Le virtù del ministero /8: solitudine

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La capacità sana dell’habitare secum, cioè del saper vivere la solitudine è una dimensione irrinunciabile dell’essere uomo: saper abitare presso di sé, saper trovare le vie di una vera unificazione interiore, saper essere uomini e donne capaci di quel silenzio in cui, in primo luogo, si pensa, poi si prega, poi si osserva il mondo e la storia in cui si vive.

L’habitare secum conduce ad una sempre maggiore conoscenza di sé e quindi ad una conoscenza sempre crescente di Dio e del suo amore. La conoscenza di Dio conduce ad una maggior conoscenza di sé e una conoscenza di sé sempre più libera e veritiera apre strade di un’ulteriore conoscenza di Dio.

Habitare secum, abitare il proprio corpo per essere totalmente presenti, deve essere l’obiettivo forte di un impegno educativo edificante. Habitare secum parla di un’umanità ritrovata nel silenzio che nulla rifiuta e così “il corpo abitato dal silenzio diviene rivelazione della persona”[1].

Solitudine come via dell’unificazione interiore

Ognuno è chiamato a vivere in sé, abitando se stesso, un cammino di vita interiore per trovare senso alla vita. Insomma, senza vita interiore, senza abitare se stessi, non si ha nessun cammino di umanizzazione.

Ma prima c’è un lavoro che dobbiamo fare per abitare con noi stessi: «Che inizia con una grammatica semplice di conoscenza di noi stessi. Conoscenza come processo psicologico, conoscere se stessi nell’appartenenza alla comunità, conoscere se stessi là dove noi siamo, ma per un giusto giudizio. E in questo cammino, in questo lavoro, ci è difficile distinguere lo psicologico dallo spirituale che non vanno mai confusi. Sono due aspetti che non possiamo scindere, ma che non possiamo confondere perché il conoscere se stessi come operazione psicologica è certamente necessario, ma il Cristianesimo ci permette anche un’altra conoscenza dovuta alla grazia, alla potenza di Dio e alla forza della fede, la quale dà una dimensione più profonda alla nostra vita interiore»[2].

Per abitare con se stessi bisogna essere assolutamente capaci di solitudine, di silenzio e di libertà. La solitudine – voi lo sapete – può essere molto cattiva come quella che avvolge gli anziani e i giovani, ma c’è una dimensione di solitudine che si deve imparare, che non è una condizione predominante della vita, ma che è quel momento in cui si abita con se stessi. È necessaria non la solitudine cattiva dell’isolamento, ma una dimensione in cui uno si dà del tempo per pensare, in cui uno combatte le distrazioni.

Proprio dalla solitudine e dal silenzio nasce la libertà di ciascuno di noi. Libertà di non essere assolutamente allineati a quello che impone la maggioranza, a quelli che impongono messaggi più forti che sono quelli che ci tolgono la soggettività per mancanza di libertà. Ecco, nell’abitare secum, ci sono queste condizioni che sono assolutamente necessarie. Sono il momento per cui noi possiamo respirare la vita interiore.

A chi vuol essere suo discepolo di Gesù chiede di conoscere la strada per entrare dentro questa stanza che è il luogo dove l’uomo fa l’esperienza della solitudine perché lì non c’è nessuna presenza tranne lo sguardo di Dio Padre, che vede nel segreto della coscienza dell’uomo. Essa è il luogo dove il cristiano coltiva la propria esperienza spirituale: è la stanza della coscienza personale, del cuore.

Chi non sa abitare il suo segreto non è in grado di darsi e dare ragione delle parole e dei comportamenti buoni o cattivi che escono da lui perché sta fuori del luogo in cui essi si formano. Di conseguenza, non può neppure correggersi e maturare nella santità.

Abitare con sé – come dicevano i latini – significa saper ascoltare, ma soprattutto ascoltare se stessi. In questo periodo di “confinamento” possiamo sfruttare il nostro tempo libero per guardare o contemplare, perché di solito vediamo le persone o le cose ma ci fermiamo alla superficialità.

