Tutto ciò che si fa per sradicare la cultura dell’abuso dalle nostre comunità senza una partecipazione attiva di tutti i membri della Chiesa non riuscirà a generare le dinamiche necessarie per una sana ed effettiva trasformazione (Francesco, Lettera al popolo di Dio)
È un lento e doloroso cammino di apprendimento, quello che la Chiesa sta percorrendo sul tema degli abusi. Soprattutto Francesco ha impresso un cambio di sensibilità nell’affrontare questo lato oscuro radicato nel corpo della Chiesa. Due, almeno, mi sembrano le acquisizioni che Francesco ha portato in primo piano.
La prima è che dobbiamo dare ascolto a quello che potremmo chiamare il “magistero delle vittime”. Non comprenderemo mai il male in tutta la sua verità e serietà se non diamo parola a chi l’ha subito.
La seconda sottolineatura è quella di affrontare il lato sistemico del fenomeno. Non si tratta di “poche mele marce”, ma di qualcosa che ha che fare con un certo modo di intendere il potere, le relazioni nella Chiesa tra preti e laici (il clericalismo), il modo di intendere l’autorità.
La comunità e le persone fragili
Eppure, manca qualcosa. Di fronte a tanti casi e a così diverse forme di abuso – ricordo che parliamo di abuso non solo nel caso di abuso sessuale; c’è l’abuso di coscienza, di potere e sessuale; e le forme sono correlate strettamente – mi sorge sempre una domanda: ma nessuno se n’è accorto? E la comunità cristiana dov’era?
E non lo dico per scaricare la responsabilità dei singoli attori degli abusi o dell’autorità che avrebbe dovuto farsi carico del cammino dei suoi preti. Ma semplicemente perché un prete, nelle sue relazioni, non è mai isolato, ma vive dentro una Chiesa, un popolo di Dio, una parrocchia, dei credenti, uomini e donne che gli sono vicino. E nessuno se n’è accorto?
Penso allora che quello che manca sia una riflessione sul ruolo del popolo di Dio, dei credenti tutti, in questa crisi degli abusi. C’è una responsabilità, meglio un’attenzione che non può essere elusa. Anzitutto nei confronti dei piccoli e delle persone fragili. Forse si è lasciato che il senso di fiducia nei confronti dei preti e delle istituzioni religiose finisse per essere interpretato come delega, non come alleanza.
I genitori affidano i loro figli ai preti, li mandano nelle istituzioni religiose, ma questo non può essere inteso come delega, come una fiducia acritica, senza un’attenzione che sappia discernere se e come quel prete, quella scuola, quel movimento, quella istituzione religiosa sia effettivamente degna della propria fiducia. Senza una cura che accompagna i piccoli anche mentre li affida a terzi. Ora il rischio è quasi il contrario, che cioè prevalga uno sguardo sospettoso, e anche questo non è bene. Non si tratta né di delegare né di sospettare, ma di vivere una cura per i piccoli che costruisca una rete di relazioni interconnesse, e per questo di una fiducia protettiva.
La comunità e i preti
Un’analoga attenzione e cura riguarda non solo i piccoli ma anche i preti. Anche nei loro confronti mi pare che spesso la fiducia, data a priori, a volte sia un modo di lasciare solo il prete più solo, privo di una rete di relazioni che lo possano custodire.
Spesso un erroneo senso di rispetto e di deferenza porta i laici a credere che loro non possano e non debbano avere una parola da dire nei confronti dei comportamenti di un prete. Mi è accaduto di ascoltare la confidenza di una parrocchiana, la quale, visto con i propri occhi che un prete portava un ragazzino in palestra, trovasse inappropriato un tale comportamento, ma si chiedesse: “chi sono io per intervenire, per dire qualcosa, per sospettare – anche se era chiaro che fosse una condotta che la lasciava interdetta – per prendere una iniziativa?”.
Oppure quando un prete lega a sé dei ragazzi e dei giovani in modo eccessivo, creando rapporti di dipendenza, magari creando spaccature con i legami familiari, isolando la propria relazione con i ragazzi da ogni altra presenza, possibile che nessuno si faccia delle domande e si senta di dover dire qualcosa?
