Il pensiero missionario di Paolo Manna trova la sua formulazione definitiva nelle Osservazioni sul metodo moderno di evangelizzazione, dopo il viaggio – come Superiore generale del Pime – di oltre 14 mesi (dal 7 dicembre 1927 al 14 febbraio 1929) in Asia e, in particolare, in Cina. Il testo fu consegnato ai cardinali e funzionari competenti della curia romana, ma fu tenuto secretato in Vaticano per circa 50 anni. Manna temeva di essere denunciato al Sant’Ufficio. Come noto, fu pubblicato solo nel 1977 da Giuseppe Buono.[1]
Manna scrive di aver trovato conferma di intuizioni precedenti che gli erano sembrate, fino a quel momento, «troppo ardite e temerarie».
La missione – secondo Manna – è stravolta da una ricerca di risultati lontana dal vangelo. Le «catene», come le chiama, che tengono prigioniera la fede e le impediscono più «larghi voli» sono l’occidentalismo, la dipendenza dal denaro, il protettorato e le alleanze con i governi, la mancata promozione del clero indigeno.
Le osservazioni di Manna non hanno avuto nessuna accoglienza. Alcune di esse sono ancora da compiere, altre non sono più attuali per le trasformazioni epocali dell’umanità. Non siamo chiamati, credo, ad un’operazione archeologica per analizzare le idee di Manna, fino a che punto sono state realizzate, se avesse torto o ragione.
Occorre piuttosto verificare, prendendo spunto dalle “catene” da lui indicate, quali siano le sfide della missione. Dobbiamo dunque metterci nel suo stesso atteggiamento di lettura critica della situazione della missione, disponibili ad avanzare idee “ardite e temerarie” per rispondere alle chiamate di questo tempo e di questo mondo.
Il Vangelo è libertà
Manna è sdegnato dai danni della sciagurata protezione politica. Occorre svincolare il cattolicesimo «da ogni protezionismo politico, da ogni questione temporale». Il protettorato – che al tempo era francese – è per Manna un «ostacolo grave e terribile».
Aggiungo di mio che la stessa cosa aveva affermato Timoleone Raimondi delle Missioni Estere di Milano, primo vicario apostolico di Hong Kong. E con lui altri missionari di Milano in Cina, tra cui il vescovo Stefano Scarella.
Il missionario – scrive Manna – deve aver fiducia nella forza del suo messaggio e non nella protezione straniera. Manna aggiunge che bisogna tenersi lontano dai governi, che hanno scopi contrari a quelli dei missionari. I governi infatti temono più di ogni altra cosa che la gente si faccia cristiana perché «il Vangelo è sinonimo di libertà». Questa frase di Manna andrebbe scolpita sulla pietra, soprattutto in questo nostro tempo che non ama la libertà, affascinato com’è dagli uomini e regimi autoritari, che attraggono la simpatia di numerosi cattolici e delle stesse gerarchie. Gesù è l’autore della nostra libertà, che è originata nell’immagine e somiglianza di Dio nella quale siamo stati creati.
Le alleanze terrene, trame con i potentati economici e politici, trame con le relazioni influenti, danneggiano anche oggi la credibilità della missione. Ci sono catene nazionalistiche, ideologiche e religiose. Troppi credono che sia più redditizio, per la causa del vangelo, l’accordo con i potenti regimi che sono la diretta causa di queste oppressioni e violenze. C’è una mal posta fiducia nei successi della diplomazia, affidata qualche volta a nunzi e funzionari ecclesiastici di scarso o nessun valore (queste sono valutazioni mie, non di Manna).
Io vorrei che fosse espresso sostegno ai cristiani impegnati nei movimenti popolari per la libertà dei loro popoli, agli operatori di pace, ai profeti che con coraggio e non-violenza lottano, ispirati dalla fede nel vangelo, per la libertà e la democrazia.
Nessuno può togliere la dignità che Dio ha donato alle sue creature. Non siamo servi e schiavi di nessun potere, né politico, né economico, né militare, né religioso. La libertà non è un accessorio per pochi fortunati, è il dono di Dio, è l’opera di Gesù che ci rende veramente donne e uomini.
