Continua l’onda lunga delle polemiche e delle prese di posizione sulla sentenza della Corte suprema degli USA in materia di interruzione della gravidanza, anche a causa della risoluzione non legislativa del Parlamento Europeo che chiede l’inserimento del «diritto di aborto» nella Carta dei diritti umani della Comunità.
Circa una settimana fa, sono intervenuto sulla questione in un editoriale ospitato dalla competenza e gentilezza del direttore del quotidiano Avvenire (qui). Tralasciando i commenti lusinghieri di colleghi e intellettuali, ho rilevato soprattutto alcune (direi scarse) arcigne contrapposizioni da parte di qualche critico, preoccupato più del diritto positivo che della posta in gioco. La mia riflessione era rivolta a quanti hanno cantato vittoria, non comprendendo «aspetti della questione, che devono comunque interpellare il legislatore laico» e quindi si trattava di una interpretazione prospettica e non eminentemente giuridica, ma teologico-politica, della tematica.
Il mio sottolineare il fatto, incontrovertibile, che la nostra legge 194/1978 non fonda la pratica dell’interruzione della gravidanza sul diritto all’aborto, bensì sul, vero o presunto, diritto alla salvaguardia della salute della donna e che tale intervento legislativo andava visto soprattutto, ma non solo (c’è un «almeno» nel mio testo sfuggito ai critici) come depenalizzazione, nel senso della non criminalizzazione della donna, onde evitarle il rischio del ricorso a pratiche clandestine, richiamavo, in quel contesto, la necessità di un dialogo/verifica circa non solo la legge, ma la sua applicazione concreta. Compito che spetterebbe ai laici impegnati nel sociale e nella politica e non ai pastori.
I diritti e la vita
Il nocciolo della mia tesi è semplice: l’aborto non può essere proclamato diritto, perché i diritti non possono riguardare la morte, ma unicamente la vita delle persone. Nel caso della legge italiana, si tratta di un’ultima sponda, in quanto la ratio della legge, a mio modesto e profano parere, non sta nell’affermazione del diritto all’aborto, ma nella tutela della vita e della salute della donna, in modo che non sia criminalizzata, né costretta alla clandestinità (questo intendo per «depenalizzazione»), correndo seri pericoli per la salute e la stessa vita. Come mostra Emma Bonino nella sua ricostruzione storica, la legge venne osteggiata proprio da chi riteneva doversi affermare il diritto all’aborto o l’aborto come diritto. Il referendum indetto dai radicali per abrogare la legge in vista di una sua riproposta in tal senso venne respinto con circa l’88% dei voti (cf qui).
Il senso della legge si evince a mio avviso dagli intenti presenti nell’articolo 1 che riguardano la salvaguardia della maternità responsabile e la tutela della vita, ma direi soprattutto dal decisivo passaggio nel quale si afferma la necessità di impegnarsi a rimuovere le cause che inducono la donna a scegliere l’interruzione della gravidanza. L’articolo 5, tanto saggio quanto disatteso, è emblematico circa il senso della legge. E questo è «diritto positivo». Se l’aborto fosse un diritto ossia un bene, perché cercare di rimuoverne le cause?
Una verifica della legge dovrebbe riguardare non solo il testo, che la gerarchia cattolica e la maggior parte dei militanti (associazioni, gruppi, movimenti…) a suo tempo hanno ostacolato, rilevando in essa uno scricchiolio non solo della cristianità, ma anche dei valori pure laici che da essa promanano. Certo, i credenti non demorderanno mai dall’affermare che l’uomo non è il Signore della vita e della morte. E nel dare valore pieno a ogni vita continueranno a trovare interlocutori e compagni di strada e d’impegno anche di altra cultura, come a suo tempo Norberto Bobbio (cf. qui). Questa la mia utopica speranza, supportata dalla ragione non solo dalla fede.
Alterità
Il tema in gioco, come in altre situazioni che interpellano l’antropologia, è quello dell’alterità. Chi ha paura dell’altro? L’affermazione del diritto all’aborto si sostiene sulla scelta della donna, che si ritiene padrona del suo corpo. Tuttavia, risulta evidente, alla scienza e alla ragione, che in quel corpo femminile c’è una presenza «altra», comunque essa vi si sia introdotta, che non consente a chi esercita la virtù dell’onestà intellettuale, di ritenere il feto un semplice prolungamento del corpo femminile. Tra l’altro nel nostro Codice di Diritto Civile è previsto che il concepito non ancora nato possa ereditare (cf. art. 462).
Nel caso della legislazione italiana, problematica e rivedibile, dopo che si siano percorse tutte le strade possibili per eliminare le cause dell’opzione a favore dell’interruzione, si offre alla donna un ulteriore periodo di riflessione per la scelta, che a questo punto è demandata alla sua coscienza, la quale, in caso decidesse per l’aborto, dovrà trovare un supporto medico che, nella propria coscienza, decida di assecondarla (tema dell’obiezione di coscienza). Qualora l’aborto fosse dichiarato diritto assoluto della donna, tale possibilità per il personale medico dovrebbe coerentemente essere esclusa. A detrimento di ogni autentico diritto. Poiché la 194/1978 concede tale possibilità, allora vuol dire che non afferma in assoluto il diritto all’aborto.
Lo spazio per la comunità credente, spero non solo cattolica, che rimane, a partire dal testo della legislazione italiana è duplice: da un lato, si tratta di formare le coscienze al senso della vita e all’accoglienza dell’alterità: nel grembo della donna c’è un a(A)ltro che invoca, come direbbe Emmanuel Levinas, il primo comandamento: «Tu non mi ucciderai!». Dall’altro il potenziamento di strutture, come i consultori, tendenti a rimuovere le cause sociali, economiche, familiari, affettive, personali che determinerebbero la decisione dell’interruzione.
L’iniquità del pronunciamento, nel quale non è difficile rilevare uno iato profondo fra il palazzo e la gente, che, almeno nei nostri ambienti, sente l’aborto non come un diritto, ma come un dramma, sta anche nell’espressa preoccupazione verso il possibile incremento del finanziamento di gruppi che si dedicano alla salvaguardia della vita umana, che invece come credenti dovremmo incoraggiare, perfino in ottemperanza della legge italiana.
D’accordissimo professore su quanto ha scritto, sul compito che spetterebbe ai laici e alla politica, così come sono fortemente convinta della necessità urgente di formare ad una coscienza della vita! Penso spesso a Papa Paolo VI e alla sua grande cura per la vita nel grembo materno. Ed è anche doveroso offrire strutture adeguate, capaci di farsi carico di molte donne sole e in serie difficoltà.