Queste righe sono una mia personalissima reazione alla visione della serie TV Netflix Strappare lungo i bordi di Zerocalcare, che ho visto tutta d’un fiato. Non sono un commento: non pretendo che alcune delle cose che scrivo siano realmente nelle intenzioni dell’autore o nella struttura dell’opera.
Quella di Zerocalcare è un’opera romana. Con questo intendo dire che parla di un contesto urbano plurale e differente, che è anche la matrice della mia vita. Qui non voglio neanche sfiorare le inutili e sterili polemiche di chi per non pensare alla graffiante verità dell’opera si attacca alla lingua o alla dizione… quando il dito indica la luna, qualcuno guarda i fonemi e le finali delle parole.
Un avvertimento: ho visto tutta la serie e ne parlo. Se non l’hai vista, qui «ti faccio uno spoiler alla fine si muore». Se non vuoi spoiler non andare oltre.
La serie TV
Tutta la serie si gioca in un racconto che descrive la condizione dei cosiddetti NEET. Questa sigla che sta per Not in Education, Employment or Training è di fatto un indicatore socio economico utilizzato per individuare quella parte di popolazione giovane (tra i 15 e i 37 anni) che non è né occupata né inserita in un percorso di istruzione o di formazione. Nel 2010, in Italia, oltre 2 milioni di giovani erano NEET (la percentuale più elevata in Europa).
L’ultima crisi economica ha colpito duramente i giovani adulti italiani rendendo più difficile il loro passaggio al lavoro e condannandoli ad essere NEET. Una serie di studi specifici sul nostro paese mostrano come lo status occupazionale e i modi di vivere il tempo quotidiano e la soddisfazione della vita e della salute dei giovani siano associati. La percezione e la soddisfazione della salute dei giovani adulti NEET è caratterizzata da inattività, malessere, insoddisfazione e dimensione incerta del futuro.
Strappare lungo i bordi fa percepire e vivere la condizione di crisi in cui abbiamo relegato una generazione. Terminato il percorso di istruzione, superiore o fin anche ultra specialistico con il dottorato come per Alice, si apre un presente senza tempo. Un tempo-non tempo in cui la definizione di sé, compresa la professionalizzazione (e qui non è secondario ricordare che in tedesco, per esempio, professione e vocazione hanno la stessa radice con Beruf e Berufung, cioè quello che sono è detto e incarnato da quello che faccio) non definisce quali figure, o meglio quali siluette, siano emerse da quel foglio di carta bianco, cioè da quelle possibilità generali che caratterizzano la fanciullezza e si trasformano una volta entrati nell’età adulta.
E allora noi andavamo lenti
perché pensavamo che la vita funzionasse così,
che bastava strappare lungo i bordi, piano piano,
seguire la linea tratteggiata di ciò a cui eravamo destinati
e tutto avrebbe preso la forma che doveva avere.
Perché c’avevamo diciassette anni e tutto il tempo del mondo. (Zerocalcare)
Il grido di una generazione
Strappare lungo i bordi è un profondo lamento di una generazione di giovani condannata a non essere adulti e a non definirsi. Certo non solo per colpa di coloro che adulti sono già ma anche per le paure e le ossessioni che caratterizzano la cosiddetta generazione Y, cioè in nati tra gli inizi degli anni Ottanta e la fine degli anni Novanta.
Secondo numerosi studi sociologici le caratteristiche di questa generazione e coloro che fanno parte di questa generazione sono difficili da gestire, pensano che gli sia tutto dovuto, hanno tratti narcisisti ed egoisti e sono dispersivi e pigri. Ragazze e ragazzi che spesso si trovano nella condizione di avere tutto ciò che vorrebbero avere, ma ad essere ugualmente infelici e questo perché vi sono quattro fattori che hanno influenzato la crescita di coloro che fanno parte di questa generazione e che hanno avuto delle conseguenze ben precise. Il primo fattore sono le strategie fallimentari di educazione familiare che sono state caratterizzate dal fatto che, essendo figli di un benessere economico diffuso, sono cresciuti sentendosi dire che erano speciali e che «potevano avere tutto ciò che volevano dalla vita, solo perché lo volevano». Questo ha avuto l’effetto di non averli preparati alla vita reale. Le scene con la maestra che produce frustrazione a Zero per l’idea di averne deluso le aspettative non essendo veramente speciale come gli dicevano tutti è forse una incarnazione magistrale di tutto questo.