Le tristissime vicende, di cui sono diretto testimone, di Hong Kong e Myanmar – due tra le più antiche e prestigiose missioni del Pime – mostrano che i cristiani annunciano un vangelo di libertà e di liberazione. Il Myanmar era la missione di Manna. A Hong Kong Manna organizzo il grande capitolo del 1934, dove fu rieletto superiore generale, carica che rifiutò.
Io sono profondamente turbato: a Hong Kong amici, persone che stimo, numerosi cattolici impegnati per il bene sociale in nome del Vangelo sono in carcere. Persino il card. Zen è stato arrestato, segnando il superamento di una linea che si pensava insuperabile. La grande parte dei leader democratici sono cristiani; cattolici che hanno creduto alla nostra predicazione, che ci hanno preso sul serio. Amano la libertà perché sono cristiani.
In Myanmar, terra di fede buddhista, i cattolici sono scesi in piazza e le suore si sono inginocchiate davanti a plotoni militari pronti a sparare. Villaggi cattolici sono bruciati, distrutti; i fedeli imprigionati e uccisi. In Myanmar regna la disperazione, e molti fedeli sono tentati di unirsi ai rivoltosi.
Ma mi fermo qui, perché, a causa del mio dolore, potrei lasciarmi andare ad altre valutazioni troppo temerarie e ardite.
Torniamo a Manna, che osserva amaramente che non solo il potere, ma anche il denaro fa più male che bene. «Lo Spirito Santo deve oggi fare i conti con gli economi delle missioni, e può permettersi di spingersi solo fin dove consentono le finanze». Egli non sopporta che il denaro sia il criterio ultimo dell’attività della missione, ridotta a «macchina che fa cristiani». Ecco un’altra frase da scolpire: la missione non è una “macchina che fa cristiani”. Penso a quanto disse Benedetto XVI: la missione non è prendere qualcuno dal campo degli avversari per portarlo nel nostro.
Si diventa cristiani per dare e non per ricevere: «devono diventare in tutto sufficienti a sé stessi ed essere generosi». Gesù invia i suoi discepoli missionari in povertà, affidandosi alla Parola. E Paolo di Tarso scrive che i missionari comunicano un tesoro contenuto in vasi di creta, perché appaia chiaro il messaggio viene da Dio e non da potenza umana. Giacomo – lo dobbiamo ricordare almeno qualche volta – afferma che l’attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali.
La dipendenza dell’opera missionaria dal denaro è un singolare stravolgimento della logica evangelica. Manna dice che bisogna tornare all’apostolato dei primi tempi, e che dobbiamo credere al Vangelo per davvero.
Io riassumerei il suo pensiero con l’idea che da Benedetto XVI al nuovo vescovo di Torino Roberto Repole è stata illustrata in modo mirabile: la missione è un dono, e la gratuità è la condizione fondante perché il dono si realizzi. Ci torneremo.
Il Vangelo dei battezzati
Secondo Manna, il fallimento della missione è radicato nella mancanza di clero indigeno. Concordo con Manna: il male fondamentale della missione moderna, che pur non è senza meriti, è di non aver posto a guida delle Chiese locali pastori provenienti dalle comunità stesse.
È intollerabile che «tutto l’edificio delle missioni» sia edificato e si sostenga sulle spalle del clero forestiero. Il clero indigeno è invece relegato ad un ruolo di seconda classe, sospettato di non essere all’altezza.
Il dibattito, piuttosto penoso, sulla qualità del clero indigeno era in corso già da almeno tre secoli, dalla prima istruzione di Propaganda Fide del 1659, mai messa in pratica. Su questo si erano poi espressi i missionari in Cina Joseph Gabet, Antoine Cotta, Vincent Lebbe ed altri ancora (Gabet e Lebbe citati da Manna), sanzionati dalle autorità ecclesiastiche ed emarginati dai loro ordini missionari.