La solitudine feconda del presbitero

Ci sembra sia possibile stabilire un rapporto esistenziale positivo con la solitudine, a condizione di saperla integrare umanamente e spiritualmente come dimensione autentica della vita del prete.

Sul piano strettamente antropologico, l’esperienza della solitudine potrebbe rappresentare lo schema psicologico del ritorno a se stessi; in altre parole, la possibilità stessa di esercitare un distanziamento interiore e, tutto ciò, a causa della rottura che essa opera con il mondo oggettivo delle attività e delle relazioni. In effetti, con essa si effettua la sospensione dell’effervescenza dell’universo relazionale e comunicazionale.

In essa si compie una specie di messa tra parentesi della comunicazione esplicita, manifestata ed espressa entro un ambito di rapporti umani; anche se non si produce una frattura assoluta con ogni forma di relazione interpersonale, cosa che supporrebbe profondamente alterate le espressioni dell’esistenza umana.

È sospendendo il mondo di relazioni effettive e visibili che l’esperienza della solitudine crea un certo faccia a faccia con se stessi. Con questo, essa rende possibile una riappropriazione di sé distanziando da ogni forma di adesione identitaria. Sullo sfondo della solitudine l’uomo si ridefinisce come soggetto di un universo d’azione nella consapevolezza della sua differenza.

C’è nell’esperienza della solitudine un certo “dimorare” presso di sé che mette in scacco la disseminazione della persona. Senza dubbio, si tratta di una specie di azzeramento con il quale il soggetto si pone nella sua identità inalterabile rispetto ai rischi molteplici della scissione.

Si potrebbe concepire la solitudine come una prova di verità del rapporto con Cristo nell’essere e nel ministero del prete, attraverso, in particolare, la preghiera, la riflessione pastorale, la ricerca teologica e il dono del corpo, tutti punti d’ancoraggio nella profondità della solitudine:

  • la preghiera, compresa come atto di rinuncia al possesso di sé a favore dell’accoglienza e dell’ascolto del Cristo, impedisce ogni proiezione di sé all’inizio o al termine dell’azione intrapresa;
  • la riflessione pastorale si impone per ritrovare la verità del ministero e il senso della libertà interiore;
  • la ricerca teologica diventa decisiva per lo sviluppo spirituale e la possibilità dell’evangelizzazione;
  • il dono del corpo nel silenzio del celibato fa appello ad un’autentica educazione sempre da riprendere per una miglior fecondità pastorale.

È al vaglio della solitudine che queste operazioni si rivelano nella loro importanza e nel loro significato. Cosa sarebbero senza l’orizzonte della solitudine sul quale esse si collocano?

Ma nel praticarle, il prete scopre in esse altrettante possibili vie per una serena accoglienza della solitudine. Come minaccia di autoannientamento questa sparisce. Diventa autenticamente abitata. Non c’è più dissociazione allora tra l’uomo affogato nel suo solitario silenzio e il prete assorbito da mille incarichi.

Dandosi alla preghiera, imponendosi una riflessione pastorale rigorosa e una ricerca teologica autentica, praticando l’oblazione di sé, il prete dev’essere in grado di vivere la sua solitudine nel momento stesso in cui questa lo raggiunge senza che subentri alcuna sfaldatura tra il suo essere di uomo e le sue funzioni ministeriali.

Fare l’esperienza della solitudine, prendendo queste alcune direzioni di apertura all’Altro assoluto che il Cristo rappresenta, resta il mezzo per non fuggire da se stessi e per entrare in un rapporto di verità con il Verbo incarnato. Senza dubbio, è anche un modo per evangelizzare il soggetto in profondità. La prova della solitudine può essere occasione propizia per l’evangelizzazione dell’essere profondo dell’uomo a condizione di saperla vivere come un’esperienza di deserto.

Occorre ricordare che il prete è un uomo di solitudine in ragione del suo ministero. È necessario non negare affatto questa realtà. Certo, a causa di circostanze particolari, la solitudine può diventare, nell’esistenza, una prova corrosiva, distruttrice del suo essere e del suo ministero.

