Andrea Grillo, teologo, docente di Teologia dei sacramenti presso il Pontificio Ateneo S. Anselmo a Roma e di Liturgia presso l’Abbazia di Santa Giustina a Padova, reagisce alla riflessione di Ghislain Lafont, Misericordia e infallibilità.
La portata delle questioni sollevate dal magistero pastorale di papa Francesco è stata lucidamente fotografata dalle parole del p. Ghislain. Lafont. Sappiamo bene quanto egli sappia andare a fondo delle questioni, in un modo tanto diretto, semplice e lungimirante.
Mi pare che il primo punto su cui è giusto soffermarsi sia la comprensione della portata “ampia” e “generale” delle questioni sollevate da Amoris laetitia. La reazione è molto più dura, sul tema matrimoniale, di quanto non sia quella sui temi politici o culturali. Non è un caso che questo avvenga proprio in questo campo morale e istituzionale. La tradizione ecclesiale, infatti, ha mutato registro rispetto agli stili ottocenteschi, in quasi tutti gli altri “campi” ormai da tempo: sui temi della libertà, dell’impegno politico, della forma del ministero, della celebrazione rituale, passi notevoli sono stati compiuti. Ma il matrimonio – insieme al tema famiglia e amore – viene ancora considerato un ambito nel quale la difesa del Vangelo e della società chiusa tendono a identificarsi. Parlare di “misericordia” viene percepito, immediatamente, come un “cedimento al moderno” e come “tradimento del vangelo”.
Osservo che così non si è fatto in tanti altri campi: il contratto di “assicurazione”, ad esempio, era stato letto, inizialmente, come “negazione della Provvidenza”…, ma oggi quale cardinale parlerebbe contro la assicurazione obbligatoria delle automobili, percependola come “infrazione” di un diritto di Dio all’esercizio della Provvidenza?
Una questione di “teologia fondamentale”
Nel suo testo, in modo pertinente, Lafont dice che forse dovremmo pensare il dibattito intorno ad Amoris laetitia come una questione di “teologia fondamentale”, che ci invita a pensare in modo più adeguato il rapporto tra misericordia e verità, tra grazia e infallibilità. Si tratta di un suggerimento prezioso: tutto ciò che papa Francesco ha fatto in questi quasi quattro anni risente di questa “visione complessiva”, che viene da lontano e che è possibile trovare con molta chiarezza nel pensiero e negli atti di papa Giovanni XXIII.
L’idea di un “Concilio” come “atto di misericordia” introduce nella Chiesa del XX secolo una nuova possibilità di rapporto con la propria tradizione e con il mondo moderno. La “misericordia” come “forma della Chiesa” – secondo la bella immagine che Stella Morra ha introdotto nel sul libro Dio non si stanca. La misericordia come forma ecclesiale – diviene il criterio per interpretare i suoi rapporti ad intra e i suoi rapporti ad extra.
Annunciare una “comunione più vasta” in campo matrimoniale, e una “comunione più vasta in campo ecumenico” – queste sono le due profezie principali degli ultimi mesi di pontificato, percepiti come vulnera da parte dei settori più rigidi della Chiesa – risponde perfettamente a questo disegno di 60 anni fa, che ha preso corpo nel concilio Vaticano II e che oggi trova in Francesco un interprete tanto determinato quanto inatteso, anche non privo di “presentimento” nel corpo ecclesiale. Si tratta, in effetti, di un grande “mutamento di paradigma” rispetto all’assetto ecclesiale ottocentesco e della prima metà del ’900.
La fine di una deriva autoritaria, anche in teologia
In effetti tutti noi, cristiani cattolici, siamo figli di una “deriva autoritaria” che il pensiero e la prassi cattolica ha elaborato – non senza resistenze – a partire dagli inizi del XIX secolo e che ha trovato nel Codice di diritto canonico del 1917 una sua figura sintetica assai potente. Ciò che oggi non funziona più, dopo un secolo esatto, non è la presenza di una “legge canonica”, ma la sua forma di codice.
La codificazione ha “modernizzato la Chiesa”, ma le ha sottratto elasticità, discernimento, discrezione, movimento. C’è un effetto paralizzante, che allora rispondeva bene alle paure antimodernistiche, ma che oggi è controproducente. Ed è interessante notare come si sia combattuto il modernismo con il suo stesso metodo: con la introduzione di una “autorità centrale” mediata da leggi universali e astratte. Napoleone è il mito nascosto, e insidioso, della paralisi normativa nella Chiesa cattolica dell’ultimo secolo. E molti canonisti non si accorgono, oggi, di ragionare come “funzionari napoleonici” e non come “ministri della Chiesa”.
Questa, tuttavia, non è solo una questione di “assetto istituzionale”, ma è anch’essa questione di “teologia fondamentale”. Una Chiesa che pensa il rapporto con la verità e con la giustizia in termini di “infallibilità” e di “norme universali e astratte” proietta sulla tradizione un ideale modernistico senza accorgersene e non riesce più a mediare tra dogma e storia. Resta prigioniera degli schemi modernistici che ha assunto inconsapevolmente. E dai quali ci libera la mens di Giovanni XXIII, Paolo VI e Francesco.
La scommessa di Giovanni XXIII e Francesco
La continuità rispetto a Giovanni XXIII e in parte a Paolo VI – e la discontinuità rispetto a Giovanni Paolo II e Benedetto – costituisce, almeno sotto questo profilo, un dato di estrema rilevanza. E ha, come prima conseguenza, un “lavoro sul linguaggio” assolutamente primario. Tanto Giovanni quanto Francesco servivano e servono la tradizione “con altre parole”. Il primo lavoro teologico è oggi una riformulazione, una traduzione della tradizione. Ed è normale che la prima reazione, di fronte ai linguaggi nuovi, sia di stupore e anche di sconcerto. Resistenza e resa si manifestano, come sempre.
Ma da 60 anni abbiamo capito, sempre meglio, che la difesa del Vangelo, quando si identifica come “resistenza al mondo”, perde se stessa e si perverte. La “resa alla misericordia”, che è il sale del Vangelo, non è meno impegnativa. Non è resa al mondo, ma resa a Dio che salva il mondo, che è appassionato per l’uomo, che non si stanca di stargli accanto. E, quando l’uomo sa arrendersi al Dio fatto uomo, la realtà si complica e diventa meravigliosa. Questo accade oggi in campo ecumenico e in campo matrimoniale, in campo ecologico e in campo formativo: la forma della Chiesa sta cambiando, perché il Vangelo possa essere compreso più a fondo.