Alcune domande rivoltemi da Antonello Siracusa mi sono sembrate molto pertinenti e acute. Le abbiamo scritte, insieme ad alcune risposte. Per cercare di capire le questioni delicate che riguardano il sacramento del matrimonio e la pastorale che vuole accompagnare coloro che entrano in questa forma di «vita in Cristo». Antonello Siracusa è laureato in filosofia e scienze religiose, è insegnante e si occupa di pastorale familiare nella diocesi di Como.
AS: Caro professore, sto seguendo con attenzione il dibattito sul recente documento «Itinerari catecumenali per la vita matrimoniale» del Dicastero per i laici, la famiglia e la vita. Come puoi immaginare, per chi collabora alla pastorale delle famiglie il tema della preparazione al matrimonio tocca un punto sensibile: da anni si cercano e si sperimentano strade nuove e ci si interroga su alcune scelte di fondo.
Il tuo articolo «Matrimonio primo e ultimo dei sacramenti: una questione antica in 10 punti» (che si può leggere qui) mette bene in luce come sia essenziale fondare l’accompagnamento al matrimonio sull’esperienza reale delle persone, sulla storia della coppia, anche per quello che riguarda la sessualità. Quello che ti chiederei di approfondire è il ruolo che in questo sacramento (e nella sua preparazione) rivestono la fede e la ministerialità ecclesiale.
Nel tuo articolo, criticando l’uso dell’aggettivo «catecumenali», sottolinei la «differenza del matrimonio rispetto al catecumenato dell’iniziazione cristiana e alla formazione in vista dell’ordinazione». Proprio su questi due aspetti mi sembra che ci siano delle questioni da chiarire.
Nel sacramento del matrimonio, che ruolo ha la fede? Celebrare questo sacramento non comporta forse per gli sposi il desiderio di vivere la loro storia d’amore alla luce del Vangelo, per incontrare Gesù Cristo e camminare con lui? Eppure, accade molte volte che le persone che chiedono di «sposarsi in chiesa» non manifestino questo desiderio, questa consapevolezza, questa fede. Tante volte sono adulti la cui esperienza di fede si è fermata al catechismo. L’esperienza sembra dire che, purtroppo, l’iniziazione cristiana dei bambini… non è sufficiente a generare adulti credenti. Per questo, credo, si fa riferimento, pur impropriamente, al catecumenato: sembra che occorra una nuova iniziazione alla vita cristiana. Come si può compiere un itinerario di fede verso il matrimonio? Con quali obiettivi? Con quali differenze rispetto all’iniziazione cristiana?
AG: «I cristiani si sposano come tutti gli altri»: questa espressione della Lettera a Diogneto ci aiuta ad uscire dalla prima delle difficoltà. Ossia dalla attuale “sovraesposizione” della fede nella comprensione del matrimonio. Questo non è affatto tradizionale. Perché, semmai, il matrimonio riposa su evidenze naturali e civili, che poi la fede rielabora. Pensare di “fondare” sul piano della fede tutto l’impianto della vita matrimoniale mi pare una prospettiva intemperante e forse anche un po’ fondamentalista. Il cammino verso il matrimonio è “anche” un cammino di fede, ma non soltanto un cammino di fede. È un cammino antropologico, relazionale, sessuale, sociale, economico. Dentro questa trama la fede ha una sua decisiva rilevanza, ma non nella forma di una sostituzione.
Coloro che oggi «chiedono il matrimonio sacramentale» sono stati educati dalla Chiesa ad esibire non la fede, ma il battesimo. Così, in un certo senso, chi di burocrazia colpisce, di burocrazia perisce. Non è il mondo oggi a pretendere dalla Chiesa una cosa strana, ma è la Chiesa ad aver impostato così, da circa 500 anni, e soprattutto dalla fine dell’Ottocento, il rapporto con il matrimonio. Il boomerang sta tornando in testa a chi lo ha lanciato. Se prima costruisci il teorema (piuttosto traballante, ma netto) dell’identità tra «battezzati che stipulano contratto di matrimonio» e «sacramento del matrimonio», una volta attestato il battesimo e il contratto, non si scappa dalla logica sacramentale.