Oggi più di ieri le condizioni di vita del prete lo pongono in condizioni isolate, dove i comportamenti privati e quelli pubblici possono divaricare pericolosamente e aprire zone grigie dove nessuno sguardo fraterno custodisce la vita del prete e permette il crearsi di una doppia vita, o almeno una doppiezza di comportamenti. A volte ad una posa rigidamente sacrale e tutta presa nel proprio ruolo, corrisponde una liberalità e una disinvoltura nelle relazioni fuori dal ruolo. Ma sempre mi chiedo: nessuno si accorge? Nessun confratello, nessun amico, nessun parrocchiano?
Tutti e tutte nella comunità cristiana
Quando papa Francesco dice che “senza una partecipazione attiva di tutti i membri della Chiesa non si riuscirà a generare le dinamiche necessarie per una sana ed effettiva trasformazione”, credo stia invitando a riflettere proprio sul ruolo di tutti i credenti, perché nessuno sia lasciato da solo.
Perché le nostre comunità cristiane, le istituzioni religiose, siano sempre più delle case, dei luoghi familiari, dove ciascuno si sente responsabile di una cura per tutti. Questo non risolve magicamente la questione degli abusi – che sappiamo avvengono anche e proprio nelle case e nelle famiglie – ma permetterebbe una conversione delle nostre comunità, un cammino di maggiore verità.
Come in tutte le case e in tutte le famiglie, ci saranno sempre relazioni difficili, persone che vivono in esse con le loro fragilità e le loro ombre, ma qualcuno si dovrà accorgere e farsi carico di queste fatiche e di queste ombre.
Anche il ruolo del prete e il modo di vivere l’autorità, di esercitare il ministero, e anche il potere – senza paura di questa parola – dovranno essere ricompresi a partire da una condizione comune, quella che ci vede tutti, prima di tutto, figli e credenti, uniti nel battesimo da una stessa dignità e da una medesima responsabilità vicendevole.
Gentile Torresin, sicuramente alcuni con questa storia degli abusi, abusi sessuali in particolare, stanno tentando da tempo di fare di tutta l’erba un fascio a discapito dell’immagine della Chiesa. Però le faccio una domanda: che diavolo c’entrano il potere, il modo di intendere l’autorità. il clericalismo con il fatto che alcuni sacerdoti – certamente una assoluta minoranza – abbiano compiuto e magari compiano tuttora gesti indicibili sui minori, e in particolare sui bambini maschi? Lei davvero non ci vede altro che una proiezione, in altri termini e in altri contesti, di quello che avviene disgraziatamente in molte famiglie? Non sarà venuto il momento di chiedersi se il celibato, una scelta per i più limpidamente autentica, non sia per alcuni altri una costrizione o se addirittura non orienti verso il sacerdozio cattolico persone che avevano già di per sé tendenze di un certo tipo?
Nella chiesa gli abusi di potere e di coscienza sono il terreno fertile per gli abusi sessuali. Bisogna ripensare il sacerdozio ministeriale in senso sinodale se si vuole combattere seriamente ogni forma di abuso. Il sacerdozio ministeriale deve essere al servizio del sacerdozio battesimale come dice la “Lumen gentium”. La separazione del clero dal resto del popolo di Dio non è segno di appartenenza a Dio ma di dominio. Siamo chiamati tutti a seguire Cristo in modo differente ma insieme e camminando insieme dietro a Cristo scopriremo che il servizio è il tratto distintivo del cristiano. Abbiamo bisogno di direttori di una grande orchestra, che è la chiesa, più che di generali di corpi di armata.
Ma gli abusi sessuali sui bambini, in persone che hanno, per via degli studi, un livello di istruzione elevato, non sembrano solo il prodotto di “abusi di potere e di coscienza”. Ci deve essere qualcosa che precede e che viene prima, la quale potrebbe essere il prodotto di situazioni taciute o la punta dell’iceberg di problemi interiori. Si può andare avanti senza chiedersi chiaramente dove sia l’origine?
Due situazioni completamente diverse: la prima accaduta alla fine degli anni 40 del secolo scorso: vittima una bambina diventata giovane e sposa e madre, sempre nelle mani dell’”orco”…
Nessuno, proprio nessuno si è accorto della doppia vita del prete, in uno dei tanti paesini della nostra diocesi ambrosiana? Ed il parroco non ha colto nulla di anomale nel suo coadiutore?
Nell’altra una quarantina d’anni fa. Nel campo estivo in montagna il coadiutore dava da bere alcool agli adolescenti e poi ne approfittava. Nessuno di questi ragazzi ha detto nulla di ciò in casa? Non penso che sia normale a quell’età bere degli alcoolici, anche durante le vacanze estive con l’oratorio. UN CONEFESSORE