«Abbiamo missioni e non Chiesa, perciò il cattolicesimo è tenuto come una religione straniera». Sulla stessa linea si era espresso 150 anni prima Stefano Borgia, che diverrà cardinale e prefetto di Propaganda Fide ai tempi di Pio VII. Borgia, che sottomise alla Santa Sede due memorie straordinariamente innovative: liturgia in lingua cinese, clero indigeno, rinuncia ad imporre il latino ai candidati all’Ordine sacro ecc… Proposte che vennero silenziate, come quelle di Manna.
Manna critica l’introduzione del sistema di formazione seminariale europeo in Asia: quale «autorità, quale ascendente potranno vantare tali giovani sacerdoti in paesi dei quali essi ignorano il pensiero e le tradizioni?».
Manna è favorevole ad una formazione al presbiterato conforme alle tradizioni locali, senza latino, senza le scienze europee e senza l’obbligo del celibato. I candidati siano adulti disposti a fare del vangelo la ragione della propria vita. Propone l’esemplarità dei catechisti: persone con una buona testimonianza di vita e un’autorevolezza che conquistano la stima delle loro comunità. Tra loro si devono scegliere i presbiteri. Così – continua Manna – facevano gli apostoli.
A nessuno sfugge che Manna descrive, ante litteram, i viri probati. L’obbligo del celibato non può divenire la discriminante principale, più importante della stessa salvezza delle anime. «Se con il latino, e le scienze, e il celibato voi riuscite a tener chiuse le porte del paradiso a tante anime, chi ci guadagna? Non Dio, non la Chiesa, non le anime. Ci guadagna solo il demonio, e veramente non si dovrebbe lavorare per lui».
Se la salvezza delle anime è la legge suprema della Chiesa, sostenere a tutti i costi il latino e il celibato impedendo a ottimi candidati di divenire preti è, conclusione paradossale ma straordinariamente impressionante, lavorare per il demonio.
Manna ricorda che san Paolo non fondava comunità per poi lasciarle senza guida e senza eucaristia, invitando magari –aggiungo io – a pregare per le “vocazioni”. Paolo crede nello Spirito che suscita numerosi carismi e ministeri. E costituisce lui stesso guide e ministri nelle comunità fondate, dalle quali si allontanava per continuare la sua missione itinerante. Così dovrebbero fare i vescovi: come possono lasciare le comunità, in tante parti del mondo, senza eucaristia? Ed esporle così ad abbandonare la Chiesa cattolica per aderire a gruppi religiosi più scaltri?
Su questo tema la Chiesa romana ha discusso moltissimo, anche recentemente, ma non ha ancora fatto alcun passo in avanti. Decine di migliaia di comunità rimangono senza la grazia della celebrazione della cena del Signore, nonostante che, fin dall’antichità, i cristiani siano ben consapevoli che «non si può vivere senza la domenica». Cose così furono dette, oltre che da Manna, anche dal giovane vescovo Luis Antonio Tagle (2005), zittito dal card. Sodano.
Un’altra frase conosciuta di Manna è «tutta la Chiesa per tutto il mondo». Manna comprendeva che il destino della missione e della Chiesa è lo stesso. È infatti dalla missione che nasce la Chiesa – ci dice la teologia della missione – e non il contrario. Oggi non si tratta più di affidare la guida al clero locale: si tratta di riformare radicalmente il ministero.
I preti giovani sono così pochi, e saranno ancora meno, che la gran parte dei giovani non conosce nessun prete, o nessun prete significativo. E non solo occorre una riforma radicale del ministero per salvare la vita cristiana e sacramentale delle comunità, occorre ridare la missione a coloro alla quale appartiene, ovvero i battezzati, il popolo santo di Dio.
Ogni battezzato, donna o uomo, bambino o anziano, è conformato a Gesù, e partecipa al cento per cento dell’ufficio di Cristo. Siamo tutti re, ovvero guide autorevoli nella comunità, a imitazione di Gesù buon pastore. Siamo tutti sacerdoti, ovvero capaci di donare a Dio la nostra vita, ad imitazione di Cristo, unico e solo sacerdote (in senso teologale, perché Gesù non era sacerdote). Siamo tutti profeti, ovvero missionari che annunciano la parola del vangelo della vita.
