I problemi più avvertiti oggi in Burkina Faso riguardano il terrorismo e le migrazioni interne al Paese, più dei cambiamenti climatici in sé. Ma, a giusta ragione, ci si può chiedere quale sia la causa e quale sia l’effetto tra gli uni e gli altri.
Per chi segue da anni queste problematiche non è difficile individuare alla base dei problemi del terrorismo, delle migrazioni, dei cambiamenti climatici e della crisi ambientale in generale una stessa mentalità, chiamata “estrattivista” – a sviluppo lineare o esponenziale -, in contrapposizione a quella che oggi viene detta economia “circolare” o sostenibile.
La globalizzazione ha messo in evidenza complessità e connessioni impensate. La pandemia ci ha mostrato come, in poche settimane, tutto il pianeta possa essere raggiunto da un virus. I processi di globalizzazione sono pure all’origine della perdita della biodiversità, poiché essa tende più ad uniformare che a tutelare le differenze.
Per anni abbiamo scaricato nell’ambiente, con i gas serrae altri inquinanti, il costo della differenza tra il vecchio – da buttare e cambiare – e il nuovo, a danno della sostenibilità. Per le giovani e future generazioni questo è stato un egoismo enorme, giustificato solo in parte dall’ignoranza.
Negli ultimi anni, gli studi e le ricerche sui cambiamenti climatici, la perdita di biodiversità e l’inquinamento globale si sono moltiplicate ed ora l’ignoranza può sussistere soltanto per comodo. Ma pure con tale consapevolezza, l’inversione di rotta è più una teoria che una pratica. Secondo i dati dell’ENEA, in Italia, anche nel primo trimestre 2022, c’è stato un aumento dei consumi di energia del 2,5% e le emissioni di CO2 sono aumentate dell’8%, nonostante tutto quel che si dice.
In questa stessa ottica possiamo leggere le conseguenze dei cambiamenti climatici in Burkina Faso.
La prima conseguenza mi sembra costituita dagli sfollamenti interni. La situazione è “figlia” del cosiddetto terrorismo islamico, ma è quantomeno “nipote” della mentalità economica mondiale, della “dittatura” della economia e della finanza fondata sul modello, appunto, a sviluppo lineare, o addirittura esponenziale, affermatosi nell’ultimo secolo.
Partiamo da lontano, dalla guerra che l’URSS ha mosso all’Afghanistan negli ani ’80, al tempo dei blocchi contrapposti: gli Stati Uniti, per contrastare l’Unione Sovietica, hanno finito per creare un focolaio del terrorismo mondiale rivoltatosi poi contro loro stessi.
Il fondamentalismo è certamente il frutto di una interpretazione radicale dell’Islam che molti nel mondo arabo non hanno condiviso affatto, ma, non meno, della necessità di creare un’identità forte che potesse distinguersi dalla dominazione statunitense, divenuta, dopo la caduta del blocco sovietico, pressoché incontrastata.
Quando c’è stato l’attentato alle torri gemelle, insieme col dolore per la morte di tante persone, una parte del mondo arabo – e non solo – ha esultato, perché l’evento ha simbolizzato il colpo del piccolo Davide contro il gigante Golia: un pugno di uomini ha tenuto in scacco un’intera nazione e il mondo intero. Mi trovavo in Costa d’Avorio in quel periodo e l’evento veniva letto in modo molto diverso dall’ottica occidentale.
Il mondo è cambiato da quell’11 settembre, l’egemonia degli USA non è più la stessa. Sono state investite tante risorse nella lotta al terrorismo, senza ottenere grandi risultati: anzi, il terrorismo si è diffuso ad altri Paesi ed ha aperto nuovi fronti sino al nostro Sahel.
Dietro – mi ripeto – sta la stessa mentalità estrattivista: gli USA a cercare di punire i “paesi cattivi”, guarda caso ricchi di petrolio, e i terroristi a cercare nuovi territori, ove c’è la possibilità di agire indisturbati per accaparrare le risorse della terra: le terre di chi, sino a quel momento, ha vissuto tranquillo e non si è minimamente preparato per far fronte ad una aggressione violenta e dotata di mezzi ben superiori.
