È passata quasi sotto silenzio la riforma del sistema di formazione e di reclutamento degli insegnanti varata dal governo Draghi con un decreto legge del 30 aprile scorso ed entrata in vigore il 1° maggio. Poco maggiore risonanza ha avuto, nell’opinione pubblica, lo sciopero generale della scuola, proclamato da tutti i sindacati del settore scolastico, ed effettuato il 30 maggio.
La riforma e la rabbia
Sembra proprio che, nel nostro Paese, della scuola non interessi molto a nessuno. Se n’è parlato un po’ per i problemi posti dalla pandemia e dalla didattica a distanza, ma sulla sua crisi endemica sia i governi che l’opinione pubblica rimangono molto distratti. Eppure agli insegnanti vengono affidati i nostri bambini e i nostri ragazzi, non solo perché imparino delle nozioni, ma perché crescano intellettualmente e culturalmente.
A nessun altro come a loro le famiglie demandano un’integrazione decisiva dell’educazione dei propri figli. Eppure il trattamento economico di questa categoria è ai livelli più bassi del settore pubblico. A parte il fatto che il Contratto nazionale, scaduto nel 2019, ancora non è stato rinnovato, comunque, in quello nuovo, l’aumento di stipendio previsto per il personale insegnante sarà di circa 90 euro lordi al mese, che, al netto delle imposte, diventeranno circa 50 euro. Per il personale ATA si parla di 10 euro in più mensili!
Si capisce la rabbia di coloro che sono scesi in piazza, il 30 maggio, contro questa linea politica. Ma la manifestazione era diretta anche e soprattutto contro il decreto legge appena approvato e riguardante, come dicevamo, il sistema di reclutamento dei docenti.
Sul reclutamento degli insegnanti
Per prima cosa, i sindacati hanno contestato, giustamente, la fretta con cui una riforma così importante è stata fatta dal governo. Da qui il ricorso allo strumento del decreto legge, che ha impedito un confronto con i rappresentanti dei lavoratori della scuola e un possibile coinvolgimento dell’opinione pubblica.
A quanto pare, c’era un impegno, assunto con l’Unione Europea, di renderla esecutiva entro il 30 giugno, per poter ricevere la seconda rata dei fondi europei del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR). Ma ci si poteva pensare prima.
I sindacati però hanno contestato anche il merito del provvedimento. E su questo, per la verità, la valutazione si presenta più problematica. L’intento complessivo del decreto è di garantire una maggiore professionalità del corpo docente. Perciò esso prevede che, per accedere a un posto a tempo indeterminato di insegnante, si debba seguire, da ora in poi, un iter abbastanza impegnativo.
Sarà necessaria, prima di tutto, una formazione iniziale, attraverso un percorso abilitante – che si potrà svolgere o durante i rispettivi corsi di laurea, oppure dopo essersi laureati – volto ad accumulare altri 60 crediti formativi, aggiuntivi rispetto a quelli della laurea triennale e magistrale.
Detto percorso, che includerà anche un periodo di tirocinio nelle scuole, sarà erogato da centri universitari o accademici e si concluderà con una prova finale che accerti «le competenze culturali, disciplinari, pedagogiche, didattiche e metodologiche» del candidato. A questo fine è prevista, oltre allo scritto, una lezione simulata. Il numero di posti disponibili sarà indicato dal Ministero in base al fabbisogno di docenti per classe di concorso del triennio successivo.
L’abilitazione così conseguita consentirà l’accesso ai concorsi, che saranno su base regionale o interregionale e avranno cadenza annuale, per la copertura delle cattedre vacanti. In questi concorsi, la prova scritta rimarrà, come in quelli attuali, a risposta multipla (i quiz) fino al 31 dicembre 2024. A seguito di quella data, le domande saranno a risposta aperta.
I vincitori del concorso saranno assunti con un periodo di prova di un anno, che si concluderà con un test finale e una valutazione del dirigente scolastico. In caso di esito positivo, ci sarà finalmente l’immissione in ruolo. Per coloro che già insegnano da almeno 3 anni (anche non continuativi) nella scuola statale come precari è previsto l’accesso diretto al concorso. Per loro i bandi prevederanno il 30 per cento di posti riservati per ciascuna regione. Ma i vincitori, per passare di ruolo, dovranno poi conseguire 30 crediti universitari e sostenere una prova finale per conseguire l’abilitazione che non avevano.
Le critiche
Diverse critiche sono state mosse, e non solo dai sindacati, a questa complessa normativa. Una, che ci sembra senz’altro condivisibile, evidenzia il forte rischio che la possibilità di accedere al percorso abilitante già durante il corso di studi per la laurea triennale o magistrale spinga gli studenti a iscriversi a università telematiche per conseguire i 60 crediti formativi supplementari in maniera facile e veloce, dando luogo a un vero e proprio mercato dei titoli che svantaggerebbe, tra l’altro, i meno abbienti.