Come dice il nome stesso, essere cristiano vuol dire essere un altro Cristo. Se noi prendessimo sul serio questa teologia, che è inattaccabile, perché è dottrina della nostra fede, saremo già una Chiesa del tutto diversa, e vivremo una missione del tutto diversa.
In troppi ambienti, la Chiesa è ancora clericale, maschilista, patriarcale, verticale e autoritaria. Un club per soli uomini, nel senso di maschi, che – come tali – ragionano, decidono e governano la Chiesa. Uomini di Chiesa si attardano dietro a pratiche clericali e maschiliste, a privilegi, a carriere, a paramenti e titoli onorifici come fossimo ancora nelle coorti rinascimentali.
Siamo nell’età dell’immagine, e troppo spesso è questa l’immagine che la Chiesa offre di sé. I giovani e le ragazze di oggi, in tutto il mondo, se ne stanno alla larga da una Chiesa così. Molta gente, anche quella più ben disposta, è ormai stanca.
Lo dico ancora: tutto questo è ormai francamente inaccettabile e insopportabile. Queste pratiche antievangeliche sono alla radice della scellerata vicenda degli abusi del clero e dell’altrettanto scellerata risposta omertosa delle gerarchie. Seguo da vicino questo tema almeno dal 2002. E mi rendo ben conto che la crisi ha allontanato dalla pratica della fede milioni di persone in tutto il mondo, soprattutto donne.
La trasmissione della fede è in grave rischio. Osservatori affermano che la nostra è l’ultima generazione di cristiani, qui in Europa e nel mondo secolarizzato. Ma per il fenomeno della pervasività della globalizzazione, c’è il rischio che questa situazione si estenda ovunque. Inoltre, due anni di pandemia hanno indebolito la pratica della fede in tutto il mondo. In Cina le chiese sono chiuse da due anni.
Ma, se Manna denunciava l’esclusione dei preti indigeni e ridimensionava (siamo nel 1929!) il mito del celibato e del latino, cento anni dopo occorre dire che, senza una radicale riforma che riconosca il protagonismo delle donne e dei battezzati, con i loro carismi e ministeri, la Chiesa – e la sua missione – si emarginerà sempre di più da questo nostro tempo e da questo nostro mondo. Se Maria Maddalena, su cui torneremo, è stata la prima missionaria, l’apostola degli e per gli apostoli, allora occorre immaginare una nuova forma di missione e di Chiesa.
Tradurre il Vangelo nei nuovi linguaggi
Il cattolicesimo – afferma Manna – deve sentirsi «di casa in ogni paese, togliendo ogni carattere di importazione esotica». Egli sogna un’inculturazione (non usa questo termine, che non esisteva al tempo, ma il suo contrario, ovvero “occidentalismo”) in cui il pensiero filosofico e religioso cinese dia al cristianesimo quanto hanno dato Platone e Aristotele. «Adottare in tutto quello che si può, nella vita, nel pensiero, nell’arte quello che già si trova di buono nei paesi di missione».
C’è un richiamo, forse inconsapevole, del pensiero di Matteo Ricci (allora ancora in disgrazia), secondo il quale il confucianesimo rappresenta per il cristianesimo in Cina ciò che la filosofia greca e l’etica latina hanno rappresentato per il cristianesimo antico e mediterraneo. Manna per altro si riferisce a lungo alla questione dei Riti cinesi, che allora non era ancora risolta.
I danni causati dalla mancata applicazione di questi principi sono ancora presenti. Le politiche religiose di alcune nazioni asiatiche, tra cui Cina e India, sono basate sul fatto che il cristianesimo è una “religione straniera”. Il cristianesimo – nella sua ispirazione originale – non è invece nessuno delle due: non è una religione, non è una cosa straniera.
La mia esperienza di missionario e di studioso della missione mi suggeriscono che l’inculturazione è un fenomeno spontaneo. Non occorre cioè rompersi la testa in programmi di inculturazione. Paradossalmente si incultura anche chi si dice contrario. Lo dimostra la storia delle missioni. Nel 1994 il card. Ratzinger invitò i vescovi asiatici riuniti a Hong Kong a considerare la complessità del rapporto tra fede e culture, descrivendo l’evangelizzazione come inter-culturalità.
