Clemente Rebora pubblicò la sua prima raccolta poetica, Frammenti lirici, nel 1913. Erano quelli gli anni in cui, anche in Italia, la Prima guerra mondiale andava scaldando i motori della sua macchina di morte.
Un clima bellicista
Nel febbraio del 1909 diversi quotidiani nazionali avevano pubblicato a tutta pagina il Manifesto del Futurismo di Tommaso Marinetti che, senza mezzi termini, glorificava la guerra come «sola igiene del mondo», esaltando il militarismo, il patriottismo, il disprezzo della donna, la violenza travolgente e incendiaria e l’arte intesa come azzeramento distruttivo del passato e della tradizione.
L’8 settembre 1911 Gea della Garisenda – nome d’arte coniato da D’Annunzio per la ravennate Alessandra Drudi, uno dei volti più noti della scena musicale italiana del tempo – per il lancio della canzone A Tripoli si era presentata sul palco del teatro Balbo di Torino senza abiti, avvolta nel solo tricolore, suscitando scandalo ed esaltazione.
La canzone, composta in funzione di chiara propaganda della guerra contro la Turchia per il controllo della Tripolitania, grazie alla sua orecchiabilità, alla voce argentina della cantante, alla facilità della rima tronca, enfaticamente ribattuta dalla chiusa trionfalistica sulla parola cannon, divenne subito, con il titolo Tripoli bel suol d’amore, uno dei cavalli di battaglia del bellicismo ormai predominante, proponendosi come sottofondo sonoro ideale per l’invasione della Libia che avrebbe avuto inizio di lì a venti giorni: il 29 settembre Giolitti, coagulando nella sua decisione spinte nazionalistiche e ambizioni coloniali, in nome della “fatalità storica della guerra” spedì in Libia le truppe italiane, perché iniziassero a scrivere una fra le pagine più sconce della nostra storia patria.
Tripoli,
bel suol d’amore,
ti giunga dolce
questa mia canzon.
Sventoli
il Tricolore
sulle tue torri
al rombo del cannon!
Naviga
o corazzata
benigno è il vento
e dolce la stagion.
Tripoli,
terra incantata,
sarai italiana
al rombo del cannon!
Mentre il rombo del cannone iniziava a farsi sentire a Tripoli, in Italia risultava difficile sfuggire al nazionalismo imperversante.
Giovanni Pascoli, invitato ad intervenire pubblicamente a sostegno dei soldati feriti nella guerra italo-turca, nel novembre successivo tenne, nel teatro di Barga, un discorso intitolato La grande proletaria si è mossa.
Nella sua prolusione il mite poeta delle umili cose si avventurava in una tortuosa giustificazione dell’invasione della Libia, presentandola come guerra difensiva, e tesseva l’elogio dell’esercito nostro che ha l’armi micidiali e il cuore pio, che reca costretto la morte e non vorrebbe portar che la vita.
Neppure D’Annunzio, naturalmente, rinunziò ad offrire il suo contributo alla propaganda militarista e, nel 1912, pubblicò le Canzoni delle gesta d’oltremare, che celebravano la guerra coloniale come esaltante avventura di conquista del Mediterraneo.
È sullo sfondo di questo clima di roboante muscolarità che Clemente Rebora pubblica i suoi Frammenti lirici. Ma la sua poesia è altra cosa.
L’egual vita diversa urge intorno;
Cerco e non trovo e m’avvio
Nell’incessante suo moto.
Tanto Rebora si sente lontano dalle velleità rumoreggianti dei futuristi e dall’esaltazione autocompiaciuta del superomismo dannunziano, tanto avverte una chiara sintonia e un’intima vicinanza con poeti che, pur distanti da lui nel tempo, come lui vedono nella poesia una strada per interrogarsi sul senso della vita: Leopardi e Dante, fra tutti.
Ed è qui, in questi versi che danno voce ai dubbi e alle inquietudini profonde dell’anima, facendosi strumento di ricerca del senso e della direzione, varco che senza sconti conduce alla propria interiorità, è qui il vero atto di nascita della poesia del Novecento.
