Professore al PIB di Roma e ricercato conferenziere, il settantaseienne esegeta belga Jean-Louis Ska, ha speso la sua vita accademica nell’insegnamento di Esegesi dell’AT. Fra altri numerosi testi, è autore di un’introduzione all’AT in due volumi (2017 e 2018) e di un’introduzione all’ermeneutica biblica (2017), opere entrambe pubblicate dalle EDB di Bologna.
Una polifonia sulla liberazione
Il libro dell’Esodo è affascinante per la sua tematica. Fondamentale per lo statuto storico e teologico del popolo di Israele, è un testo di immensa importanza per la fede cristiana e potenzialmente capace di suscitare attualizzazioni di tipo liturgico, teologico, sociale e politico.
Ska descrive dapprima le realtà fondamentali da conoscere per leggere il libro dell’Esodo. Il testo non intende informare (dati storici, culturali, geografici ecc.) ma formare alla fede. Le fonti del libro sono diverse e il testo mostra la presenza di tradizioni differenti per interessi, linguaggio ecc. Alla linea deuteronomistica si intreccia quella sacerdotale.
Nel secondo capitolo, Ska riassume il contenuto di Esodo, che parte dalle rive del Nilo per giungere al popolo liberato accampato al monte Sinai, pronto per partire verso la Terra promessa (viaggio raccontato nel libro dei Numeri). Si narra della vita di Mosè, delle famose “piaghe”, del passaggio del mar Rosso, delle prove nel deserto, della teofania al monte Sinai con il dono della Torah, del peccato del vitello d’oro e della riconferma dell’alleanza celebrata poco prima.
L’inserzione posteriore del Decalogo è posta all’inizio di una serie di leggi che intendono strutturare la vita di libertà del popolo scampato dalla schiavitù per entrare nel servizio di YHWH. In ebraico i due termini coincidono. YHWH sta in mezzo al popolo e il libro si conclude con la descrizione minuziosa della costruzione del santuario mobile dove scende e da dove sale la Gloria di YHWH.
Il filo conduttore del libro è quello di rispondere alla domanda su chi sia il Signore d’Israele. Il faraone oppure YHWH? Non ci possono essere dubbi, e il libro nostra come la signoria di YHWH si estenda anche sui potenti della terra e sull’universo intero, natura compresa.
Il libro dell’Esodo non è un canto piano, ma una cantata a più voci. Ska fornisce esempi di testi compositi e mostra quale sia lo stile dei racconti popolari (ad es. l’incontro della figlia del faraone con la sorella di Mosè salvato dalle acque) e quello dello scrittore sacerdotale. Più che un singolo autore, questa scuola sacerdotale rilesse nel periodo postesilico tutta la storia di Israele a partire dalla creazione fino alle rive del Giordano, per ridare speranza al suo popolo e convincerlo che Dio gli riserva un futuro nella sua terra.
Il testo di Es 6,2-8 mostra lo stile dello scrittore sacerdotale, con un’attenzione al fatto che YHWH è Dio di Israele in quanto verrà riconosciuto tale nel momento della liberazione e del servizio liturgico al Sinai. Esso è attento al linguaggio liturgico e giuridico. YHWH entra in alleanza con Israele quale sua sposa. La storia dell’esodo è saldamente agganciata a quella di Genesi tramite la duplice ripetizione dei nomi dei patriarchi.
Lo stile dei racconti popolari fa invece comparire i personaggi quando sono attivi, per poi non seguirli più una volta concluso il loro ruolo. Si è attenti alle azioni e non viene rivelato nulla sulle intenzioni e sui sentimenti dei personaggi (eccezione fatta per la figlia del faraone). Lo stile è conciso e sintetico, privo di dettagli, ellittico. Lo stile polifonico di Esodo canta in ogni caso l’evento fondamentale dell’esperienza storica e teologica di Israele: la liberazione dalla schiavitù e la prima conquista della libertà.
Il mondo delle leggi
Nel c. IV Ska analizza il mondo delle leggi e del loro stile. Ci sono quelle apodittiche che enunciano principi molto semplici senza descrivere le circostanze. Quelle casuistiche le prevedono, adattando al reato la pena commisurata. Le leggi prive di sanzioni sono esortazioni a comportarsi bene, più che vere e proprie leggi. Varie volte la giustificazione della legge è di ordine teologico: “Perché io sono pietoso” (cf. Es 22,25-27). Le leggi cultuali (cf. Es 25–31 e 35–40) – molto fastidiose per il lettore moderno, ammette Ska –, insistono sulla conformità tra gli ordini divini e l’esecuzione di questi da parte di Mosè e degli artigiani che lo assistono.
Il santuario e il culto non sono un progetto umano, ma un’istituzione di origine divina. Si mostra che il culto autentico di Israele è quello istituito durante l’esodo, ai piedi del monte Sinai; tale culto si rifà a Mosè in persona; Mosè si è conformato in tutto a quello che Dio gli ha ordinato. Così si spiegano le ripetizioni fra i cc. 25–31 e 35–40.