Per questo Strappare lungo i bordi sembra il lamento di una generazione che non ha ancora deciso chi essere, che ha pensato di poter non scegliere e che il tempo per definirsi poteva essere rimandato all’infinito, salvo poi accorgersi che, come canta Tiromancino, il tempo è volato ed è stato abitato da un nulla indefinito: la scena dell’ex studentessa di ripetizioni che ha una vita e lavora, cioè non è una NEET, manda in crisi uno Zerocalcare che si scopre, suo malgrado ancora NEET.
Invece sotto l’occhi c’abbiamo solo ‘ste cartacce senza senso,
che so’ proprio distanti dalla forma che avevamo pensato.
Io non lo so se questa è ancora ‘na battaglia oppure se ormai è annata così,
che avemo scoperto che se campa pure co’ ste forme frastagliate,
accettando che non ce faranno mai a giocà nella squadra di quelli ordinati e pacificati.
Però se potemo comunque strigne intorno al fuoco
e ricordasse che tutti i pezzi de carta so’ boni per scaldasse.
E certe volte quel fuoco te basta, e altre volte no. (Zerocalcare)
Di fatto quello che emerge è il grido di chi non riesce a fare quanto Marco Paolini intima ai giovani in Aprile ’74 E 5 Rugby:
io sto parlando di giovinezza, sto parlando di adolescenti, di ragazzi che avevano fretta di diventare adulti.
Adulto è il participio passato del verbo adolescere, colui che ha finito di crescere. Io oggi conosco più adulteri che adulti, adulteri a sé stessi ovviamente.
Quella che stasera vi racconterò è la storia di un gruppo di ragazzi che avevano fretta di entrare in un mondo adulto che è diventato vecchio senza essere adulto. Il mio, il nostro paese, oggi è questo. È il più vecchio del pianeta e lo guardiamo senza nemmeno accorgerci di quello che abbiamo sotto gli occhi. Abbiamo sì sotto gli occhi il cambiamento del paesaggio, ma addosso a noi non lo leggiamo, perché? Perché noi non possiamo sentirci vecchi.
Secondo gli italiani si diventa vecchi a ottantatré anni. Siccome l’attesa di vita è ottantuno, secondo gli italiani si diventa vecchi dopo morti!
Io vorrei chiedere ai miei coetanei per primi, di fare outing: dichiaratevi adulti. Rinunciate a quell’idea di giovinezza che ci viene venduta quotidianamente, perché c’è una confusione genetica mostruosa.
Adulto è colui che si è giocato delle possibilità e deve vivere con quello che ha: il resto si è seccato. Quello che sei in potenza da giovane, non ce l’hai dopo. Se non capisci questo, se impedisci a chi viene dopo di sorpassarti perché tu, cullato dal sogno di questa eterna giovinezza, rubi costantemente tutto ciò che viene prodotto da chi viene dopo di te, indossandolo in vario modo attorno a te, tu stai creando un blocco mostruoso, che ci impedisce di leggere la realtà.
Dichiaratevi adulti, prendetevi delle responsabilità.
Se non è subito è impossibile
Tanto se una cosa deve succede, succede.
Tutta ‘sta fretta di fa succede le cose ce l’ha messa il capitalismo. (Armadillo)
C’è una canzone dei Pink Floyd, Mother, in cui emerge come la madre di cui si canta nel testo ha troppa ansia per permettere l’autonomia al figlio; quando lui chiede rassicurazioni, lei ne fornisce ma al contempo lo priva della libertà di scegliere. Per il bambino/adolescente non c’è scelta se non la ribellione. Tutto l’album “The Wall” parla della ribellione alla madre e alla società.