Un’altra critica più che plausibile, rivolta al decreto legge, è quella che ne contesta la macchinosità facendo notare che tra esame abilitante, concorso e valutazione finale dell’anno di prova, il candidato all’insegnamento si trova impegnato in una specie di «percorso a ostacoli» che ricorda la famosa battuta secondo cui «gli esami non finiscono mai».
Non si capisce bene, ad esempio, il ruolo decisivo affidato al dirigente scolastico per decidere della idoneità all’insegnamento di una persona che ha già superato un esame di abilitazione e un concorso. E neppure appare logico che un precario, dopo aver superato la prova finale del concorso, debba poi sottoporsi a un ulteriore esame di abilitazione.
La questione di fondo: la selezione
Il punto è che il dissenso dei sindacati non riguarda in primo luogo queste discutibilissime modalità, ma il ricorso allo strumento dei concorsi nazionali come unica via di accesso alla professione di insegnante. Chiedendo, in particolare, che i precari possano ottenere l’immissione in ruolo senza sottoporsi a un rigoroso esame delle loro competenze culturali e didattiche, in base al principio che chi già insegna evidentemente è capace di farlo.
Ma è veramente così? E, più in generale, si può veramente continuare a ripetere per la scuola l’ormai logoro mantra sessantottino che demonizza la selezione? Veramente nell’assunzione degli insegnanti il criterio migliore da seguire dev’essere quello di «sistemarne» il più possibile, come «lavoratori della scuola», senza badare troppo alla loro qualità professionale e quindi senza sforzarsi di selezionare quelli più capaci di svolgere adeguatamente la loro delicatissima funzione educativa?
Cosa penserebbe il paziente apprendendo che nell’ospedale in cui è ricoverato ci si è prefissi di «dare un posto» a medici disoccupati, piuttosto che assumere quelli più bravi, dopo averne rigorosamente verificato la competenza?
Si capisce, sotto questo profilo, perché l’Associazione nazionale dei presidi si sia dissociata dallo sciopero del 30 maggio: «Il ritornello è il solito: stabilizzare i precari, non considerando per nulla il diritto degli alunni ad avere insegnanti migliori, più preparati, più aggiornati», osservava Cristina Costarelli di ANP Lazio.
Non aver paura delle differenze
Questo problema si ripresenta anche per gli aumenti di stipendio. Anche qui la critica alle organizzazioni sindacali è che «si vuole evidentemente la distribuzione a pioggia di soldi per tutti. Non si vuol sentire parlare di merito e differenziazioni. Più soldi per tutti ha un sapore populista senza utilizzare gli aumenti per restituire efficienza e premialità» (Mario Rusconi di ANP Roma).
Non si tratta, ovviamente, di negare l’importante funzione e i meriti dei sindacati. Ma non si può impostare il problema esclusivamente in termini rivendicativi, lasciando in secondo piano il fatto che gli insegnanti sono innanzi tutto chiamati a rendere un servizio alla società.
A questo proposito già l’enfasi sull’espressione «lavoratori della scuola» rischia di mettere in ombra la specificità della funzione docente, che è quella culturale. La pari dignità di insegnanti e di personale ATA non comporta l’annullamento delle differenze dei loro rispettivi ruoli nell’unica impresa educativa. Questo comporta per chi insegna delle specifiche responsabilità di continuo aggiornamento che è giusto far valere nella valutazione della loro professionalità. Anche qui non si devono demonizzare le diversità.
I primi a non rendersi contro di questa esigenza di qualità culturale, però, sono stati i governi. Non si spiegherebbe, altrimenti, perché si sia introdotto e venga tuttora mantenuto – fino al 2024! – l’assurdo criterio di selezione basato sui quiz. Veramente si può credere di selezionare dei validi docenti affidandosi al gioco delle crocette?
Il dibattito su tutto questo non dovrebbe coinvolgere soltanto governo e sindacati, bensì tutti gli italiani. Perché è da una scuola migliore che essi possono sperare una qualità diversa della vita sociale e di quella politica. Avvertiamo tutti ogni giorno le carenze umane e i vuoti culturali di una classe dirigente scarsamente qualificata. La scuola è l’unica speranza di avere un futuro diverso. Per questo vale la pena partecipare alle sue vicende e prenderne a cuore le sorti.
- Pubblicato sul sito della pastorale della cultura della Diocesi di Palermo (www.tuttavia.org), 3 giugno 2022.