La vittoria di Trump nelle elezioni americane sta producendo vaste ripercussioni anche nel nostro paese. Semplici risonanze o più profonde consonanze?
Sono tanti i soggetti che si sentono motivati a “correre in soccorso del vincitore”, secondo il costume nazionale denunciato da Ennio Flaiano. Si registrano pure iniziative singolari ed estemporanee, come la nascita in quel di Sulmona, in Abruzzo, di una Trump foundation Italia avvenuta la sera del 14 novembre in un ristorante cittadino.
A giudizio dei “fondatori”, Trump è «pioniere di una visione globale della politica» (sic) alla quale occorre ispirarsi per affrontare i nodi dell’era globale in cui viviamo.
Risonanze e consonanze
Ma, mentre l’episodio abruzzese mostra che certe risonanze possono risultare di difficile decifrazione, non altrettanto si può dire quando si analizza il fenomeno delle assonanze o consonanze. Vale a dire le affinità o le somiglianze tra quel che Trump ha rappresentato e alcune tendenze già presenti nella politica italiana.
Qui il panorama non è uniforme, ma c’è il denominatore comune della rivendicazione di gesti e posizioni assunti da soggetti italiani prima dell’epifania del trumpismo a stelle e strisce. Dunque, la rivendicazione di un “trumpismo tricolore” come annuncio profetico, ancorché inconsapevole, di quello che ha trionfato negli USA.
Non è un discorso univoco perché le famiglie interessate sono più d’una e presentano differenti gradi d’intensità. Ma il tema è sostanzialmente lo stesso.
Grillo, Berlusconi, Salvini e… Renzi
Dice Grillo, il fondatore del Movimento5stelle, che «Trump ha fatto un vaffa gigantesco»; e così mette in sintonia il rigetto trumpiano dell’establishment di Washington con il suo progetto di aprire il parlamento itaiano «come una scatola di tonno». Terreno comune delle due posizioni è poi quello dell’ antipolitica e della protesta sociale in presenza della crisi economica.
Dal canto suo Berlusconi, che pure non è esente da una robusta… contaminazione istituzionale, può ricordare di essere stato lui, molto prima di Trump, ad utilizzare lo strumento del contratto stipulato direttamente tra leader e popolo, aggirando ogni mediazione. E, d’altra parte, non si può negare l’affinità tra i due tycoon che sfidano gli apparati tradizionali contando sulla capacità di comunicazione e sul linguaggio semplificato.
E Matteo Salvini, che nel segno di Trump ha creduto di poter accreditarsi come candidato premier della destra italiana, ha giustamente potuto affermare la propria primogenitura a proposito dei modi spicci – dalle ruspe ai rimpatri forzati – con cui sbarazzarsi degli “invasori” islamici.
Per completezza espositiva va infine registrato il fatto che anche Matteo Renzi potrebbe esporre un titolo di precedenza in quanto rottamatore di ceto politico e di sburocratizzatore dichiarato. L’esposizione della bandiera nazionale non accompagnata da quella europea ne sarebbe un segno rivelatore.
Se poi si esce dal circuito nazionale e si considerano le tendenze planetarie, si deve constatare che il fenomeno della rottura tra classi dirigenti stabilizzate e movimenti populistici è diffusi in ogni area. Basti pensare ai Le Pen in Francia e ai Farage in Gran Bretagna.
Un mondo di frontiere
A questo punto però conviene oltrepassare la competizione sulle primogeniture per intrattenersi sull’omogeneità delle caratteristiche e i temi-chiave con cui il fenomeno si presenta.
C’è innanzitutto il nazionalismo, inteso come chiusura delle frontiere agli ingressi estranei e come protezione di quel che si trova dentro i recinti nazionali. Lo slogan “prima l’America” può essere esteso e moltiplicato per tutte le patrie del mondo. Con la proliferazione di muraglie e dogane impenetrabili. È il contrario di tutte le idee di interconnessione (e di solidarietà) circolate nell’ultimo secolo a partire dall’ONU.
Il senatore Tremonti può rallegrarsi del fatto che ciò significa archiviazione sì del “mercatismo” che del socialismo, ma ciò non conferisce valore positivo al processo storico che si sta avviando.
Diffidenza per la democrazia
C’è poi la diffidenza per non dire l’ostilità verso le forme classiche della democrazia rappresentativa, accusata di essere sede di corruzione e di sopraffazione (la casta) o, nella migliore delle ipotesi, di deplorevole rallentamento delle decisioni.
L’antidoto proposto è, a seconda dei gusti, o il… culto del capo oppure l’affidamento alla “rete” come luogo di decisione partecipativa non si sa quanto autentica e rappresentativa. Non è infatti dimostrata l’equivalenza tra il principio ”uno vale uno” e il principio “un uomo un voto” quando vengano meno le garanzie sull’espressione del voto libero e personale.
La somma di simili addendi non promette niente di buono. Uno sbocco di segno autoritario non può infatti essere escluso se le garanzie delle libertà fondamentali non sono infrangibili. E una simile deriva non è affatto da escludere se chi, per storia e ispirazione, ha il dovere di opporvisi mantiene una condotta incerta o fuorviata da conflitti su obiettivi di mero potere, comunque secondari.
Un luogo comune
Uno dei luoghi comuni introdotti per spiegre la vittoria di Trump – e condivisi da tutti gli adepti, seguaci o antesignani – è che l’impoverimento delle classi medie, dalle quali ha tratto energia la spinta populista, sarebbe derivato dalla delocalizzazione delle attività produttive arricchendo le periferie e impoverendo il centro. Si è trattato di questo o non piuttosto dell’incapacità del sistema, e della politica che lo dirige, di realizzare quella globalizzazione della solidarietà, cioè di una solidarietà in grado di fronteggiare le dimensioni e le odierne modalità inedite dell’attività economica, anziché limitarsi ad assecondarne gli spiriti animali?
La questione non è nuova ma ora si presenta con connotati inediti. Ignorarla equivale a lasciare corso libero ai populismi variamente impersonati. Farsene carico significa mettere in preventivo un impegno di umanizzazione all’altezza delle sfide da affrontare.