Emanuele Giordana è giornalista professionista e attivista dell’associazione «Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo». Nell’intervista concessa a SettimanaNews risponde ad alcune domande di Giordano Cavallari a proposito della situazione di guerra civile in Myanmar, dopo l’esecuzione di 4 oppositori del regime militare oggi al governo del Paese.
- Il 25 luglio è stata diffusa la notizia che 4 persone sono state giustiziate in Myanmar. Quale lettura dare di questo fatto, sicuramente grave?
Dalla fine degli anni Ottanta – ossia dalla precedente dittatura militare – non si erano registrate nuove esecuzioni capitali in Myanmar [Birmania sino al 1989]. Questa esecuzione per impiccagione di 4 oppositori dimostra quanto l’attuale regime si senta forte e in grado di sfidare la condanna che peraltro si è immediatamente levata da parte della comunità internazionale occidentale: da Amnesty International come dalle diplomazie occidentali. Ma i protagonisti politici birmani evidentemente non hanno timori internazionali e sanno di poter contare sulla totale impunità.
Ko Phyo Zeya Thaw era membro del partito di Aung San Suu Kyi. «Ko Jimmj» era un attivista molto noto. Gli altri due giustiziati erano Hla Myo Aung e Aung Thura Zaw. Tutti sono stati definiti terroristi al termine di un processo che è stato definito da Human Rights Watch chiaramente e unicamente politico.
Si sperava in qualche segnale positivo del regime: ad esempio, la liberazione di qualche prigioniero tra i 14.000 rinchiusi nelle carceri per ragioni politiche. È arrivato invece un segnale del tutto opposto. È un gran brutto segnale che converge su altri: Aung San Suu Kyi – leader di governo sino al colpo di stato del febbraio dell’anno scorso – è stata trasferita, dagli arresti domiciliari, alla prigione e ora rischia l’ergastolo.
- Il Paese è sottoposto a sanzioni, anche per indurre il rispetto dei diritti umani: dunque, le sanzioni non funzionano?
Funzionano e non funzionano, come vediamo anche da altre parti. Il dossier Myanmar non è – certamente in questo momento – all’ordine del giorno mondiale, anche se vi si sta consumando una guerra civile che, dall’anno scorso a quest’anno, ha fatto almeno 2.000 morti.
- Puoi ricostruire in breve la storia più recente del Myanmar?
Il governo civile di Aung San Suu Kyi è durato un’intera legislatura, ma non è riuscito a fare molto, anche nel verso dei diritti umani e della democrazia, in quanto obbligato di fatto alla continua mediazione coi militari. I militari costituiscono infatti una forza economica primaria in Myanmar: tutte le attività economiche, anche se non apparentemente, fanno capo a loro. Questo sistema non è stato in pratica scalfito dal governo di Aung San Suu Kyi.
Va detto che il sistema parlamentare birmano è bloccato, nel senso che il 25% dei seggi è riservato ai militari; per cambiare la costituzione e fare riforme importanti serve più del 75% dei seggi. Tutte le riforme sostanziali sono state perciò bloccate dai militari in questi anni.
Con le elezioni politiche del 2020, la Lega per la democrazia – il partito di Aung San Suu Kyi – ha conquistato più seggi di quanti ne avesse in precedenza. Ciò ha eroso gli ulteriori consensi di cui i militari godevano in Parlamento. Altri parlamentari avrebbero potuto passare alla Lega per la democrazia. Si sarebbe reso possibile un passaggio istituzionale importante che avrebbe potuto azzerare il partito dei militari.
Consideriamo poi che i militari stavano perdendo, come si dice, la faccia: cosa che nella cultura politica asiatica non è di poco conto. Ci voleva una via d’uscita. Quella proposta dai militari è stata di nominare il presidente Capo di Stato, benché fosse diritto del partito vincente nominare questi, insieme al premier: al rifiuto del partito di Aung San Suu Kyi, la risposta dei militari è stata il colpo di stato, sostenendo che le elezioni erano invalide. Si sono così ripresi tutto il potere.
- La società birmana come ha reagito?
È accaduto qualcosa di insolito, almeno per la società birmana: è sorta una resistenza, inizialmente pacifica, molto estesa, immediata repressa nel sangue. Nel mentre, i parlamentari regolarmente eletti in un Parlamento che evidentemente non c’è, hanno allestito un governo clandestino in grado di coordinare la protesta che si è così trasformata in resistenza popolare armata.
Il tentativo di questo governo anomalo è stato di legare alla causa gli eserciti delle autonomie regionali che in Myanmar sussistono – specie nelle regioni confinanti con Thailandia e Cina – in opposizione all’esercito nazionale. La saldatura non è tuttavia ben riuscita. Il risultato sono gli scontri in atto, sia tra eserciti, sia tra l’esercito e i manipoli armati civili, con l’effetto di bombardamenti e combattimenti che non risparmiano nessuno e nulla, compresi i templi buddisti e le chiese cattoliche. Non si contano, come dicevo, gli arresti indiscriminati, oltre ai morti.