I Frammenti lirici
Nato a Milano nel 1885 da una famiglia della media borghesia di tradizioni laiche e mazziniane, il piccolo Clemente, battezzato solo per volontà di una anziana zia, cresce generoso e sensibile, senza ricevere alcuna educazione religiosa.
Dopo il liceo e la laurea in lettere si dedica all’insegnamento e inizia alcune collaborazioni con la rivista fiorentina La Voce, fondata da Giuseppe Prezzolini. Con gli intellettuali de La Voce Rebora condivide la ricerca di una parola poetica pura, capace di esprimere il profondo, e l’idea di letteratura come possibilità di testimonianza etica.
È con le edizioni della Voce che nel 1913 pubblica i Frammenti lirici, settantadue componimenti privi di titolo e ordinati secondo la numerazione romana, quasi fossero capitoli di un romanzo che, pur nel paradosso di quella titolazione (“frammenti”), si propone come un insieme coerente e unitario. La raccolta si apre con la dedica “Ai primi dieci anni del secolo ventesimo”; ma il contenuto ideale delle liriche reboriane valica con decisione il confine di questa limitata temporalità, per assumere una dimensione pienamente universale e metastorica.
Nell’undicesima lirica, O carro vuoto sul binario morto, la meditazione sulla vita prende le mosse dall’immagine di un carro merci, allegoria dell’esistenza alienata dell’uomo moderno, incatenato nel gregge, trascinato da un meccanismo rigido e repressivo che impedisce libero corso alle sue chiuse forze inespresse, asservito all’immutabile legge/del continuo aperto cammino, la legge del progresso che soggioga e rende infelici.
Ma l’esistenza destinata ad una ripetitività costipata, costretta, insensata, può trovare una via di salvezza: perché sopra il treno che sferraglia v’è pur sempre il cielo. Il cielo che contro la noia sguinzaglia l’eterno.
Dante è già qui, in questa parola – noia – che, nel lessico della nostra quotidianità, si è appiattita alla dimensione di un generico malessere connotato da passività, mentre in Dante e nella lingua delle origini mantiene un senso molto più forte di dolore esistenziale, di vero e proprio mal de vivre.[1]
Se la civiltà moderna è una macchina mostruosa, che massifica e ci ingabbia, e tiene al guinzaglio la nostra libertà e la nostra sete di eterno, alzare lo sguardo verso il cielo, sopra di noi, può “sguinzagliare” l’eterno, può dare accesso alla libertà di pensare l’infinito, può aprire pertugi verso l’amore.
Appare qui, in filigrana, il senso di una ricerca che è anche ricerca di fede: per il ventottenne Rebora la vita non può ridursi ad un’unica, piatta, dimensione, priva di trascendenza e verticalità.
Dieci poesie per una lucciola
Alla fine del 1913 Clemente conosce Lydia Natus, una fine e colta pianista russa di origini ebraiche, che vive a Milano separata dal marito. Dopo diverse frequentazioni e amicizie femminili, con Lydia è amore. In lei Rebora trova un’anima vicina, con cui poter condividere la sensibilità musicale – il poeta studia il pianoforte, compone –, gli interessi intellettuali, la passione per la montagna.
Ha inizio una intensa relazione sentimentale. La coppia convive, senza essere sposata, in un piccolo appartamento al quinto piano di via Tadino, affacciato sulla frenetica vita cittadina milanese. La scelta della convivenza è fortemente ostacolata dalla famiglia; l’opposizione del padre, in particolare, è motivo di scoramento per il poeta.
Di questo legame così importante restano poche tracce, fili sottili che a fatica si riescono ad intrecciare fra loro per ricostruire la trama di un passaggio esistenziale decisivo per il poeta: alcune lettere, in particolare quelle indirizzate da Lydia alla scrittrice Sibilla Aleramo, cui la coppia era legata in amicizia; e le Dieci poesie per una lucciola.