È così infatti. Il rapporto tra fede, missione e cultura è reso ancora più difficile oggi dalla complessità della cultura e delle culture. Nello stesso villaggio, nella stessa città, nella stessa comunità, nella stessa famiglia coesistono numerose culture. Non solo: la complessità post-moderna e del post-umanesimo fanno co-esistere culture diverse, e a volte persino in contraddizione, dentro ciascuno di noi. Ognuno di noi è multi-culturale.
Non si tratta più, allora, di far incontrare il vangelo con culture geograficamente altre. La dimensione geografica della missione è un concetto morto e sepolto. Si tratta di annunciare il vangelo nelle culture delle nostre città e società complesse, dalle tante culture e tante religioni. Oggi sono le culture delle nuove generazioni che sono lontane mille miglia. Di loro la Chiesa non conosce neanche il linguaggio.
E conosce poco anche il linguaggio delle neuro-scienze, delle scienze fisiche e astronomiche, e di tutto quello che esse ci dicono sulla profonda connessione della realtà. Credo davvero che oggi la traduzione del vangelo in un linguaggio comprensibile sia la nuova, difficile, frontiera dell’inculturazione, o meglio dell’evangelizzazione.
Non possiamo imporre il latino in Cina, ci dice Stefano Borgia nel 1700 e Paolo Manna nel 1900. È una cosa da matti, da marziani!
Tommaso d’Aquino osservava che Dio ci parla con un linguaggio umano. E introdusse il termine accomodatio, che ebbe poi successo nel pensiero missionario con Erasmo da Rotterdam, Ignazio di Loyola e Matteo Ricci. Dio si accomoda a noi parlando il nostro linguaggio per rendersi comprensibile. Noi diciamo della Bibbia “Parola di Dio”, ma in effetti è una parola molto umana, persino imperfetta, altrimenti sarebbe incomprensibile agli umani.
Nel suggestivo film di Sofia Coppola Lost in Translation, ambientato in Giappone, una ragazza americana viene emotivamente travolta dalla realtà altra che sperimenta visitando templi shintoisti e buddhisti. Si perde, perde i suoi orientamenti, ma solo così scopre un’altra sé, o meglio entra nel profondo di sé stessa. E si comprende meglio di prima. E ha il coraggio di ammettere, per esempio, che non ama il fidanzato con cui sta viaggiando.
Fuori di metafora: molti cristiani si sono persi nella traduzione, ovvero nel passaggio tra la loro fede e le nuove culture.
Ci sono nuovi alfabeti, ci sono nuove lingue. Non possiamo perpetuare un linguaggio religioso incomprensibile. Dobbiamo riconoscere che non abbiamo strumenti per tradurre la fede in questi nuovi universi linguistici.
Commissioni, documenti o sinodi per riformare questo o quel aspetto della vita ecclesiale e missionaria producono, anche se hanno richiesto anni di lavoro, risultati modesti e inadeguati alle sfide.
Quando si mancano le svolte epocali, si paga in termini pesanti per secoli interi. La storia mostra che intere nazioni possono perdere la pratica della fede. Ne è ben cosciente anche Manna, che imputa all’ottusità della gerarchia cattolica la riforma protestante. L’incapacità di leggere la realtà e la paura di affrontare le nuove sfide, magari per non mettere in pericolo la retta dottrina producono danni permanenti. Lo scrive anche Manna, e con parole forti.
Non c’è alternativa: l’annuncio è sempre un’opera di traduzione del messaggio in una lingua altra. E bisogna accettare i rischi della traduzione, come Dio ha accettato di tradursi per noi in un linguaggio imperfetto. Senza il rischio di perdersi nella traduzione non ci si ritrova, non si viene a conoscere niente di nuovo e niente di sé.
Il Vangelo è un dono
Dunque, non possiamo imporre un linguaggio religioso incomprensibile alle donne, agli uomini, alle ragazze e ai ragazzi di oggi. Rischiamo uno scisma epocale. Il linguaggio religioso del sacrificio, del dolore e di altre categorie religiose ereditate in antichi contesti, continua a trasmettere un’idea di Dio e della vita cristiana assai lontana dal vangelo della libertà e delle beatitudini e dalla gioia del Risorto. Ma anche lontano – se me lo si permette – da un’idea di Dio e di fede che sia minimamente comprensibile oggi anche dai meglio intenzionati tra i nostri giovani.