Ecco le parole del brano dei Pink Floyd:
Silenzio, ora piccolino, non piangere. Mamma farà avverare ogni tuo incubo. Mamma ti inculcherà ogni suo timore. Mamma ti terrà al sicuro sotto la sua ala Certo non ti farà volare, ma forse ti farà cantare, Mamma terrà il suo bambino al caldo e coccolato. Ooooh piccolino ooooh bimbo mio oooooh, Non ti preoccupare ti aiuterà mamma a costruire il muro.
Questo conflitto risolto con le figure parentali, via per una vita d’equilibrio manca a Zero. La mamma, da soddisfare (il padre non compare mai) o da rendere fiera o da non deludere mai è però la soluzione e l’ancora di salvezza che recupera e aggiusta i fallimenti del figlio: la scena della macchina e del crick è magistrale.
In questo giocano un ruolo fondamentale la tecnologia e i suoi effetti. Figli della diffusione del digitale che crea forte dipendenza perché permette al nostro corpo di rilasciare dopamina, la stessa che si crea fumando, bevendo o scommettendo. La tecnologia, però, può essere utilizzata da tutti, soprattutto dagli adolescenti.
Questo comporta che, in un periodo di alto stress come quello dell’adolescenza, i giovani si rivolgano alla tecnologia per far sì che il loro corpo produca dopamina e questo li rende dipendenti, tanto che nel corso della loro vita continueranno a rivolgersi alla tecnologia nei momenti di stress. Tutto ciò si ripercuote sulle loro capacità relazionali, rendendoli incapaci di creare dei veri e propri rapporti con le persone, ma solo relazioni superficiali e su cui non fanno affidamento.
E semo pure stupidi.
Perché se impuntamo a fa’ il confronto co’ le vite degli altri.
Che a noi ce sembrano tutte perfettamente ritagliate, impalate, ordinate.
E magari so’ così perfette solo perché noi le vediamo da lontano. (Zerocalcare)
Tutto è segnato da un senso di impazienza dovuto al fatto di crescere in un mondo di gratificazioni istantanee, senza dover mai attendere nulla, ma ottenendo tutto ciò che vogliono con un solo click. Questo crea in loro un grande senso di frustrazione nel momento in cui devono ottenere dei risultati che necessitano di pazienza, come molte delle cose importanti della vita (ad esempio, l’amore o le gratificazioni lavorative).
Sono questi i fattori che determinano la loro insoddisfazione: non è una loro colpa, ma dell’epoca in cui sono cresciuti e in cui vivono che li fa convivere continuamente con un senso di frustrazione ed infelicità.
Senza eccessiva disperazione né autocommiserazione Zerocalcare, in Strappare lungo i bordi, riesce a dire e rappresentare tutto ciò che migliaia di persone vivono oggi e hanno vissuto in passato. Tra decine di curricula mandati al giorno, l’iconico MSN, i possibili scenari di fronte a una scelta che sembra sempre la più importante della propria vita, sia quando lo è che quando è tutt’altro, Zerocalcare condivide esperienze vissute da bambino, da adolescente e da quasi 30enne.
Il viaggio: il tempo e la morte
Parlare della morte al tempo della pandemia è difficile. Parlare della morte quando si è nel pieno della vita è ancora più difficile. Lo è sempre. Ma lo è ancor più quando si è giovani, in piena adolescenza, dove si guarda più al futuro che al passato. A ciò che non è ancora piuttosto che a ciò che è già stato. A ciò che potrebbe essere e non tanto a ciò che invece potrebbe anche non essere. All’interno della trasformazione del crescere l’incontro con il senso della morte è cruciale.
È una cosa che fa paura, ma è anche una cosa bella.
È la vita. (Zerocalcare)
Il viaggio che compare negli ultimi tre episodi della serie è il tema profondo di questa crescita nel tempo vuoto segnato tra la fine degli anni Novanta e il primo decennio del Duemila.
Alice è morta, si è suicidata. Il problema è però non solo la perdita ma drammaticamente perché vivere. Questa domanda, una domanda di scopo, tocca al cuore ogni spettatore. Il problema non è Zero, non il Secco né Sara. Il problema è la vita di ciascuno di noi. Se Alice è il lutto per una decisione di non vivere, noi abbiamo il problema di vivere senza una decisione e questo è un po’ morire è un lutto per i nostri desideri e le nostre passioni.