Lydia è una donna minuta, Alta quanto un’occhiata/Giusto al mio cuore, ed è l’amore immenso che sostengo e mi sostiene. Per lei il poeta scrive appassionati versi d’amore, intensissimi nella loro semplicità:
Dimmi che esisti – non chiedo altro:
Il resto al cuore io lo domando.
Dimmelo sempre che ci sei,
Comunque la tua vita speri.
Ma so, non so, so che tu sola
Puoi dirmi: esisto – e dillo ancora.
Ma Di superbia ubbriaca si avanzava/ la guerra e, a marzo del 1915, Rebora viene richiamato alle armi.[2] Lydia è incinta. La sua è una gravidanza difficile, che i medici sconsigliano di portare avanti, tanti sono i pericoli per la vita della madre e del bambino.
Tra mille rischi, Lydia raggiunge Clemente al fronte, di nascosto, per cercare insieme con lui una decisione: L’assillo maggiore è L. mia che tu conosci, la quale si consuma e spasima come una Madre che sente di non poter salvare il figlio segnato da un destino di luce ancora sepolta, scrive Rebora all’amico Giovanni Boine.
E Lydia a Sibilla Aleramo: Volle che vivessi io. E poi, ancora: È terribile! E c’era quindici giorni fa non più una speranza ma una vera creatura. Sua, nuova di tre mesi – ch’era gioia viva – e che hanno dovuto togliermi per forza… il mio strazio non è esprimibile con parole umane – io non saprei che urlare. Orrore!
Il tormento delle vicende personali si salda sempre più con la tragedia della guerra. A testimonianza dello straziato faccia a faccia con la disumanità della morte in guerra restano diverse lettere e le poesie Voce di vedetta morta e Viatico. In queste liriche l’orrore dell’indicibile tocca vertici di crudezza ed espressività che nessuno fra i cosiddetti War Poets – neppure lo stesso Ungaretti – riuscirà ad eguagliare:
C’è un corpo in poltiglia
Con crespe di faccia, affiorante
Sul lezzo dell’aria sbranata
O ferito laggiù nel valloncello,
Tanto invocasti
Se tre compagni interi
Cadder per te che quasi più non eri,
Tra melma e sangue
Tronco senza gambe.
Alla fine di quel terribile 1915, sul fronte goriziano Rebora subisce un grave trauma cranico, a seguito dello scoppio di un obice a distanza ravvicinata. Le pesanti conseguenze a livello neurologico danno inizio ad una lunga trafila di visite mediche e ricoveri ospedalieri, cui seguirà l’approdo, nel maggio 1917, all’ospedale psichiatrico militare San Lazzaro di Reggio Emilia. Da qui il poeta verrà dimesso definitivamente ad inizio del 1918, con una diagnosi di “mania dell’eterno”.
In tutti quei lunghi, difficili mesi, segnati dallo sfacelo fisico e interiore, Lydia gli è sempre vicina. Di fede ortodossa, la Natus fa voto alla Madonna di lasciare Clemente in cambio della sua salvezza. Alla fine del 1919 Lydia parte per Parigi. Continueranno a scriversi a lungo, anche se saltuariamente.
Nel 1925 Rebora invia a Lydia dieci poesie d’amore che ha deciso di non dare alle stampe e che Lydia custodirà segretamente per molti anni.
Nel 1957 suor Margherita Marchione, americana di origine italiana, allieva di Prezzolini, che sta approntando la propria tesi di dottorato su Rebora, per circa tre mesi frequenta quasi quotidianamente l’anziano poeta, infermo e allettato. Venuta a conoscenza dell’esistenza di queste poesie dedicate a Lydia, dopo la morte di Rebora prende contatto con la Natus e, nel 1959, pubblica sulla “Fiera Letteraria” le Dieci poesie per una lucciola.
