Ora è difficile spiegare agli italiani che cosa è successo e soprattutto perché. Da giorni si assisteva alla più vasta sollevazione dell’opinione pubblica registrata dal tempo della fine della Prima Repubblica. Sindaci, farmacisti, rettori, medici, associazioni cattoliche avevano espresso il loro appello al presidente del Consiglio, perché ritirasse le sue dimissioni, attraverso documenti firmati da migliaia di persone.
Tutte chiedevano che Draghi restasse al suo posto. Un attestato di stima senza precedenti, che però non ha trovato riscontro da parte di tre dei partiti della sua coalizione: 5Stelle, Lega e Forza Italia. Le motivazioni sono state solo apparentemente diverse. Conte ha parlato di continue umiliazioni subite dal suo movimento. Salvini e Berlusconi hanno detto che non intendevano più collaborare con i 5Stelle.
Davvero Draghi «si è cacciato da solo»?
In sostanza da entrambe le parti – a pochi mesi dalla scadenza elettorale – si voleva avere maggiore peso in un governo finora gestito in modo preponderante dall’ex presidente della BCE. A queste richieste Draghi ha risposto di no. Questo esecutivo si era costituito intorno alla sua persona. Erano la sua competenza e il suo prestigio che ne costituivano la forza. Un cedimento alle richieste dei suoi ex alleati lo avrebbe trasformato in uno di quei pasticci, frutto di un reciproco gioco di ricatti, a cui la partitocrazia ci ha abituati. Così se ne è andato.
È significativa l’interpretazione che di questa crisi hanno dato, all’indomani della seduta del Senato che l’ha decretata, i giornali di destra. «Draghi si è bruciato. Finalmente si vota», ha titolato La verità. E nel catenaccio: «L’ex banchiere sfida il Parlamento e viene respinto dal centrodestra: niente fiducia». «Dai che si vota», è stato il titolo di Libero. E sotto: «Il premier sposa il PD e il centrodestra lo scarica». «Draghi si affida al PD e si fa esplodere», titolava Il Giornale. Paradossalmente, in questa stessa linea si muove, sul fronte opposto, Il Fatto quotidiano: «Draghi si autoaffonda».
C’è un unico filo conduttore, dietro a questi titoli, ed è la preoccupazione di scaricare i rispettivi partiti di riferimento dall’accusa di essere responsabili di una crisi che gli italiani non volevano e che non si sa quali conseguenze potrebbe avere. Che Lega, Forza Italia e 5Stelle abbiano negato al governo il loro sostegno parlamentare, grazie a cui esso era nato ed era sopravvissuto per 516 giorni, non viene mai messo in primo piano, anzi è appena menzionato. Draghi «si è cacciato da solo», come ha poi detto Berlusconi.
Un fragile tentativo di mascherare la paradossale conclusione di una legislatura iniziata sull’onda del populismo e conclusa, dagli stessi partiti che l’avevano cavalcata, contraddicendo manifestamente, per i loro interessi, la volontà popolare.
Per rinfrescare la memoria…
Nei titoli citati viene salutato come un ripristino della democrazia il ritorno anticipato alle urne. Come se questo Parlamento ormai non fosse ormai adeguato alle esigenze del Paese. E in effetti in questa percezione c’è del vero. Non solo e non tanto perché la riforma costituzionale del 2020 ha modificato drasticamente il numero dei parlamentari, riducendolo da 630 a 400 deputati e da 315 a 200 senatori elettivi.
A questo motivo formale, di per sé non decisivo, se ne aggiunge uno sostanziale, che riguarda la qualità espressa in questi anni dai nostri rappresentanti, dopo le elezioni del marzo 2018, che videro il trionfo dei populisti. A cominciare dalla formazione del primo governo, a maggioranza 5Stelle-Lega, la cui composizione e il cui programma furono decisi a tavolino dai rispettivi leader, con un «contratto» privato (nel testo si parla dell’accordo tra due «signori», a sottolineare il definitivo rifiuto di ogni élite).
Nell’art. 92 della Costituzione si legge: «Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri». Nel 2018 è avvenuto il contrario. Furono Di Maio e Salvini a decidere che il premier sarebbe stato Giuseppe Conte, uno sconosciuto avvocato, fino ad allora estraneo alla politica militante, che era amico del leader dei 5Stelle (che pure aveva promesso, all’inizio, un «politico di altissimo profilo»…).
E che di fatto, nel suo primo governo, si guardò bene dall’interferire sulle decisioni dei suoi ministri. Quanto al programma, nella nostra storia costituzionale repubblicana esso è di solito approvato dal Consiglio dei Ministri subito dopo la formazione del nuovo Governo, per essere poi presentato dal Presidente del Consiglio al Parlamento, e venire così approvato dalle Camere.