Una crisi del sacramento non può essere risolta semplicemente trasformando il matrimonio in battesimo. Questa mi pare una via poco praticabile, come sa bene lo stesso testo degli Itinerari catecumenali, che al n. 16 dice che tutto ciò che in essi viene previsto sarà necessariamente «scavalcato» da altri percorsi (ossia dall’assenza di percorsi).
Io credo che l’unica via sia quella di un “incontro” tra la Chiesa che è salvezza per il mondo e il mondo che è salute per la Chiesa, come diceva M.D. Chenu. Se vogliamo solo fare documenti paternalistici sul matrimonio e non accettiamo di imparare dalle forme nuove di vita comune, dove sta la forza vitale del presente e del futuro, finiamo per costruire macchine complicate che nessuno userà.
AS: La conclusione che traggo io da quanto scrivi è che l’investimento debba essere ribaltato molto di più sull’iniziazione cristiana e la «formazione permanente» del battezzato. Ma ho seri dubbi che il modello «Battesimo dei neonati» possa portare a questo: in un certo senso, mentre tu critichi che si pensi di trattare il matrimonio come il battesimo, di fatto al momento il battesimo viene trattato come il matrimonio: il fatto naturale di essere nati viene automaticamente elevato a «diventare cristiani», senza nessuna considerazione per la fede. Poi ci si affanna a posteriori a generare una fede che corrisponda a quanto si è celebrato.
AG: Hai ragione, ma credo che questo sia un fenomeno che «copre» l’intero settenario sacramentale. Noi applichiamo a tutti i sacramenti quello che abbiamo elaborato per giustificare il «pedobattesimo». E quindi un assoluto primato della grazia che dispensa dalla fede. Questo funziona bene sul piano giuridico, ma è pastoralmente un disastro. Riempie la Chiesa di clienti, non di discepoli. E spesso a questo si reagisce con il movimento opposto, ma altrettanto deleterio, ossia creando una Chiesa settaria, dove il discepolato bisogna meritarselo con una dura selezione. Non pochi movimenti mettono in atto questa risposta. Il matrimonio diventa «catecumenale» dentro questa seconda possibilità, che, in nome di un giusto richiamo alla fede, perde facilmente il lato realistico della vita dei soggetti.
AS: Io rimango perplesso sul fatto che il matrimonio possa essere un sacramento senza mettere al centro la fede (perplesso non rispetto alla legittimità «canonica», ma rispetto alla mia libera riflessione): non lo dico in un’ottica di giudizio di valore, considero altrettanto di valore i matrimoni civili, senza nessuna esclusione di principio neanche verso le convivenze… è la qualità effettiva della storia d’amore che conta, che non coincide automaticamente con la forma; ma, se la fede non è centrale, verrebbe da pensare come più adeguata la benedizione dell’unione, in qualsiasi forma sia. Se deve essere un sacramento deve esserlo in rapporto a Cristo: naturalmente non nella logica di un privilegio di status ma in quella del servizio verso tutti… direi nella logica dell’essere segno di conversione evangelica e non semplicemente dell’essere segno della bellezza generata dal Creatore.
AG: Proprio qui sta il punto delicato. Questo «sposarsi in Cristo» è decisivo, ma prende figura non semplicemente perché gli sposati fanno le stesse cose dei seminaristi o delle religiose. Qui, a me pare, la differenza di esperienza diventa una variabile irrilevante, mentre è decisiva. Il rapporto con la Parola, con la preghiera e con il sacramento è qualificante, ma in forma specifica. Per dare «figura cristiana» al matrimonio non si può subordinarlo a «condizioni catecumenali». Perché questo «ripugna» alla logica naturale e civile del sacramento e lo clericalizza.