Lydia. Lidusa. Lucciola. Piccola goccia di vera luce che, nel pozzo profondo impastato di umana miseria, si fa nutrimento di vita e di conoscenza. E, anche qui, è ancora l’eco di Dante che risuona:
Il pozzo e la lucciola
Per risalire alla fonte, il pozzo discende;
di quanto è caduto, altrettanto è profondo.
Il suo occhio là dentro, è diamante in un cerchio
di acciaio; verso la cruna del cielo par che veda,
a guardarlo, su dal centro del mondo: però
chi si specchia, ravvisa se stesso, più in fondo.
La sua vena segreta lo eleva; e quando,
raccolto e notturno, da stella o da luna
gli gocciola sopra una lucciola,
svela con candore la gemma del suo cuore.
Traduzioni
Vivere con Lydia permette a Rebora non solo di imparare il russo, ma di arrivare a padroneggiarlo con tanta proprietà ed eleganza da poter dare alle stampe la traduzione dei racconti di Andreev Lazzaro e altre novelle, di un romanzo giovanile di Tolstoj, La felicità domestica, e del racconto di Gogol’ Il cappotto.
La scelta delle opere da tradurre non è casuale. È lo stesso Rebora a sottolineare come il lavoro di traduzione risponda ad un suo preciso sentire, come si leghi ad un bisogno spirituale, al desiderio di stabilire un colloquio profondo con l’autore tradotto e ad affinità e simpatia con l’opera in traduzione.[3]
Tra il 1916 e 1918, negli anni che lo vedono affrontare una crisi esistenziale che rasenta la follia, Rebora si dedica alla traduzione del Lazzaro di Andreev, che dedica A Lidusa, mia iniziatrice. Lazzaro, «colui che aveva conosciuto la morte ed era tornato fra gli uomini con un intollerabile fardello di disperazione»,[4] è figura dell’uomo che, precipitato nella melma e nel fango della morte, può intraprendere un cammino di risalita dalla zona oscura del nulla fino alla luce.
La traduzione del romanzo di Tolstoj La felicità domestica, dedicata A Lidusa, lucciola della luce, viene pubblicata nel 1920. Nell’Avvertenza del traduttore posta in premessa, il poeta scrive: «Quest’immagine dell’amore che si cerca – e vien rimandata dallo specchio della vita – ha riverberi d’esperienza attuale, e balena insieme di anticipazioni perenni. I sentimenti, i luoghi, le persone – tutto fu verità dello scrittore ed è realtà per noi».[5]
Che il lavoro di traduzione rappresenti, per lui, un’operazione ermeneutica, sostanziata di ricerca di senso, viene ribadito nelle Annotazioni che chiudono la traduzione del Cappotto di Gogol. Facendo riferimento alla famosissima frase di Dostoevskij «Noi siamo tutti usciti dal cappotto di Gogol», Rebora sottolinea come la letteratura russa abbia mirato a rivelar noi a noi stessi, con implacabile lena, per farci davvero redenti, ossia liberi di essere liberi.[6]
Libero di essere libero
Nel 1922 Rebora pubblica la sua seconda raccolta poetica, Canti anonimi. Anche qui la titolazione si rivela emblematica: se il sostantivo Canti rimanda inevitabilmente a Leopardi, l’aggettivo anonimi evidenzia la volontà di superamento di uno sguardo esclusivamente concentrato sull’io e sulla propria nominata identità. Scrive il poeta nella nota introduttiva: «Queste liriche appartengono a una condizione di spirito che imprigionava nell’individuo quella speranza la quale sta ormai liberandosi in una certezza di bontà operosa, verso un’azione di fede nel mondo. Esse ne sono testimonio e pegno di assoluzione».
La raccolta è scarna. Sono solo nove componimenti, su cui spicca, per forza profetica, l’ultimo, dal titolo Dall’immagine tesa.
Dall’immagine tesa
vigilo l’istante
con imminenza di attesa –
e non aspetto nessuno:
nell’ombra accesa
spio il campanello
che impercettibile spande
un polline di suono –
e non aspetto nessuno:
fra quattro mura
stupefatte di spazio
più che un deserto
non aspetto nessuno.
