«Don Vito, ma tu sei felice? La tua vita è come la sognavi e la desideravi?».
Una bimba, in uno dei mei ritorni ormai frequentissimi a Pantelleria (per dare una mano pastoralmente ai padri che sono di una bontà grande e sincera), mi ha posto questa domanda per un suo compito scolastico. Questo pezzo scritto in ragione dei miei 25 anni di presbiterato intende rispondere in profondità a quella domanda.
La felicità del discepolo
Che misure ha la felicità per un discepolo? Per un uomo che ha scelto di seguire Gesù, di rinnegare se stesso, di prendere la sua croce e di seguirlo? Per un uomo che ha scelto di fare del vangelo il senso pieno della sua vita?
La misura della felicità discepolare allora ha alcune dimensioni proprie, perché queste devono essere in sintonia con la forma della croce: la relazione sincera con il vangelo, la libertà del cuore, la buonafede di prossimità, l’interiorità ospitale. Cosa intendo con esse alla luce di 25 anni di esperienze, di dono, di gioie, di fedeltà, di ferite, di errori, di infedeltà?
Oggi, nei diversi contesti dove ho la grazia e la possibilità di vivere il mio ministero presbiterale, mi definisco un discepolo profondamente legato al pensare di Gesù, un uomo dal pensiero e dalle scelte gesuane. La relazione sincera con il vangelo è la necessità di coscienza di pensare con il vangelo, di guardare il tutto, il «questo» gesuano del suo comando dato ai discepoli nella cena con cui ha iniziato l’eucaristia, alla luce del vangelo.
In 25 anni, se resti amico abituale delle Scritture, il vangelo ti scava, ti interroga, ti provoca, ti mette in crisi, genera nella tua coscienza ospitale lo spazio vivo e generativo per la Parola che è la vita del Figlio. Ad un amico abituale delle Scritture capita di vedere trasfigurata la sua coscienza in grembo, perché poi nelle sue stesse parole, gesti, scelte, azioni concrete, venga ancora generato come memoria e come senso la vita stessa di Gesù.
Libertà e buonafede
Invece la libertà del cuore è paragonabile ad un momento «non scritto» nel vangelo ma necessario nella vicenda gesuana e nella quale io radico profondamente il dono della mia vocazione: alla notizia dell’arresto del Battista, Gesù ha scelto di lasciare la sua casa, la sua famiglia, i suoi amici per dedicarsi al regno di Dio e continuarne, in modo nuovo, la predicazione.
Non aveva ancora chiamato i suoi discepoli. Il Padre non si era ancora rivelato come compiacimento nel battesimo. Era solo. Quella solitudine è il vero luogo della mia libertà.
Ancora: la buonafede è la scelta di prossimità di fare il vuoto in se stesso dei pregiudizi, della malizia, della malafede, per accogliere la vita e le sue relazioni a partire da quello che ti viene messo davanti. La buonafede è la casa-relazione non dell’ingenuità ma della genuinità, quella tipologia che Gesù stesso indica come il farsi bambini per entrare nel regno. Non sempre è facile restare bambini al modo del regno di Dio, ma è sempre necessario.
Nel grembo di Dio
La genuinità nella prossimità è quella risorsa evangelica per chi come Gesù non intende difendersi davanti ai tribunali del potere di questo mondo, poco cambia se politici o religiosi.
È il sorriso della passione. Infine, l’interiorità ospitale, ovvero quella relazione con Dio in Dio. È lo stile spirituale della preghiera. In 25 anni le parole con cui preghi ogni giorno, ad esempio i salmi, scavano quella roccia interiore, dove ami fermarti e nasconderti ogni giorno, per sentirti custodito, amato, voluto. Quella roccia interiore scavata ti ospita e ti protegge e ti mette alla presenza di Dio, ti fa sentire te stesso in Dio.
All’uomo, amico abituale delle Scritture, la cui coscienza è stata trasfigurata in grembo, capita anche di sentirsi vivo nel grembo di Dio, di essere discepolo e fratello nel Figlio che è nel seno del Padre.