È necessario affrontare la solitudine come lo spazio che si apre sul mondo degli uomini facendo sentire la prossimità dell’unico Maestro. La parola solitudine oggi è connotata affettivamente con il segno negativo: solitudine come isolamento, come fuga, come abbandono, come ferita, come depressione. Evidentemente si tratta di scelta involontaria, subita, da cui si cerca a tutti i costi di uscire, in genere senza successo.

Ma la solitudine è ineliminabile dalla percezione di se stessi e dal cammino spirituale intrapreso. Quando è vissuta per scelta volontaria, la solitudine promuove l’ispirazione, l’appartenenza, la vita come promessa. E dico scelta, non reazione. La scelta ha a che fare con il desiderio profondo del cuore, mentre la reazione dipende dalla sensibilità ferita. Per questo si può parlare di educazione alla solitudine, accompagnandoci a vivere positivamente la solitudine.

La solitudine al tempo del web

Viviamo di fretta e inquieti. La fretta riguarda il tempo, l’inquietudine il luogo. Non riusciamo mai a fare le cose essenziali perché prima ne abbiamo cento altre urgenti da sistemare. Non viviamo mai in pace in un luogo perché immaginiamo che, se fossimo in un altro, ci troveremmo meglio. I sociologi parlano di tempo stracolmo, tempo accelerato[3], con la relativa perdita del tempo lento.

Abbiamo perso i contatti con i ritmi interiori, segreti, del cuore. L’incapacità di trovare ritmi adeguati al nostro uomo interiore ci condanna alla superficialità e alla pigrizia, venendo meno a quello che è il primo comandamento per l’uomo: il coltivare se stessi.

La solitudine è il luogo segreto dove riconoscersi autenticamente, dove pescare le energie del cuore, dove scoprire i propri limiti e dove riportare la vittoria sulla paura. Diceva Anton Čechov che “la vera felicità è impossibile senza la solitudine”. Ma la solitudine è possibile nell’epoca di Internet e dei social media, degli smartphone e dei tablet, della connessione sempre e (quasi) ovunque che permette, con un semplice click, di entrare in contatto con schiere di altri individui?

«La robotica e la connettività – scrive Turkle – sono complementari: ci conducono inesorabilmente al ritiro relazionale. Con i robot sociali siamo soli, ma ci illudiamo di essere “insieme”. Grazie alle connessioni rese possibili dalla tecnologia, siamo “insieme”, ma questa forma di esistenza è così vuota, così limitata, che siamo, de facto, soli. Le nostre tecnologie ci spingono a trattare il nostro prossimo come un mero oggetto, un oggetto a cui “accedere” ma solo a quelle parti che troviamo utili, confortevoli o divertenti»[4]. Di più. Oggi siamo di fronte ad un curioso – e inquietante – paradosso: «Da un lato, ripetiamo ad nauseam che viviamo in un mondo sempre più complesso, dall’altro, abbiamo creato una cultura della comunicazione che rende difficile, se non impossibile, ritagliarsi spazi e tempi per riflettere in modo tranquillo, senza distrazioni. In un mondo che esige risposte in tempo reale abbiamo perso la capacità di affrontare problemi complicati»[5].

Viviamo, insomma, in una condizione di «affollata solitudine», per dirla con le parole di Zygmunt Bauman. Di fronte alla quale c’è chi – presbiteri inclusi – intraprende percorsi spirituali o avventure estreme pur di ritrovare la solitudine autentica.

«Quando si evita a ogni costo di ritrovarsi soli – scrive Bauman – si rinuncia all’opportunità di provare la solitudine: quel sublime stato in cui è possibile raccogliere le proprie idee, meditare, riflettere, creare e, in ultima analisi, dare senso e sostanza alla comunicazione. Certo, chi non ne ha mai gustato il sapore non saprà mai ciò che ha perso, ha lasciato indietro, a cosa ha rinunciato».

Come quella di Sylvain Tesson, il giornalista francese che ha trascorso sei mesi in una capanna siberiana, lontano da tutto e da tutti. «La solitudine – scrive – è una rivolta. Ritirarsi nella propria capanna significa uscire dal campo degli strumenti di controllo. L’eremita scompare. Non lascia più tracce digitali, non invia impulsi telefonici né ordini bancari. Si spoglia di qualunque identità. Pratica una sorta di hacking alla rovescia, esce dal grande gioco»[6].