Il messaggio di Gesù è ancora presentato, nel linguaggio liturgico, catechetico, missionario e a volte persino teologico, come fosse un aspirapolvere che pulisce le sporcizie della gente.
Questa immagine, forse un po’ ardita e temeraria, ma che uso per dare forza al discorso, mi viene dal film White Castle (1990) con Susan Saradon e James Spader. Lei è una donna di mezza età depressa per la morte del figlio. Vive in modo disordinato in una casa trasandata. Ha una vita difficile e triste. In un pub dove va a straniarsi incontra un giovane: hanno una relazione molto passionale. A un certo punto lui le regala un aspirapolvere. Lei va su tutte le furie e interrompe la relazione. «Ma vedi che la tua casa è sporca!» dice lui. E lei: «se mi vuoi bene mi regali un gioiello, dei fiori, un profumo: non un aspirapolvere».
Ha ricevuto una cosa “utile”, anzi “necessaria”, ma che la offende e la umilia. Come se le sue difficoltà fossero la cosa più importante di lei, e lui sia lì per aiutarla a fare pulizia.
Il dono che ti fa sentire amata è un’altra cosa.
Il dono non deve colmare un bisogno, una mancanza, un difetto. Deve essere gratuito, ovvero “inutile”, “non necessario”. Deve esprimere un’eccedenza d’amore, deve offrire una gioia imprevista, un’uscita dalle cose quotidiane. L’annuncio di Gesù è stato impostato troppe volte sull’idea che la gente manchi di qualcosa, e che Cristo è la risposta. Non credo che sia così.
Lo scriveva già Franco Cagnasso (poi Superiore generale del Pime) nel 1983 dal Bangladesh: non è vero che le persone che incontriamo in missione, anche se non cristiane, siano più infelici di noi, o che alla loro vita morale o spirituale manchi qualcosa. O che siano alla ricerca di qualcos’altro.
Lo posso confermare. Tanti amici cinesi non sono cristiani, ma non ho mai pensato che per questo vivano male o siano infelici. Infatti non lo sono.
Bisogna proporre la fede per quello che è originariamente: una bella notizia, un dono, un’eccedenza, un regalo gratuito e libero, come lo sono l’amore, l’amicizia, la gioia, la bellezza.
La fede è un dono, non una necessità per evitare l’inferno. Essa rende la vita bella e gioiosa. Non è una religione che intristisce, ma è l’amicizia di donne e uomini che respinge ogni forma di violenza, di oppressione, di imposizione, di proselitismo.
Nel linguaggio dei nostri primi missionari la gente a cui erano inviati erano definiti infelici. «Rendere felici gli infelici»: era un motto di Clemente Vismara. Sono formule inadeguate, ma rendono l’idea che la missione ha a che fare con la felicità. Se il vangelo non porta un po’ di felicità, allora è meglio lasciare la gente in pace.
La dinamica della missione segue – secondo me – la logica dell’innamoramento e della felicità. L’innamoramento capita all’improvviso, inatteso: e scopriamo allora che non possiamo più vivere senza quella persona. La felicità dipende da quell’amore. Così dovrebbe capitare con Gesù: una volta conosciuto, non possiamo più farne a meno. Finché non abbiamo conosciuto Gesù, siamo infelici anonimi; una volta conosciuto, non possiamo più vivere senza di lui.
«Non c’è amore più grande di colui che dà la vita per i propri amici: voi siete miei amici, se fate ciò che vi comando: ovvero amatevi l’uno l’altro come io vi ho amato». Amore, amicizia, dono, felicità: questa è la dinamica dell’annuncio evangelico.