La metamorfosi profonda del crescere, considerando il cambiamento fisico, psicologico, sociale e relazionale determinato dall’inizio della pubertà, porta ognuno a conoscere sensazioni ed emozioni che hanno caratteristiche di lutto, e più precisamente lutto di sé, intendendo tutte le esperienze cognitive ed emotive che la perdita comporta.
Forse noi spettatori potremmo aver narcotizzato il nostro lutto (Narciso ha in sé la radice di narcosi per imitare un discorso con l’Armadillo fatto a Biella) ma Zero non ci consente di dimenticarlo. Io penso che alcune critiche che si leggono in giro sono in fondo in fondo una reazione a questa scomoda verità che qui emerge: nelle nostre quiete, calme vite di provincia che narcotizzano i desideri repressi, Zero porta fino alla radice il grido di precarietà, solitudine, insicurezza e inadeguatezza.
A questo livello non si hanno che due possibilità opposte e radicali: o rifiutare tutto o lasciarsi accompagnare alla scoperta del significato della morte. Questo permette di evitare le rimozioni individuali e collettive, che è uno degli aspetti più tragici della vita contemporanea, e permette una ricaduta positiva rispetto alla relazione con se stessi e con la propria dimensione sociale.
Sei cintura nera de come se schiva la vita (Armadillo)
Essere narcotizzati è di fatto essere convinti che l’amore fa male e che bisogna sempre fuggire dalla vita con classe. Per non soffrire, per non portare su di sé il peso della vita allora bisogna solo pensare di essere fili d’erba. Ma questo non ci basta.
Ma non ti rendi conto di quant’è bello?
Che non ti porti il peso del mondo sulle spalle,
che sei soltanto un filo d’erba in un prato?
Non ti senti più leggero? (Sara)Le persone so complesse: hanno lati che non conosci,
hanno comportamenti mossi da ragioni intime e insondabili dall’esterno.
Noi vediamo solo un pezzetto piccolissimo di quello che c’hanno dentro e fuori.
E da soli non spostiamo quasi niente.
Siamo fili d’erba, ti ricordi? (Sara)
La fede: un orizzonte non esplicito
Nel finale, nel discorso con Pietro, compare anche il tema dell’Oltre e della fede. «Dio è morto, Marx pure, e anche io non mi sento molto bene», diceva Eugene Ionesco a metà del secolo scorso. Cinquant’anni dopo, se Dio non è morto è probabile che non se la passi benissimo.
Per me non è importante che tu ci sia sempre,
ma devo sapere che quando tu sei con me,
ci sei davvero, lo capisci? (Alice)
Insomma, Zero non ci dà anche qui risposte, ma pone la domanda. Si apre la porta, ma non la si varca. La morte e il lutto aprono il tema dell’Oltre, ma non garantiscono che la si attraversi.
La delicatezza di Zero sul tema a me è piaciuta molto: non si offrono soluzioni telefonate per un incontro che deve essere personale e profondo. A me basta la porta aperta.
Cinico?
Mi viene in mente un vecchio libro di Enzo Biagi. Il titolo, Cara Italia, prometteva un Grand Tour tra alcune eccellenze geografiche del nostro Paese. E non poteva non finirci Roma. Al capitolo XII (l’ultimo): «Una umanissima “caput mundi”». Che così principiava: «“O Roma o Orte” diceva Mino Maccari, che odiava la retorica. Quanta enfasi, e quante rotture di tasca, in nome delle glorie passate».
Ancora Biagi: «Non è vero che i romani sono cinici, ma ne hanno viste tante e si difendono dall’autorità: quella ecclesiastica, quella politica». I romani sono dotati di uno humour perfido e scanzonato: riescono a trovare una chiave ironica per banalizzare ogni situazione di presunta emergenza.
Insomma, per concludere, Strappare lungo i bordi non è affatto cinico: è romano. E come ogni abitante della capitale che deve sopravvivere al traffico, alla politica, a una amministrazione che rende forse la vita peggiore il cinismo e l’ironia forzata è l’unica arma per non soccombere.
- Ripreso dal blog dell’autore, https://www.paolobenanti.com/post/