Dal 23 al 27 maggio si è svolta la 76ª Assemblea Generale della Conferenza episcopale italiana. Un appuntamento ecclesiale importante che è culminato nell’elezione e nella nomina del cardinale Zuppi come presidente dei vescovi italiani.
Nel Comunicato finale, a cura del neopresidente, vengono evidenziate diverse priorità, tra le quali la formazione permanente del clero, la formazione dei formatori dei seminari, la stesura della nuova Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis per il cammino di formazione al presbiterato e la tutela dei minori e delle persone vulnerabili.
Quattro questioni di assoluta importanza per la Chiesa in Italia, strettamente interconnesse tra loro, molto più di quanto non possa apparire superficialmente. Quattro questioni che richiedono una cura eccezionale e che suscitano preoccupazione nell’episcopato.
Errori da evitare
A tutto ciò, dobbiamo aggiungere il rischio di incappare in errori che inficerebbero l’efficacia di qualsiasi intervento.
Il primo possibile errore è sicuramente di natura metodologica: problemi complessi e connessi non possono essere risolti in modo semplice e parcellizzato.
Il secondo, è credere di poter dare risposte soddisfacenti, senza dover allargare le quattro questioni ad altre realtà che inevitabilmente da esse sono richiamate. A solo modo di esempio, mi vengono in mente: la gestione dei seminari diocesani, regionali, interdiocesani, il “peso” dei rettori e dei vescovi, la realtà dei piccoli seminari e annesse facoltà teologiche, i seminari minori…
Il terzo è optare per una prospettiva semplicistica come quella duale: tutto centralizzato o tutto delocalizzato. La scelta vincente sarà, senza dubbio, quella che proporrà il “tenere insieme” livelli diversi e tendenzialmente opposti.
Da dove partire? Credo che sia utile partire da tutte e quattro le questioni facendo attenzione a favorire le interconnessioni possibili.
Formazione permanente
La formazione permanente, generalmente, è una realtà in sofferenza in tutta Italia e non solo per il Covid. È evidente che occorre cambiarne la struttura. Innanzitutto, sarebbe molto fruttuoso che fosse curata da un’équipe eterogenea (prete, religioso, religiosa, laici) e che fosse collegata con la formazione remota al presbiterato (come già indicato da Benedetto XVI nel 2013 con il motu proprio “Ministrorum institutio”).
L’équipe è bene che sia conosciuta già dai tempi del seminario e in qualche modo garantisca una certa continuità di persone, anche se non di metodo o stile (i giovani preti non hanno bisogno di un surplus di seminario). Due attenzioni credo siano necessarie: la prima, passare da una formazione cognitiva a una trasformativa, senza la pretesa di comunicare altri contenuti (dovrebbe essere già stato fatto negli anni del seminario), ma piuttosto di far esprimere i partecipanti sui loro vissuti e aiutarli a rileggerli; la seconda, verificare con i preti partecipanti, la formazione vissuta nell’anno e raccogliere indicazioni per organizzare l’anno successivo. Senza verifica, non c’è percezione di qualità e di serietà!
Di certo, la formazione permanente non si improvvisa, né da parte del vescovo e dell’équipe – perché seguire personalmente dieci, trenta, cinquanta preti richiede tempo, mente e cuore disponibili – né da parte dei preti partecipanti, perché hanno necessità di essere educati a questa esperienza, sin dal primo anno di seminario.
Questa visione della formazione permanente richiede indubbiamente persone preparate. È definitivamente terminato il tempo in cui era sufficiente la buona volontà e la personale disponibilità. Purtroppo, non sono sufficienti (anche se necessari) i soli titoli accademici, ma sono indispensabili anche l’esperienza e una supervisione dell’équipe formativa.
Formatori nei seminari
Quest’ultimo passaggio fa da apripista alla questione della formazione dei formatori dei seminari. Chi non rimarrebbe perplesso dinanzi a un presidente del tribunale ecclesiastico o a un cancelliere di curia con il solo baccellierato o con la licenza in filosofia? Chi si preoccupa di rettori, formatori e padri spirituali senza studi appropriati e adeguata esperienza? Quasi nessuno. E questo è il problema!