La fede, la coscienza della comunione con il Signore, deve emergere dagli «atti propri dei coniugi». Su questo, mi pare, siamo ancora fermi. Invece, infoltire l’agenda dei «nubendi» nei due anni prima del matrimonio mi pare, francamente, una via troppo clericale e perciò facilmente aggirabile. Avverrebbe come con la penitenza canonica. Tu puoi mettere anche 10 anni di penitenza come condizione per ottenere la valida assoluzione, ma otterrai solo che le persone si confesseranno in punto di morte. Forse più corretta è la previsione del «rito del matrimonio» italiano, che constata la differenza di iniziazione tra le coppie e la integra nel rito, differenziando le forme.
AS: Soprattutto da «Familiaris consortio» in poi si è sviluppata nella pastorale familiare l’idea della «complementarietà di ordine e matrimonio nell’edificazione della Chiesa». L’intenzione apprezzabile è quella di presentare un’idea di Chiesa che non sia fondata solo sui ministri ordinati (ma si parla spesso di «sacerdoti», intendendo vescovi e presbiteri, perché forse il tema del diaconato si adatta meno a questa idea di complementarietà). C’è però il rischio di immaginare un duplice clericalismo, fatto di preti e sposi, come se non si potesse «edificare la Chiesa» attraverso altre strade e scelte di vita. Ti sembra che il documento del Dicastero sia condizionato da questo parallelismo preti/sposi? In che cosa si evidenzia? Come evitare che, come scrivi, la formazione degli sposi assomigli a un «seminario»? E anche in questo caso, non pensi che la questione di fondo sia la mancanza di un’autentica formazione che renda protagonisti tutti i battezzati (formazione che poi si cerca di recuperare per gli sposi in occasione del matrimonio?)
AG: Questa mi pare una lettura che, pur recependo elementi di obiettiva novità, li traduce in un registro ambiguo e pericoloso. Da un lato, infatti, viene recepita, sebbene a fatica, l’idea che le coppie di sposi e le famiglie non siano semplicemente «destinatarie» di una pastorale, ma «soggetti» di essa. Questo è il frutto della personalizzazione che il mondo moderno ha imposto alla cultura, anche a quella matrimoniale e familiare.
La Chiesa aveva a lungo condiviso un approccio opposto: nel rito del matrimonio, fino al 1969, era il prete che benediceva l’anello, che poi passava allo sposo, che lo metteva al dito della sposa. In un semplice gesto era identificata la soggezione della coppia al presbitero e della sposa allo sposo. Questo oggi è talmente mutato, che lo sposo e la sposa si «scambiano» gli anelli ed essi stessi pronunciano parole autorevoli sull’anello, prima benedetto da colui che presiede. Ma interpretare questo sviluppo in termini di «consacrazione» ecclesiale, mi pare una indiretta forma di clericalizzazione del matrimonio. Perché la realtà viene letta sulla base di un linguaggio che è stato elaborato per la realtà del ministero. Diciamo che il rischio è che anche il matrimonio diventi «ufficio ecclesiastico». Tracce di questa svista, che considero grave, vi è nel documento Itinerari catecumenali. Un contributo non piccolo a questo sviluppo è venuto sicuramente da alcuni «movimenti», che hanno molto insistito su questa lettura del matrimonio in termini di consacrazione.
AS: Nel concetto di «matrimonio per l’edificazione della Chiesa», comunque, mi sembra importante l’idea che gli sposi cristiani vivano la loro storia d’amore in una prospettiva di missione e di servizio verso gli altri. Certo, già molto di questo dovrebbe venire dall’iniziazione cristiana, dalla storia di fede personale: ma, come già detto, non è affatto scontato. E poi c’è qualcosa in più: vivere il servizio insieme, come espressione dell’amore della coppia e come un «rispondere insieme all’amore di Cristo» apre un orizzonte nuovo. E allora non ci vuole un cammino di fede perché gli sposi possano sviluppare questa prospettiva? Come realizzarlo perché corrisponda alla specificità dell’amore coniugale?