Per provare questo ascetismo rivoluzionario, sostiene Tesson, non è nemmeno necessario fuggire in qualche landa dispersa del mondo: basta sottrarsi volontariamente alle «leggi» della società dei consumi, rifugiandosi nella foresta interiore.

In compagnia di Cenerentola

Cenerentola è la regina della cenere, la figura di colei che letteralmente si rivolta nella polvere, oppressa com’è da una realtà che continuamente le rende presente la sua miseria. La storia di Cenerentola è la storia di una grande solitudine nel cuore di una ragazza per la perdita della mamma. Il papà si risposa portando purtroppo in casa una matrigna cattiva e due sorellastre invidiose e superbe.

La solitudine di questa figlia si fa più acuta, trattata come una serva, costretta ai lavori più umili, esclusa e cacciata fuori, vicino al focolare, accanto alla cenere. Cenerentola, appunto, sarà d’ora in poi il suo nome.

A questa condizione prova a reagire dispensando gentilezza e docilità senza ottenere non dico una ricompensa, ma nemmeno un’attenuazione della pena. Nessun gesto, seppure ben fatto, serve a liberarla dalla morsa di una realtà ingiusta, cattiva e insensibile ad ogni supplica. La sporcizia, questo è il posto che il mondo ha pensato per Cenerentola. La sporcizia di un caminetto ricolmo di cenere. Un lamento senza fine apparentemente destinato a non essere mai udito da nessuno. E’ questa l’ultima parola sulla mia vita? E’ la cenere il mio destino?

Un povero non avrebbe dubbi sulla risposta da dare; anche l’ultimo dei mendicanti custodisce nel proprio intimo una parola, un sogno, che ha in sé la forza di ricordare che la realtà, che ciò che si vede non è tutto. L’uomo non è solo ciò che si vede. La realtà non si esaurisce in ciò che è pensabile, ragionevole o prevedibile.

Il dramma che si consuma nella fiaba, così come nella nostra esistenza, consiste proprio in questo conflitto tra una realtà che ti umilia, che ti accusa, che ti fa continuamente presente un limite, e un desiderio di grandezza infinito che non si sa da dove viene. Un desiderio che non è incredibile pensare che non sia di questo mondo.

Sotto la cenere, in mezzo alla fuliggine di una vita sbagliata e disordinata, arde la brace del desiderio di un’esistenza completamente altra, finalmente vera. Cenerentola diventa così l’incarnazione di una fierezza invincibile, di una tenace e paziente speranza nonostante tutte le privazioni.

Accettare di dimorare presso la cenere molte volte significa un rovesciamento di prospettive che colpisce le nostre fondamenta e reca uno sgretolamento inarrestabile: come un edificio in cemento armato, al quale possiamo aver lavorato per anni con estrema cura e che, a un certo punto, si è messo a funzionare solo come uno scudo contro il nostro io più profondo e contro gli altri, finendo col rischiare di proteggerci anche contro la grazia di Dio.

Il cuore di questa fiaba millenaria è tutto qua: la progressiva scoperta della propria dignità regale. Una dignità che però non va conquistata, perché non dipende da quello che fai, dal curriculum scolastico o dalla posizione lavorativa. Questa dignità è il frutto di un’elezione, proprio come cantato nel Magnificat: il Signore ha guardato l’umiltà della sua serva. D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.

L’umiltà, non le gesta eroiche, non le mie vittorie, non i miei primati. Anche questo è scritto nella fiaba. Cosa fa infatti Cenerentola per realizzare il suo sogno? Diciamo che, ogni volta che si dà da fare, finisce a gambe all’aria. Ad esempio, quando alla notizia del gran ballo si arma di ago e filo e confeziona da sé il suo abito, destinato poi a finire a brandelli sotto le unghie della matrigna e delle sorellastre. Appena Cenerentola si muove la realtà la sbrana.