Ma deve venire,
verrà, se resisto
a sbocciare non visto,
verrà d’improvviso,
quando meno l’avverto.
Verrà quasi perdono
di quanto fa morire,
verrà a farmi certo
del suo e mio tesoro,
verrà come ristoro
delle mie e sue pene,
verrà, forse già viene
il suo bisbiglio.
La parabola esistenziale reboriana sembra vivere e rivivere in prima persona il cammino della Commedia dantesca. Dopo i gironi infernali della guerra e la separazione da Lydia, un purgatorio d’attesa. L’attesa di qualcosa, l’attesa di qualcuno. Non aspetto nessuno. Non aspetto nessuno. Ma deve venire, verrà, se resisto a sbocciare non visto. Verrà, forse già viene, il suo bisbiglio.
Anni Venti del Novecento. Sono gli anni del fascismo imperversante. Rebora sceglie di non seguire la carriera dell’insegnamento istituzionale e, per tenersi libero rispetto ad obblighi di programmazione, preferisce dedicarsi all’attività di conferenziere. E sono conferenze spesso legate a tematiche spirituali, religiose.
Nel 1925 Tagore è a Milano; Rebora lo incontra, medita di trasferirsi in India. Studia il pensiero e l’insegnamento di Gandhi. Gli viene richiesto di tenere un ciclo di conferenze sulla storia delle religioni al Lyceum di Milano.
L’anelito religioso di matrice mazziniana, così fortemente radicato nella sua impostazione famigliare, accarezzato dalla presenza di Lydia, lucciola di luce, sostanziato di orientalismo e di letture dantesche, è ormai pronto ad incontrare la fede.
Come per l’altro grande convertito milanese, Alessandro Manzoni, anche nella biografia di Rebora la conversione, maturata nei tempi lunghi di una ricerca inquieta, passa attraverso un singolare accadimento, carico di forza significativa.
Siamo al 1928; Rebora sta tenendo, davanti ad un folto pubblico, una conferenza sugli Atti dei martiri scillitani. Ma, nel momento in cui deve leggere e commentare la professione di fede in Cristo dei martiri, la commozione gli chiude la gola, gli impedisce di parlare. È il silenzio. Come scriverà di lì a molti anni in Curriculum vitae, il suo testamento poetico, la Parola zittì chiacchiere mie.
Inizia così un nuovo cammino. Dopo aver consegnato ad uno straccivendolo per poco prezzo tutti i suoi libri e le sue carte, Clemente si ritrova con l’anima “posta nell’eterno”. Ed è pronto.
Riamato l’Amor, l’Amor vuol tutto.
E venne il giorno, che in divin furore
la verità di Cristo mi costrinse
a giustiziar e libri e scritti e carte:
oh sì che quello fu un gran bel stracciare!
Nel novembre del 1929 riceve dal card. Schuster la prima Comunione e la Cresima. Nel 1930, a quarantacinque anni, entra come novizio nel collegio rosminiano del Sacro Monte Calvario di Domodossola. È il silenzio, la meditazione, il servizio, l’oscurità. Con la professione religiosa del giugno 1936, emette un quarto voto: «Mio Signore e Mio Dio, faccio voto di chiederti in ogni tempo la grazia di patire e morire oscuramente, scomparendo polverizzato nell’opera del tuo amore. Così sia».
Il poeta Clemente Rebora scompare. Rimane padre Clemente, un sacerdote che compone solo piccoli testi poetici liturgici, legati a festività religiose, per obbedienza ai superiori. Ma la poesia è in lui come un fiume carsico, e quando nel 1952 viene colpito da un primo malore cerebrale, ecco che comincia a riaffluire. Ed è proprio quando la malattia torna a colpirlo in modo così grave da costringerlo all’infermità totale che nascono le sublimi poesie di Curriculum vitae e dei Canti dell’infermità.