AG: Questo è un altro punto delicato: essere «sposi in Cristo» esige un pensiero forte, alto, potente, ma non mediato sul modello del ministero ordinato o della vita religiosa. Definire meglio questa «spiritualità di coppia e di famiglia» è un compito che da 60 anni viene coraggiosamente intrapreso. Ma l’impatto ecclesiale è ancora scarso, perché le forme, come attesta anche questo documento, sono ancora quelle vecchie, spesso totalmente dipendenti da modelli celibatari.
Qui, io penso, interferisce un diverso vissuto della «castità», che crea facilmente sguardi «distorti». Chi fa esperienza di castità come voto religioso o come vita celibataria fatica a comprendere la castità coniugale. Ne sente parlare. Ma non la esercita e perciò non la conosce. E spesso la ricostruisce in termini di continenza.
Questo crea uno stacco problematico, che spesso si trasforma in parole o immagini estrinseche, moralistiche e paternalistiche. Classico equivoco è pensare che la vita prematrimoniale dei futuri sposi possa assomigliare naturalmente alla vita della continenza religiosa o celibataria. Qui il difetto di sguardo e di parole è altissimo. E determina incomprensioni «di andata» e «di ritorno». L’amore coniugale è sempre anche amore fisico, carnale, sessuale. Senza che per questo debba chiedere perdono. Qui c’è un vero e proprio blocco culturale, che merita una parola diversa e più attenta.
AS: Nella domanda precedente il centro era «come educare a vivere il matrimonio in una prospettiva di missione e servizio verso gli altri», quindi in una «prospettiva evangelica». La tua risposta dopo poco si sposta verso il tema della castità. Forse il collegamento che hai in mente è che il cuore del cammino dovrebbe essere centrato sullo sviluppare tutte le dimensioni della coppia (un amore che diventa «sale della terra») … che poi sarebbe il vero senso della castità coniugale (che si comprenderebbe meglio, credo, se non venisse associata, proprio per chi si prepara al matrimonio, a una richiesta di «continenza» sui cui effetti ci sono molti dubbi). Ecco, potresti esplicitare meglio il collegamento tra la mia domanda e il tema della castità?
AG: La missione della «chiesa domestica» è forma originaria della comunione, che prende la figura quotidiana del pasto, del riposo, della festa, del gioco, del talamo, del viaggio, della cura reciproca. Con il rischio che questo I care sia introverso e non sappia diventare estroverso. La trasformazione della casa in «appartamento» è il grande rischio. Abbiamo bisogno di luoghi che proteggano, ma anche di uscire dalla privatizzazione.
La Chiesa sarebbe il richiamo alla «vocazione comune» della casa. Ma una Chiesa che privatizza burocraticamente, cosa che fa dal 1563, difficilmente recupera, anche se istituisce un certo parallelismo tra iniziazione degli adulti e matrimonio. Ma il matrimonio non è un sacramento della iniziazione. Il cammino di fede non sopporta automatismi burocratici, ai quali abbiamo affidato sempre di più le sorti delle «fortune matrimoniali». Questo non funziona più. Ma non possiamo tenere, allo stesso tempo, i privilegi burocratici e le dinamiche iniziatiche. Questa è un’illusione di facciata. Dove le norme restano quelle tridentine, gli automatismi e le scorciatoie sono irrefrenabili e previste già dall’istituzione che vorrebbe combatterle.
AS: Il documento parla di «itinerari catecumenali» anche avendo in mente le «consegne» che caratterizzano il catecumenato, lì dove parla di «riti di passaggio da celebrare all’interno della comunità». Condividi questo orientamento? In che modo, secondo te, il linguaggio del rito può avere un ruolo in questo percorso?