Nel 2018, invece, tutto era già stato stabilito nel «contratto». In aula non ci fu bisogno di discutere nulla. A garantire la democrazia non era il voto del Parlamento, bensì la risposta dei fedelissimi all’appello di Salvini nelle piazze oppure il voto online sulla piattaforma Rousseau (Di Maio), nello stile che già il leader del Carroccio aveva inaugurato col suo fatidico appello preelettorale alla folla plaudente: «Giurate? Giurate?…».
«Per la prima volta nella storia», aveva detto Di Maio durante la contrattazione, «si porta avanti una trattativa che mette al centro i temi che rappresentano tutte le esigenze degli italiani e questo ci rende ancora più orgogliosi». Tutta la storia politica precedente era stata ignobilmente gestita da «politiconi» e «professoroni» che avevano pensato solo ai loro interessi…
Di fronte alle luminose figure di Di Maio e Salvini, sparivano uomini di Stato come De Gasperi, Dossetti, Moro, Scalfaro e tanti altri che avevano ricostruito l’Italia dalle macerie della guerra, gestendo un enorme consenso popolare (ben maggiore di quello dei 5stelle), pur restando poveri – De Gasperi, quando andò negli Stati Uniti, dovette farsi prestare un cappotto – e fedeli al loro impegno di servire il Paese…
Sulle ceneri del populismo
Oggi sappiamo come è andata a finire. I «signori» Di Maio e Salvini sono parte a pieno titolo della élite che avevano a gran voce contestato, limitandosi a sostituirne i precedenti componenti. Ma non è questa la cosa più grave. Il punto cruciale è che questa classe politica emergente ha fatto un clamoroso naufragio, di cui l’incapacità di concludere la legislatura è solo l’ultimo segnale.
Più grave è la storia politica di un Parlamento che ha visto il succedersi di clamorosi capovolgimenti di maggioranze e soprattutto una palese incapacità di esprimere una politica adeguata alle esigenze del Paese, tanto da richiedere una specie di «commissariamento» ad opera del ben più qualificato «tecnico» Draghi.
C’è da chiedersi, alla luce di questa precedente esperienza, se l’entusiasmo di coloro che oggi salutano il ritorno al voto popolare sia fondato. Senza metterne in dubbio la piena opportunità istituzionale, sono le prospettive politiche ad apparire inquietanti. Certo, la Meloni è contenta. Da tempo si agitava per arrivare a queste consultazioni, in cui i sondaggi la vedono favorita. È noto che la sua più grande aspirazione è di diventare la prima donna premier della storia della Repubblica.
Per questo obiettivo è stata molto disponibile ad ammorbidire molti punti cruciali del suo originario programma. Ma già questa tendenza a identificare il bene del Paese con il proprio successo personale non può non lasciare perplessi. Siamo sicuri che per l’Italia il cambio dal governo Draghi al governo Meloni sarebbe un passo avanti?
Crisi culturale profonda
Già a livello internazionale il prestigio della leader dei Fratelli d’Italia non è neppure lontanamente paragonabile a quello di cui gode l’ex presidente della BCE. Solo Putin si rallegrerà. Anche all’interno, peraltro, soprattutto per la gestione di una crisi economica resa acuta dalla guerra in Ucraina, dalla crescita dell’inflazione, dalle difficoltà di approvvigionamento energetico, la competenza e l’affidabilità dei due personaggi non è lontanamente paragonabile.
Ma forse più inquietante di queste incognite riguardanti il probabile vincitore delle prossime elezioni è il contesto culturale in cui esse si svolgono. Cosa è rimasto, sulle ceneri del populismo? Difficile dirlo. Lo stesso successo di Fratelli d’Italia nei sondaggi sembra esprimere più una delusione nei confronti degli altri partiti che una vera scelta ideologica di destra.
Quanto alla sinistra, da tempo, ormai, il PD, orfano del marxismo, si è sempre più appiattito sull’ideologia individualista liberale, tradendo le sue origini, che l’avevano visto nascere come frutto di un’alleanza tra socialisti e cattolici. Le sue grandi battaglie di questi anni non sono state combattute per evitare che più di cinque milioni di italiani si trovassero nella condizione di povertà assoluta (ultimo rapporto ISTAT), ma per l’introduzione dell’aborto, delle unioni omosessuali, del suicidio assistito.
La verità è che, su entrambi i fronti sembrano scarseggiare le idee. Sono sempre state, diceva qualcuno, «merce di contrabbando». Ma oggi scarseggiano anche i contrabbandieri. In questo vuoto, possiamo solo augurarci che l’imminente, rovente campagna elettorale che ci aspetta non impedisca, a chi ancora cerca di fare questo mestiere pericoloso, di continuare ad esercitarlo.
Pubblicato sul sito della Pastorale della cultura della diocesi di Palermo (www.tuttavia.eu), 22 luglio 2022.