Scrive Patrizia Valduga: «A settant’anni, paralizzato, dal suo letto d’infermità detta una poesia bella fino allo strazio. Leggerla è come essere a messa con lui, a una messa celebrata da lui, è come stare alla luce della sua grande anima: tutto è luce, luce e purezza, e anche le miserie del corpo sono luce e purezza. Eccolo fluire verso la sua foce terribilmente impetuoso e puro, e “paurosamente solo”: “Il sangue ferve per Gesù che affuoca/Bruciami! Dico: e la parola è vuota./Salvami tutto crocefisso (grido)/ insanguinato di Te! Ma chiodo al muro,/in fisiche miserie io son confitto”».[7]
Clemente Rebora muore a Stresa il 1° novembre 1957, solennità di Tutti i Santi.
Sete d’eterno
Accostarsi alla poesia di Clemente Rebora significa incontrare un’esperienza poetica e umana che della ricerca di senso ha fatto la sua cifra esistenziale. Come per Dante, anche in Rebora la sete dell’eterno si muove sul terreno della poesia.
La poesia è lucido verso, capace di far risuonare e riflettere la luce che raccoglie in sé la luminosità della vita. Ma è anche livido verso, impregnato di fango e veleno. È verso inviolabile, – mistero mai del tutto conoscibile, mai interamente svelabile, gesto creativo che riesce a dare forma, e cioè senso e significato, anche a ciò che nella vita sembra svanire nel varco/Indefinito e deserto/ Del sogno disperso.
La poesia è impastata di mondo, è fatta di sterco e di fiori, di morte e di vita. È presenza di Dio.
Sul troppo rumore delle voci e dei gesti, la poesia si leva a tacere: il suo cuore è nella tensione verso l’assoluto, di cui il silenzio è promessa e figura.[8]
[1] Nel canto I dell’Inferno, a Dante, smarrito nella selva oscura e incerto sulla via da intraprendere per raggiungere il dilettoso monte/ch’è principio e cagion di tutta gioia, Virgilio chiede Ma tu perché ritorni a tanta noia?, con chiara allusione alla selva, cioè alla condizione di traviamento e peccato.
[2] Roberto Cicala, Valerio Rossi, Lazzaro in guerra. Esperienza e trasfigurazione della trincea in Clemente Rebora (con frammenti inediti) in https://revistas.ucm.es/index.php/CFIT/article/download/50955/47292
[3] Anna Bonola, Tradurre per comprendere: colpa, pentimento e rinascita in Semejnoe sčast’e di Lev Tolstoj e nella traduzione italiana di Clemente Rebora in https://www.ledonline.it/linguae/allegati/linguae1302Bonola.pdf
[4] Nikolaj Gogol’, Il cappotto, a cura di Clemente Rebora, con una nota di Paolo Giovanetti, Feltrinelli 1992 (nota di Paolo Giovanetti pag. 92)
[5] Lev Nikolaevič Tolstoj, La felicità domestica, traduzione e note di Clemente Rebora, Fazi Editore 2018
[6] Nikolaj Gogol’, Il cappotto, a cura di Clemente Rebora, con una nota di Paolo Giovanetti, Feltrinelli 1992
[7] Patrizia Valduga, Qual è la vera poesia? Leggi Rebora e capirai, Vita e Pensiero, marzo-aprile 2017
[8] Da Frammenti lirici, XLIX: O poesia, nel lucido verso in Clemente Rebora, Le poesie, Garzanti 1994
Il saggio fa luce su una figura poetica tra le più ricche e , purtroppo, insufficientemente frequentate del Novecento. E offre al tempo stesso l’opportunità di percorrere il cammino umano e spirituale di un uomo alla ricerca di senso. La poesia, non immune dal dare voce alla vuota propaganda, si spoglia in Rebora di ogni artificio retorico per farsi espressione di verità. Complimenti e grazie all’autrice del saggio per averci offerto l’opportunità di riscoprire Rebora