oggi, scomparso “il sole dell’avvenire”, dobbiamo chiederci nuovamente, davanti alla tragedia delle guerre, quale sia la differenza tra nazionalismi di sinistra e patriottismi di destra.
Nell’attuale congiuntura i politici neoliberali, educati e cortesi, sono sostituiti da rozzi populisti, neofascisti, come Trump, Bolsonaro e Johnson, mentre la sinistra arriva spudoratamente ad accennare ad un appoggio a Putin, come unico politico capace di affrontare i nazisti ucraini e l’imperialismo della NATO.
E così, davanti alla programmatica assenza di un progetto alternativo al capitalismo, che segna tutte le sinistre, arrivo anche a chiedermi che destino avrà la globalizzazione, di cui parlavamo fino a ieri.
Non superato lo scoglio del nazionalismo, certamente il paradigma binario, di fatto oramai obsoleto e defunto, ma che ancora resiste nel congiunto ideologico delle sinistre, è lo stalinismo. Lo stalinismo è quella malattia che, nel mondo bipolare della Guerra fredda, portava a giustificare tutto ciò che caratterizzava il comunismo sovietico, perché qualunque critica sarebbe apparsa un tradimento e un’adesione al blocco imperialista occidentale.
Quando, oggi, i partiti di sinistra del Sudamerica difendono le dittature del Venezuela e del Nicaragua, perché ostilizzate dagli Stati Uniti, ripropongono il paradigma stalinista e rinunciano così a ogni attitudine critica degna di questo nome; soprattutto, ignorano la sofferenza di quei popoli. Insomma, l’antiamericanismo, da cui si salvano solamente settori minoritari della sinistra, non è piú un paradigma politico sufficiente per schierarsi nello scacchiere mondiale.
Dovrebbe essere evidente che affermare questa insufficienza non significa ignorare le colpe genocide degli USA e dei suoi alleati, a partire da Hiroshima e Nagasaki. E non comporta ovviamente che si stia dalla parte di Donald Trump e dei suoi sostenitori, che arrivarono a contrabbandarlo come un leader anti-guerrafondaio e pacifista.
Non ci dimentichiamo, quindi, dell’Afghanistan – e anche della Libia – con l’invenzione e il finanziamento militare dei talebani e dell’ISIS.
Nelle guerre della Jugoslavia per chi si doveva parteggiare quando riesplodevano nazionalismi e identitarismi religiosi? È bene non dimenticare i tempi di D’Alema e del Kosovo. Così come di Blair e della guerra contro l’Iraq. Niente di nuovo sotto il sole, anche quello dell’avvenire.
E in Siria essere contro l’ISIS significa stare dalla parte di Assad e dei Russi? Come essere di sinistra appoggiando la tirannia russa e siriana? O la teocrazia iraniana? E, quindi, ci schieriamo con gli Stati Uniti o con l’Iran nella guerra di Riad contro lo Yemen? E tra Cina e Taiwan simpatizzeremo per la nomenclatura dittatoriale cinese?
Stare dalla parte del Tibet contro la Cina è forse più semplice, ma stare dalla parte dei palestinesi non è più consenso indiscutibile, perché, a partire dalla critica ai partiti che gestiscono la timida resistenza armata di quel popolo, c’è una occidentale dipendenza canina con relazione allo stato di Israele. Contemporaneamente, però, dobbiamo constatare che non è mai scomparso il paradigma antisemita nella storia occidentale, che oggi riappare forte e inossidabile, nonostante la distinzione tra antisionismo e antisemitismo
E in Ruanda i paradigmi di sinistra ci suggerivano se dovevamo stare dalla parte degli hutu o dei tutsi?
E oggi l’Ucraina: come sfuggire alle interpretazioni geopolitiche, ampiamente opportuniste e spesso falsificate, che mescolano rinati nazismi armati dell’Ucraina e fascismi e imperialismi panrussi. Il tutto condito con il presidente ucraino, ebreo, che sfugge, però, ad ogni tentativo di riduzione ideologica a partire dalla sua identità.
E, in Italia, dobbiamo temere di più CasaPound o Draghi? Quale destra dobbiamo temere? Chi deciderà il nostro futuro sarà nuovamente il capitalismo, che si adatterà, come ha sempre fatto, alle nuove – non importa quanto drammatiche e tragiche – circostanze politiche, siano esse neoliberali, globalizzate, nazionaliste, populiste o nazifasciste.
E la nostra speranza? Una lezione inevitabile viene dall’attuale imprevedibilità degli eventi: riusciremo a imparare a vivere nella permanente incertezza, nei conflitti e nelle contraddizioni della vita? Anche a costo di contraddire convenzioni sociali e politiche? Anche a costo dell’incomprensione? E della sacra solitudine?
Insisto, nella speranza dei cammini per costruire alternative al modo di fare politica già tracciati dalle profezie esistenziali dei popoli originari dell’Abya Ayala e del mondo intero.
Spero che non si tratti solo di un rifugio un po´mistificato, un deus ex machina, per non lasciarci travolgere dal disfattismo e dalla disperazione; nonostante le tensioni e le incongruenze che minano e indeboliscono le organizzazioni e le lotte, spero nell’insorgenza dei popoli indigeni, quilombos, comunità tradizionali e esuli da questa modernità impazzita, che, nei campi o nelle città, ancora costruiscono territori liberi, ispirati dagli Ancestrali e da Gesù di Nazareth, praticano la fraternità e la sororità di tutti gli esseri viventi con la terra, il sottosuolo, l’acqua, l’aria, per propiziare un futuro alla Vita.