AG: La metafora utilizzata da papa Francesco in Amoris laetitia è diventata similitudine e poi diretta imitazione. Una metafora, però, non è mai la cosa stessa. Questa soluzione, non solo in questo caso, risulta rischiosa. Una metafora «catecumenale» può essere sempre giustificata. Ma strutturare l’avvicinamento delle coppie al «proprio» matrimonio con le forme verbali e rituali del catecumenato a me sembra che resti problematico. E lo è sul piano di principio e sul piano rituale.
Mi spiego. Se si legge la teologia classica, ad esempio in Tommaso d’Aquino, si nota sempre una grande cura nel distinguere la logica battesimale e dell’iniziazione dalle altre logiche sacramentali. Soprattutto questo vale per il matrimonio. Perché nel matrimonio, a differenza del battesimo, vi è una sporgenza naturale e civile che non può essere intercettata «nel modo del catecumenato». Trattare i battezzati da «catecumeni» proprio sul versante che è più tipicamente legato alla loro natura e cultura appare un gesto paradossale. Io capisco bene che si tratta di «evangelizzare il matrimonio»: ma questo avviene sulla base della natura e della cultura, non a partire dalla fede. Proprio perché il matrimonio non è stato «istituito» come sacramento, ma semplicemente «elevato» sulla base di un’esperienza che era e rimane presupposta. D’altra parte, mi chiedo: il battezzato può essere ridotto a catecumeno? Trattare da catecumeno un battezzato può essere utile per ridimensionare il «diritto» che la legge canonica gli riconosce. D’altra parte se il battezzato non cede a questa deminutio, la legge gli darà ragione. Lo stesso documento, al n. 16, è costretto a riconoscere che, per quanto si strutturino «cammini», la via breve al matrimonio è posta dalla legge e quindi non facilmente evitabile. Ma se per questo si cambiasse la legge stessa, forse il problema si risolverebbe da sé. Un matrimonio «a ostacoli» sarebbe un matrimonio non solo raro, ma anche snaturato: un matrimonio ridotto a ufficio ecclesiastico.
Caro Tobia. se tu leggessi con attenzione vedresti che il modernismo è il difetto che io contesto alla soluzione tridentina che non viene affrontata nel testo degli Itinerari. La rilevanza della dimensione naturale e civile non dipende dal 68 ma dalla Summa contra gentiles di Tommaso. Spesso mi è capitato di costatare che la accusa di modernismo è solo frutto di memoria troppo corta.
“Se vogliamo solo fare documenti paternalistici sul matrimonio e non accettiamo di imparare dalle forme nuove di vita comune, dove sta la forza vitale del presente e del futuro, finiamo per costruire macchine complicate che nessuno userà”
In questa sua frase c’è la chiave di quanto va insegnando il prof. Grillo in questo come in altri scritti. E la chiave di lettura, purtroppo, è quella del modernismo.
Quella dei famosi 200 anni indietro del Cardinal Martini.
Quella di una visione progressiva del mondo in cui la Chiesa si estinguerebbe se non corresse ad uniformarsi senza se e senza ma alle mode dominanti. Magari spennellando di un vago evangelismo le giravolte teologiche che sarebbe costretta a fare.
Si tratta di un modernismo profondo e radicato che contesta anche i dati più chiari e consolidati tanto delle Scritture che della Tradizione. Il tutto supportato da citazioni bibliche o magisteriali sempre decontestualizzate ed utilizzate secondo i più puri dettami dello strutturalismo.
Purtroppo nella teologia contemporanea – forse perché prodotta da una generazione profondamente influenzata dal ’68 – si fa sempre più forte una sorta di cancel culture che, giocando con le Scritture e la Tradizione come fossero Lego, vorrebbe proclamare “l’immaginazione al potere”.
Ma si sa – come ho già avuto modo di scrivere – che la “summer of love” terminò tragicamente sulle colline di Bel Air negli U.S.A. ed anche peggio nelle strade e nelle famiglie della nostra Italia