Nella misericordia, la Verità

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Roberto Repole, docente di Ecclesiologia presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale (sezione di Torino), e presidente dell’Associazione teologica italiana (ATI) reagisce – dopo Andrea Grillo (qui) – alla riflessione di Ghislain Lafont, Misericordia e infallibilità.

L’intervento prezioso di un teologo sapiente come Ghislain Lafont merita indubbiamente tutta l’attenzione del caso e il confronto aperto.

Ritengo, anzitutto, che si debba raccogliere una delle provocazioni più importanti che questo suo scritto, come del resto molta della sua vasta e acuta produzione teologica, lancia al pensare teologico: una provocazione che, in altro modo, non solo Amoris laetitia ma probabilmente l’intero papato (si pensi all’anno della misericordia appena concluso) sta rilanciando per l’intera Chiesa. Si tratta, per così dire, dell’invito a domandarsi quale sia lo “statuto cristiano della Verità”.

La Verità cristiana

Non c’è dubbio che la Verità cristiana non possa essere confusa con le prospettive formali di un’adeguazione tra res et intellectus. Essa non è disgiungibile da Cristo, dal suo evento, dall’amore divino che in Lui si è rivolto a tutti gli uomini, nelle loro miserie, persino in quella miseria disumanizzante che è il peccato. Ritenere che la Chiesa debba annunciare una verità che non faccia i conti con il fatto che Cristo sia la Verità (cf. Gv 14,6) vorrebbe dire correre il rischio di “annacquare il Vangelo”. Ciò implica, tra il resto, che la Verità – in quanto è il Cristo per altri – non possa prescindere dalla relazione all’altro, come ha mostrato in modo apprezzabile Giuseppe Ruggieri nel saggio di alcuni anni fa, La verità crocifissa (G. Ruggieri, La verità crocifissa. Il pensiero cristiano di fronte all’alterità, Carocci, Roma 2007); e che abbia anche una dimensione escatologica, coinvolgendo tutti coloro per cui Cristo è venuto, come ha messo in luce in modo pregevole il teologo ortodosso Ioannis Zizioulas (si veda, in italiano, I. Zizioulas, L’essere ecclesiale, Qiqajon, Magnano [BI] 2007).

Forse una certa fatica a recepire l’invito che ininterrottamente papa Francesco sta rivolgendo, a non fare della misericordia un aspetto periferico del Vangelo che la Chiesa è chiamata ad annunciare, deriva da un’idea di verità che potrebbe non “aver fatto i conti” fino in fondo con il fatto che la Verità cristiana si sia rivelata e si sia manifestata in Cristo e, in modo sommo, nella sua Pasqua.

Un Magistero vivo

In questo orizzonte, è evidente che a essere impegnata a trasmettere la Verità evangelica sia l’intera Chiesa. Ciò non toglie che, al suo interno, esista un ministero legato a un sacramento specifico, quello dell’ordine che ha, tra l’altro, il compito di vigilare perché questa Verità venga custodita.

È evidente, tuttavia, che il modo in cui i pastori – i vescovi e il papa, in particolare – debbono sentirsi impegnati in questo loro compito all’interno del popolo di Dio, è quello dato dal confronto diretto e, dunque, plurale con le persone a cui si tratta di annunciare il Vangelo. Questo implica ovviamente, che un tale compito non possa essere svolto, normalmente, con asserti definitori o formulazioni dogmatiche; e spiega perché, ad esempio, il papa attuale privilegi l’omelia, come atto di comunicazione della fede, per il quale non sono indifferenti il volto e la vita concreti di coloro a cui si annuncia.

Chiaro, dunque, che il restringimento del Magistero alla sola dimensione definitoria ha rappresentato una contrazione del compito, ben più ampio e vitale, del servizio autorevole alla Parola cui sono chiamati i pastori. Esso si è probabilmente realizzato in concomitanza con una visione “idealista” della Verità, per la quale basterebbe preservare e comunicare delle “idee chiare e distinte”.

Le formulazioni dogmatiche

Ciò non può, tuttavia, avere il senso di una relativizzazione – nel senso qui di una vanificazione – delle formulazioni dogmatiche. Di esse ci si è serviti e ci si potrebbe servire, allorquando ci fosse il pericolo che proprio quella Verità che ha a che fare intrinsecamente con la misericordia rischia di venire compromessa, con grave danno per la Chiesa e il suo servizio di annuncio evangelico.

Nel farlo, è evidente che il papa o i vescovi insieme, cum Petro e sub Petro, non sono esenti dalla storia, dal contesto, dai linguaggi, dalla cultura, dagli errori che intendono controbattere… Per questo, ha indubbiamente ragione il padre Lafont, nel mettere in evidenza la necessità di una lettura ermeneutica dei documenti magisteriali. Non si può che concordare sul fatto che non avrebbe alcun senso ritenere di dover leggere la Scrittura sulla base dei risultati del metodo storico-critico e di un approccio ermeneutico, senza pensare di dover fare la stessa operazione (e a fortiori!) con i documenti magisteriali.

Ciò che mi premerebbe di evidenziare è che, quando si faccia un’operazione di questo tipo, si è portati a scoprire che le diverse formulazioni dogmatiche sono sempre volte, in realtà, a custodire il Mistero (sempre eccedente) della «Verità misericordiosa» apparsa in Cristo. Lungi dal rappresentare una logicizzazione del Vangelo, esse hanno fatto in modo che il Vangelo – nella sua eccedenza rispetto ad ogni operazione intellettualistica – potesse rimanere disponibile anche per altri.

Attingere l’acqua

Credo che valga la pena di riprendere, ancora oggi, l’immagine che tanti anni or sono usò padre Cantalamessa, quando disse che le formule dogmatiche sono come degli argini di un fiume che, in un dato contesto e al cospetto di determinate problematiche, vengono messi affinché l’acqua viva del Vangelo possa continuare a scorrere in avanti e non si arresti.

Per questo, non è sano pensare di riflettere, anche teologicamente, fermandosi alle formulazioni, senza andare sempre e incessantemente a quel Vangelo vivo che esse intendono servire: sarebbe come fermarsi agli argini, senza abbeverarsi all’acqua.

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