Quand’è allora che le cose iniziano a muoversi nella giusta direzione? Quando Cenerentola si arrende, quando si decide a non fare nulla, quando erompe in un pianto che annuncia la resa.

Dobbiamo imparare a dimorare accanto alle nostre rovine, a sederci in mezzo ai detriti di casa nostra, fatti di cicatrici e di desideri frantumati, senza amarezza, senza rimproverare noi stessi né accusare Dio. Si tratta di imparare ad amare la propria nullità, le proprie ferite, la propria storia, la propria cenere.

Perché c’è questo da capire, ossia che non si deve fare nulla. È una verità questa che non deve scoraggiarci ma deve finalmente permetterci di riposare. Non vi è nulla di esteriore da guadagnare, non vi è nulla da conquistare perché, per realizzare il nostro sogno, per vedere sbocciare la nostra natura regale, bisogna solo ricevere. Un dono, è questo quello che serve. Un dono tanto grande da poter realizzare una metamorfosi che renda visibile ciò che giace perduto da qualche parte, nascosto sotto una coltre di cenere.

L’erompere del vero Io in tutta la sua bellezza è reso possibile solo grazie all’intervento di qualcun altro. La figura della fata madrina fa memoria di questo. Non trasforma Cenerentola rendendola un’altra persona, ma la incoraggia ad essere esattamente ciò che è. Certo crea anche le condizioni per andare al ballo, procura alla sua figlioccia un bel vestito, le sistema l’acconciatura, ma non la trasforma in qualcun altro. Diciamo che l’aiuta con del training autogeno, dando a Cenerentola la forza di presentarsi al ballo, convincendola che anche lei può prendere parte alla festa della vita[7].

E allora succede questa cosa straordinaria: incontra il principe che rimane incantato da lei al punto da non mollarla neanche un minuto. Danzano tutta la notte, la felicità sembra finalmente a portata di mano, ma all’improvviso qualcosa spaventa Cenerentola che fugge.

La menzogna su se stessa torna a bussare alla sua porta: «come posso io essere degna d’amore se sono così misera? Cosa succederà quando questo bel principe scoprirà di che pasta sono fatta? Diciamoci la verità, io non merito l’amore di un re, io non merito l’amore di nessuno».

Sembrerà strano ma questo è il pensiero che impedisce alla maggior parte delle persone di essere felice. L’indegnità di prender parte alla vita, di pretendere la parte migliore, di vivere all’altezza dei propri desideri. Convinta da questo ragionamento, Cenerentola torna a casa, si toglie le vesti splendenti e si rifugia nella certezza della cenere decisa a non smuoversi più da lì. A questo punto, per sbloccare la situazione, c’è bisogno che qualcuno che sia potente prenda un’iniziativa. La madrina non basta più.

C’è bisogno che un principe ti venga a cercare, che esca dal suo palazzo portando con sé la tua scarpa, il calco della tua apparizione, ossia la verità su di te. C’è bisogno che un figlio di re ti venga a prendere nella sporcizia nella quale ti sei rifugiato, e che non abbia paura di sporcarsi, che ti faccia capire che non si è sbagliato sul tuo conto, e che è proprio te che vuole.

Ti vuole con la tua miseria, perché sa che la miseria non si può nascondere, che i limiti di ciascuno di noi non possono essere superati ma solo offerti. Viene a prenderti senza sperare che tu cambi. Vuole te, con i tuoi chiari di luna, con il tuo passato, con i tuoi errori, con le tue incapacità, con questo senso di inadeguatezza che da sempre ti perseguita.

Si tratta allora di imparare ad amare la propria storia poiché la nostra storia di vita è il primo e ultimo amore che ci è dato in sorte. Da tale umile accettazione delle proprie miserie ovvero della propria cenere possono nascere la conversione e la novità, la ricerca e la gioia interiore, la propria rinascita.