Ha senso scegliere i formatori dei futuri parroci tra preti con pochi anni di ministero e che, spesso, non hanno mai fatto i parroci?
Occorre investire realmente nella formazione anche prevedendo, per tempo, esperienze pastorali e formative, in modo da uscire dalla logica delle emergenze. Del resto, la storia ci insegna che approcci emergenziali, nel tempo, producono spesso altre emergenze.
Se la stragrande maggioranza dei vescovi, come è emerso anche all’ultima assemblea generale della CEI, è d’accordo che il percorso di formazione al presbiterato necessiti di un profondo aggiornamento, è anche vero che ci sono visioni ancora molto distanti tra loro sulle possibili alternative. In questo contesto è molto concreto il rischio che la nuova Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis segua la stessa sorte della precedente che, nel 1985, ripropose sostanzialmente quella del 1970, con l’aggiunta solo di alcune note per recepire le norme del nuovo Codice di diritto canonico (promulgato nel 1983).
Il problema di base è che si continua a formare i preti diocesani in una struttura, se pur profondamente diversa, ideata nel lontano Concilio di Trento (1545-1563) come riposta alla riforma protestante. Ovviamente, non si tratta banalmente di decidere se confermare o eliminare il seminario (troppo spesso identificato solo come un luogo), ma di allargare la riflessione su quale prete sia oggi utile alla Chiesa e quale modello di Chiesa vogliamo. Se lavoreremo bene, credo che tra 40 anni potremmo cominciare a raccogliere buoni frutti!
Minori e vulnerabili
Ultima priorità, non certo per importanza, emersa nell’Assemblea dei vescovi italiani, è quella della tutela dei minori e delle persone vulnerabili. Questione dolorosa e mediaticamente molto esposta per essere affrontata con la serenità che richiederebbe.
Per creare una mentalità “tutelante”, occorre verificare che i candidati al ministero presbiterale abbiano una maturità complessiva adeguata, occorre formarli con adeguati contenuti ed evitare che subiscano, negli anni della formazione, qualsiasi forma di abuso, che siano seguiti personalmente negli anni della formazione al presbiterato e nella formazione permanente (con modalità diverse in funzione degli anni di ministero, ma anche del cammino personale).
Grazie alla formazione permanente, sarebbe utile anche supervisionare i parroci che accolgono i preti novelli, perché possano farlo con la necessaria attenzione, anche attraverso una comunità cristiana che deve essere adeguatamente formata e coinvolta nell’accoglienza.
Le questioni sollevate, richiedono ovviamente approfondimenti più sistematici in altri contesti, ma spero che queste riflessioni possano contribuire a suscitare in ciascun lettore, in base al proprio ruolo e alle proprie competenze, il desiderio di riflettere – e magari di esprimersi – su questioni così tanto delicate per il bene delle persone e della Chiesa.
Condivido pienamente cosa ha scritto Marco Vitale al quale va i miei più sentiti complimenti. Mi permetterei di fare alcune sottolineature. La prima: la formazione al sacerdozio deve de-clericalizzarsi. Nei seminari ci devono essere anche donne, consacrati, laici, laiche. Altrimenti il rischio è un clericalismo che fa solo danni nel lungo periodo. Secondo: la formazione al sacerdozio deve aprirsi al mondo, cioè non può ridursi/rinchiudersi in un luogo che ormai assomiglia molto ad un collegio. Terzo e forse è la cosa più importante: va attuata una poderosa riforma della Chiesa che è in Italia. Si stanno moltiplicando in tante diocesi uffici che trattano materie affini. Si è perfino arrivati a creare il responsabile della pastorale digitale che è diverso da quello delle comunicazioni sociali, pur di dare spazio a qualcuno. Imparare da “Praedicate evangelium” razionalizzando e aprendo ai laici no?