Si è felici quando si è amati. Maddalena riconosce Gesù quando è chiamata per nome da Gesù risorto che non riconosce con gli occhi inumiditi dalle lacrime. Maria smette di piangere quando ascolta una voce che pronuncia il suo nome. È riconosciuta nella sua dignità di persona amata. Dare il nome è dare la vita e dare una missione. “Non trattenermi ma va’”: Gesù libera Maria anche da sé stesso, le ridà una nuova vita, anche lei risorge come è risorto lui. E ha una missione da compiere. Sarà la prima ad annunciare la gioia della risurrezione. Maria non annuncia che Gesù è morto, lo sapevano tutti. Annuncia che Gesù risorto, è vivo, e che la vita vince la morte.
Il movimento missionario, da cui noi proveniamo e di cui siamo eredi, nasce quella mattina, da una vicenda d’amicizia e di sequela, e annuncia la gioia della vita ritrovata.
Aggiungo un altro pensiero. È vero che la definizione geografica di missione oggi è improponibile. Ma, se la missione è dare una notizia inaspettata, è un dono gratuito, non necessario e indeducibile, essa – la notizia – viene da fuori. Non è frutto della sapienza umana. Il popolo più intelligente della terra non arriverebbe da solo a sapere di Gesù, del suo vangelo e della sua risurrezione, della vita che vince la morte. È una notizia, “una buona novella”, una novità inaspettata che cambia la vita e la riempie di gioia. Ci deve ben essere uno che la comunica, altrimenti come si fa a venirne a sapere?
Per questo, credo, è bene che ci chiamiamo missionari esteri. Ci ricorda – simbolicamente e efficacemente – che il vangelo è straniero. Nel senso letterale del termine: strano, o meglio non ordinario, non appartenente all’ordine dell’esperienza ordinaria.
Stefano Borgia, nel 1787, scriveva che i pastori devono essere locali, ma i missionari devono essere stranieri. Infatti: il missionario deve venire da fuori, come nel vangelo: per questo – secondo me – il Pime deve continuare a mandare i suoi missionari fuori dai propri confini. Il Vangelo che annunciano è una novità.
Missione diffusa
C’è un solo modo di essere discepoli di Gesù, quello di essere missionari. Essere missionari prima di essere pronti, prima di essere sicuri della propria fede, prima che le riforme della Chiesa siano attuate, missionari semplicemente perché cristiani.
Occorre una missionarietà diffusa e spontanea, fatta dai ragazzi che studiano altrove o all’estero; dalle famiglie che accolgono e che partono; dalle badanti che entrano nel cuore delle famiglie; dai commercianti che viaggiano per piazzare i loro prodotti; dalle mamme che si collegano con le altre mamme; dai lavoratori che emigrano da un paese all’altro; dai giovani che hanno anche solo un’estate da donare.
Tutti gli organismi missionari, compresi i nostri due istituti missionari, possono accogliere e promuovere forme di missione diffusa e spontanea.
Spero che nessuno si aspettasse soluzioni: se ci fossero soluzioni disponibili, qualcuno le avrebbe scoperte prima di me. Con questo intervento, ispirato dall’eredità del beato Paolo Manna e dal genere letterario delle Osservazioni, ho cercato di immaginare una missione come, forse, lui l’avrebbe immaginata. Una missione di libertà, che proponga il dono dell’amicizia con Gesù, e che abbia come protagonisti coloro che hanno ricevuto nel battesimo la grazia cristiana.
* Il testo dell’intervento di p. Gianni Criveller appare anche su Mondo e Missione, la rivista mensile del Pontificio Istituto Missioni Estere (PIME).
[1] Giuseppe Buono ha curato la pubblicazione dell’inedito per l’EMI di Bologna (1977, seguito da altre edizioni). Le citazioni dirette di questo saggio vengono da questa pubblicazione. Per la natura discorsiva di questo intervento, ommetteremo i riferimenti alle pagine.
Grazie infinite a Gianni Criveller, per avermi fatto conoscere Paolo Manna, per come ha scritto questo articolo, con il cuore ardente! Mi ha fatto; innamorare di lui! Un caro saluto e complimenti.
Tiziana Bonora
Il testo dell’amico Gianni Criveller è molto ben fatto e spinge, sull’esempio dei missionari citati, all’audacia, che, purtroppo, nonostante i sinodi, viene continuamente repressa Francesco Strazzari