Devo imparare ad essere felice di quello che ora sono! Il dramma sta nella rassegnazione, nella fissazione sul dato, e nella conseguente incapacità di cogliere le possibilità e l’inedito. Sì, sono molte le persone che vivono la difficoltà di accettare la propria storia, di riconsiderarla in un orizzonte di cambiamento, di dare un nome ai conflitti che la animano e una data al loro insorgere, che si limitano a contemplare narcisisticamente i sintomi di un malessere che non hanno il coraggio di inserire in un progetto di guarigione[8].

Il discepolo che vuole seguire Gesù – ancor più il presbitero – deve necessariamente accettare a sua volta la propria debolezza. Fino a quando ci opponiamo in mille modi alla nostra debolezza spazzando via tutte le ceneri, la potenza di Dio non può agire in noi.

Paradossalmente noi siamo forti solo quando la nostra debolezza diventa evidente e l’accettiamo come tale, solo quando non ci resta altro che accettare di dimorare accanto alla cenere della nostra vita: è il luogo benedetto in cui la grazia di Dio può sorprenderci e invaderci. Dice infatti san Paolo: «Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze perché dimori in me la potenza di Cristo» (2Cor 7,9).

Dimorare presso la cenere fatta di ferite, errori, peccati, tentazioni: ecco l’unica via per entrare in contatto con la grazia e per diventare un miracolo della misericordia di Dio.

Non temiamo di dimorare presso le nostre ceneri. La maggior parte di noi è inquieta, se non addirittura smarrita, quando appare, in modo più o meno brutale, la propria debolezza. Alcuni arrivano perfino a fuggire: bisogna avere una certa esperienza dell’amore di Dio per osare permanere nella debolezza e riconciliarsi con il proprio peccato.

Alcuni non riusciranno mai a riconoscere e accettare la minima traccia di debolezza in se stessi. La vita di costoro può sembrare molto generosa, ma nel contempo sarà sempre un po’ rigida e forzata: una vita in cui l’amore autentico non può sgorgare; sono persone alla soglia dell’indurimento, che affermano di essere ben lontane dalla cenere quando invece ci vivono insieme. In questi casi la fata non potrà far nulla.

Spontaneamente pensiamo che la santità va cercata nella direzione opposta al peccato e contiamo su Dio perché il suo amore ci liberi dalla debolezza e dal male e ci permetta così¨ di raggiungere la santità. Ma non è così che Dio agisce in noi: la santità non si trova all’opposto bensì al cuore stesso della nostra debolezza, della tentazione, delle nostre ferite, delle nostre paure, dei nostri desideri delusi. La santità non ci aspetta al di là delle nostre debolezze ma al loro interno. Sfuggire alla debolezza significherebbe fuggire alla potenza di Dio che è all’opera solo in essa.

Dobbiamo dunque imparare a dimorare nella nostra debolezza, ma armati di una fede profonda, accettare di essere esposti alla nostra debolezza e, nello stesso tempo, abbandonati nell’amore di Dio.

Solo nella nostra debolezza siamo vulnerabili all’amore di Dio. Dimorare presso la cenere fatta di ferite, errori, peccati, tentazioni: ecco l’unica via per entrare in contatto con la grazia e per diventare un miracolo della misericordia di Dio.

Gesù Cristo è il nostro vero re che non ha autorità sulla nostra vita in virtù di un potere, ma unicamente perché la sua presenza per noi è fonte di felicità. La sua potenza è il non rivendicare alcun potere, la sua compagnia è desiderabile perché ha come unica preoccupazione il nostro bene.


[1] E. Bianchi, Lessico della vita interiore, BUR, Milano, 2011, pg. 156.

[2] Ivi.

[3] Mi sembrano pertinenti le osservazioni critiche di T. H. ERIKSEN, Tempo tiranno. Velocità e lentezza nell’era informatica, Eleuthera, Milano 2003.

[4] Cf. S. Turkle, Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri, Einaudi, Torino 2019.

[5] Ivi.

[6] Cf. S. Tesson, Nelle foreste siberiane, Sellerio, Palermo 2012.

[7] Cf. D. Demetrio, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Cortina Raffaello, Milano 1996.

[8] Cf. E. Drewermann, Cenerentola. La fiaba dei fratelli Grimm interpretata alla luce della psicologia del profondo, Queriniana, Brescia 1995.

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