Chi riesce nella strategia dell’accaparramento diventa immediatamente ricco, straricco: dal Covid in poi, ogni 30 ore è nato un nuovo miliardario, non tanto per le sue capacità straordinarie, ma per il fatto di essersi trovato al posto giusto nel momento giusto, a poter sfruttare i meccanismi della finanza globale; nello stesso arco di tempo, circa ogni 30 ore, un milione di persone in più ha iniziato a soffrire la fame (cf. qui).
Ma se uno di quei poveri – del milione di poveri – riesce a diventare un miliardario, per lui evidentemente, cambia tutto: ecco nascere – spesso tra la nostra stessa gente – il miraggio che giustifica l’adozione di ogni mezzo per il raggiungimento dello scopo.
La caccia sfrenata alle risorse della terra ha spinto le ricerche sino alle zone dell’Africa dove ci troviamo: si sono scoperti nuovi giacimenti di vari materiali (oro, diamanti ed altri minerali); si è aperta una nuova via della droga e del contrabbando di ogni tipo; si è affermata la possibilità di creare uno stato clandestino ai confini delle frontiere di varie nazioni afro-saheliane, mentre corridoi di merci in transito di merce sono stati aperti verso l’Europa e l’America.
In mezzo a tutto questo sta la povera gente. I terroristi fanno scorribande portando intimidazione alla popolazione, conquistando il libero accesso ai villaggi ove lo Stato non è in grado di mantenere la sicurezza. Allora gli abitanti fuggono verso i centri abitati più sicuri.
Ormai sono attorno ai 2 milioni gli sfollati interni, circa il 10% della popolazione (cf. qui) in Burkina Faso. A Ouagadougou gli sfollati sono relativamente pochi, perché la maggior parte si ferma in città più vicine ai loro villaggi, che sono al confine col Mali e col Niger: il triangolo rosso del terrorismo.
Ultimamente, una tattica dei terroristi è quella di prendere di mira i punti di rifornimento dell’acqua: gli acquedotti, le fontane pubbliche, i bacini di contenimento che alimentano la distribuzione. A Djibo, nel mese di aprile, il più caldo dell’anno, c’è stata una disponibilità di acqua di 3 litri per abitante al giorno, contro un minimo – stabilito dall’ONU – di 15 litri. La popolazione si trova a rischio di disidratazione, oltre che di grave carenza igienica. È iniziata la stagione delle piogge e la situazione sta un poco migliorando, ma naturalmente il problema di fondo resta grave.
La situazione è così grave perché appunto i cambiamenti climatici la stanno rendendo tale, anche in assenza di guerre e di terrorismo. Con maggior successo, la strategia degli attentati può facilmente prendere di mira le poche risorse idriche – e non solo idriche -, quindi minacciare e ricattare.
L’altra piaga associata è la scarsità di cibo. L’anno scorso la pluviometria è stata inferiore alla media, specialmente nelle zone rurali dove si concentra la produzione degli alimenti di base come il mais, il miglio e il riso. L’abbandono delle terre conquistate dal terrorismo ha tolto ai coltivatori un raccolto già provato dai fattori ambientali.
Si teme quest’anno una grave carenza alimentare – per non dire una catastrofe – nel periodo intermedio tra la fine delle scorte dell’anno precedente e l’inizio del prodotto di quest’anno. A peggiorare ulteriormente le cose c’è la guerra dell’Ucraina, che ha fatto lievitare i prezzi mondiali dei cereali e dei trasporti – e anche questo, ricordiamolo bene, più per motivi speculativi finanziari che reali -, per cui, oltre a non poter contare sulla produzione interna, c’è una forte difficoltà nell’importazione.
La Chiesa non sta a guardare. La Caritas di Ouagadougou ha impegnato quasi il 70% della raccolta fondi annuale per fare scorte in previsione del picco di necessità che si prevede nei prossimi mesi. Nei giorni scorsi nella nostra missione, grazie a questi fondi abbiamo acquistato una tonnellata di riso da tenere in magazzino per sovvenire ai bisogni di urgenza di coloro che busseranno alla porta.