- Quali sono le interferenze geopolitiche sul Myanmar?
Sono noti gli interessi della Cina, principale Paese confinante. Basta guardare la carta geografica. La Cina sta investendo molto in Myanmar per la costruzione di un porto nell’area occidentale del Paese: questo porto consentirà alle rotte cinesi un accesso molto più semplice e breve al Mare delle Andamane, rispetto al passaggio attraverso lo stretto di Malacca. L’obiettivo non nascosto della Cina è di collegare diversi Paesi asiatici sulla via della seta, in questo caso marittima. Il Myanmar è uno dei Paesi della via. Sono perciò evidenti le ragioni per le quali la Cina ha bloccato le risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’ONU di condanna dell’attuale regime in Myanmar. Stessa cosa ha fatto la Russia. Devo dire che la Cina lo ha fatto in maniera apparentemente più distaccata, la Russia in maniera più diretta.
Faccio un esempio, per me eloquente: alla più recente parata nazionale in Myanmar, la Cina non ha mandato i propri ministri in vetrina, la Russia sì. Per la Russia appoggiare l’attuale giunta militare significa ritornare presente anche in Asia e in maniera significativa.
L’Occidente è obiettivamente ben poco presente: gli Stati Uniti vi hanno sostanzialmente rinunciato. Ci sono poi da considerare i rapporti con i Paesi del Sud-Est asiatico, peraltro legati da un patto politico-economico di sviluppo. Alcuni hanno tentato una timida mediazione – fallita – della crisi. La maggior parte – come di solito in Asia – ha tenuto e tiene una posizione aperta a tutte le possibilità, limitandosi a invitare alle proprie manifestazioni personaggi birmani di secondo piano, piuttosto dei militari di primo piano. Laos, Vietnam e Cambogia non hanno peraltro granché da insegnare in fatto di democrazia al Myanmar; Indonesia, Malaysia e Singapore sono quelli in grado di dire qualcosa di più.
- Ci puoi chiarire la questione della minoranza Rohingya, per la quale gravano accuse anche sul governo di Aung San Suu Kyi?
È una minoranza discriminata e vessata: un tempo riconosciuta, è stata esclusa dalle 135 nazionalità citate dalla costituzione birmana. La discriminazione perdura da molti anni, per cui da molti anni esiste una diaspora Rohingya nei Paesi vicini, soprattutto in Bangladesh.
Ma certamente nel 2017 – quando al governo era Aung San Suu Kyi – ha avuto luogo una vera e propria campagna persecutoria che ha portato alla quasi completa espulsione dei Rohingya dal Myanmar. Ancora una volta la responsabilità principale va attribuita ai militari birmani, ma con l’avallo del governo.
I Rohingya sono musulmani sunniti. La maggioranza birmana è naturalmente buddista. Facile pensare a motivi religiosi. Alcuni gruppi nazionalisti sono, purtroppo, buddisti. Ma io penso che il movimento di espulsione dei Rohingya sia fondamentalmente determinato da ragioni economico-politiche. L’espulsione serve a fagocitare le loro terre, che si trovano nell’area occidentale: proprio quella in cui la Cina sta costruendo il suo porto.
La questione Rohingya ha effettivamente gettato ombre sul governo di Aung San Suu Kyi, ma anche questa vicenda è da leggere nel quadro più ampio e complesso di cui ho un poco detto. Ora il governo clandestino, animato dal partito di Aung San Suu Kyi, ha riconosciuto ai Rohingya il diritto di nazionalità, promettendo che – una volta tornato al potere – farà tornare tutti i Rohingya dal Bangladesh. Questa promessa per il momento è, naturalmente, inverificabile.
Il fatto nuovo è che nei giorni scorsi il Tribunale Internazionale di giustizia dell’ONU, su istanza, stranamente, del Ghana, ha riconosciuto la processabilità dei militari birmani con l’accusa di genocidio nei confronti dei Rohingya. Questa corte di giustizia internazionale ha evidentemente preso la sua decisione nell’attuale contesto, raccogliendo tutti i segnali negativi a cui ho accennato su questo regime militare.
- Quanto è presente la questione Rohingya nell’agenda occidentale?
In occidente se ne è parlato, ma si è anche rapidamente dimenticato. Le sanzioni occidentali sono state applicate al Myanmar anche e soprattutto per questa ragione. In realtà, sappiamo che le sanzioni possono essere aggirate e vengono effettivamente aggirate dalle aziende private o semi-private attraverso mediazioni e triangolazioni. L’isolamento in cui l’occidente vorrebbe rinchiudere la giunta militare birmana è quindi piuttosto chimerico. Come ho detto, nel mentre, Cina, Russia e altri Paesi continuano a fare affari col Myanmar: la vicenda dell’esecuzione capitale dei 4 oppositori dimostra come, appunto, la giunta militare si senta ora, internazionalmente, al sicuro.