Non dimentichiamo che la carenza alimentare è frutto della politica e del mercato, per cui la gente, anziché coltivare mais o riso, ha preferito in questi anni coltivare cotone o anacardi per l’esportazione, a beneficio della lavorazione industriale occidentale. Questa è evidentemente una politica che non tiene conto dell’autosostentamento, di cui si pagano, a caro prezzo, le conseguenze.
Noi missionari proviamo a innescare meccanismi di cambiamento. Ad esempio abbiamo promosso dei corsi per l’irrigazione goccia a goccia che spreca meno acqua e costa meno lavoro. Ma bisogna ricordare che la prima povertà è quella culturale: la gente spesso segue il corso perché è sovvenzionato, magari inizia a provare l’irrigazione goccia a goccia, ma appena il controllo e il monitoraggio del progetto si allontanano, riprendono il vecchio sistema ad innaffiatoio, perché, per loro, ha sempre funzionato.
È vero, funzionava quando le precipitazioni erano più equilibrate e la popolazione era un quinto dell’attuale! Questo ragionamento è purtroppo elaborato per essere colto dalla maggioranza della gente senza un certo livello di istruzione.
Un problema apparentemente opposto, soprattutto in città, è rappresentato dalle inondazioni. A causa della crescita demografica i quartieri sorgono come funghi, abitati spontaneamente e non regolamentati, quindi senza infrastrutture.
Poiché la stagione secca dura dai 6 agli 8 mesi, un intero quartiere di baracche si può sviluppare senza sapere dove finirà l’acqua durante la stagione delle piogge: quando questa arriva, avvengono allagamenti e crolli di case a tutto spiano. Le costruzioni poste in maniera irrazionale cambiano il corso dell’acqua e le precipitazioni – sempre più rare ma anche più intense – si sfogano aprendo le proprie strade.
I mattoni di fango tengono più fresco, ma in città, a causa delle inondazioni di cui ho detto, rendono precaria l’abitazione, per cui la gente preferisce usare il cemento che è più sicuro e facile da lavorare. Ma così aumenta la cementificazione e l’impermeabilizzazione del suolo. E l’acqua scorre più velocemente. Il cemento poi viene da lontano, dall’estero, per cui si incrementano i consumi di carburante per il trasporto, con tutto ciò che questo comporta nel circolo vizioso.
C’è anche chi sta tentando di proporre soluzioni fatte con materiali locali, ma ci vuole studio, pazienza, dedizione, mentre i risultati non sono immediati. La gente poi pensa che queste siano soluzioni da poveri, mentre non fa che sognare di uscire dalla povertà. Per loro la casa in cemento è il simbolo della sicurezza economica, così come la moto rispetto alla bici o l’auto rispetto alla moto.
Un’altra osservazione riguarda la perdita di biodiversità. Certe piante stanno scomparendo o diradando a vista d’occhio, a causa dei cambiamenti climatici, dell’uso di pesticidi e di fitofarmaci mal dosati col miraggio dei facili guadagni: anche piante che fanno parte della medicina tradizionale e che effettivamente sono utili per la cura stanno scomparendo. Le conseguenze del cambiamento climatico sono davvero sotto i nostri occhi. Le soluzioni sono molto meno evidenti e difficili da applicare: è una grande sfida!
Vi parlo anche della paglia: c’è un tipo di paglia che si usa qui per fare le tettoie che tengono il fresco dentro l’abitazione, ma è sempre più difficile trovarla, a causa appunto del cambiamento climatico e dell’urbanizzazione. Così si ricorre ad altri materiali – di lamiera o di plastica – che non sono così confortevoli e non sono ambientalmente sostenibili, alimentando di nuovo il circolo vizioso.
Concludo riprendendo il mio pensiero. Dietro il problema del cambiamento climatico – come pure quello del terrorismo e della guerra – c’è una mentalità consumistica-estrattivista, una volontà di dominio che è ancora molto più forte di quel po’ di consapevolezza acquisita circa i danni che ne conseguono.
La nostra gente ne soffre enormemente, ma non è in grado di rendersi pienamente conto di ciò che è in gioco e di quanto sia necessario cambiare stile di vita: perciò sono ancora alla ricerca di soluzioni di sviluppo sul modello visto sino ad ora, le stesse che sono altresì la causa dei loro mali.