Il diritto di Israele è un diritto più vicino e più umano di quanto sembri. Esso «si occupa prima di tutto dell’educazione di un popolo, perché cerca di convincere piuttosto che di costringere, ed è questo il motivo per cui contiene così poche sanzioni» (p. 44). “Dio si trova nei dettagli”, afferma un proverbio tedesco. I capitoli sul culto mostrano quanto il popolo di Israele abbia preso sul serio il servizio al suo Signore, fin nei minimi dettagli.
Il corpo centrale dell’opera di Ska è dedicato all’analisi sintetica di nove temi che innervano il libro dell’Esodo.
Nove tematiche fondamentali
Il primo tema è costituito dalla domanda su chi sia il Signore. Esodo tratta della sovranità di YHWH sul suo popolo. Per farla affermare, egli deve vincere due avversari: il faraone e il vitello d’oro.
Esodo mostra come il Dio di Israele si rivela al suo popolo. Il faraone afferma di non conoscere il Signore e tratta con durezza gli ebrei. Per le leggi bibliche, la libertà di un individuo è sacra. Quindi, quando Israele invoca YHWH, questi vede, conosce, ascolta e scende a liberare, in quanto alleato col suo popolo (cf. Es 3,7-8).
YHWH invia Mosè dal faraone affermando che il suo nome è “Io sono colui che sarò” (così Ska con la TOB). Dio collega il suo nome alla liberazione di Israele e al successo della missione di Mosè. Dio vuole liberare il suo popolo dalla schiavitù e far cambiare politica al faraone.
Dopo una prima missione infruttuosa, seguiranno la serie delle “piaghe” e poi la partenza di Israele.
Le “piaghe” sono “segni e prodigi” (alcuni forse dovuti a cause naturali), avvertimenti dati al faraone, che non ne tiene conto e che, per questo, andrà incontro al giudizio finale ineluttabile (morte dei primogeniti).
Sono due fasi ben distinte (cf. Es 7,3-4). In Es 15,18 si canta: «il Signore regna in eterno e per sempre». Dio ha liberato il suo popolo e ha vinto il faraone, lo ha convinto della sua sovranità sulla natura e sulla creazione, «dimostrando che neppure un faraone può contravvenire impunemente alle più elementari regole della giustizia» (p. 52).
Il secondo tema studiato è quello dell’indurimento del cuore e delle piaghe d’Egitto. In un mondo teocentrico, Esodo non è preoccupato tanto della libertà e della responsabilità del faraone, ma di dimostrare che il potere di YHWH si estende anche sull’Egitto. Il faraone non può decidere nulla senza che Dio ne sia al corrente e non controlli le sue decisioni. Esse sono le conseguenze delle decisioni divine. Il faraone reagisce, l’iniziativa non è mai sua.
“Indurire il cuore” significa, in questo contesto, “obbligare a reagire”, “costringere a rispondere”, “provocare”, “suscitare una risposta”, anche se è una riposta negativa. La parola di Dio è efficace, sempre, e il potere del faraone non è assoluto ma limitato, perché non può comandare alla natura e non ha quindi il diritto di privare il popolo di Israele della sua libertà.
Ska analizza brevemente la costruzione del racconto delle piaghe, individuandone un raggruppamento di nove divise in tre gruppi, con una certa progressione. A questa segue l’ultima, la decima. Vien fatto capire che il faraone aveva ricevuto tutti gli avvertimenti che voleva. Il tema dell’indurimento del cuore resta un tema difficile. Alla luce della mentalità biblica si comprende che il problema principale «è sapere se il Dio di Israele può farsi capire dal sovrano più potente dell’epoca e se questi può agire in completa autonomia, senza curarsi minimamente del Dio di Israele e delle sue esigenze: “Per questo ti ho lasciato sussistere, per dimostrarti la mia potenza e per divulgare il mio nome in tutta la terra” (Es 9,16). Nulla sfugge alla potenza e all’influenza del Dio di Israele» (p. 59).
Alcuni tratti particolari del racconto delle piaghe fanno capire che esse hanno una logica e una coesione che si limita ad ogni singolo racconto. «Il messaggio si trova nella musica e non nelle singole note della melodia», annota lo studioso (p. 60).
Il terzo tema esaminato è il racconto del roveto ardente e la sorgente dalla roccia, il rapporto quindi tra Dio e Mosè. Dio è il protagonista dell’insieme, ma Mosè è il regista dell’esodo. Non ci sarebbe un esodo senza la scena del roveto ardente e senza l’intercessione di Mosè che ottiene anche la teofania di Es 33 e 34.
Es 3,1–4,18 narra la vocazione di Mosè con le sue cinque obiezioni. Non si narra quindi la vita di un santo, ma il fatto che Mosè si è guadagnato quel ruolo non per sua volontà. L’esodo è opera di Dio, ma il suo unico strumento è Mosè. Dio rivela in parte la sua identità a Mosè quale Dio dei patriarchi, Dio della storia, Dio legato alla liberazione del suo popolo.
Es 32–34 fanno capire che Israele riceve una legge da YHWH, una serie di istruzioni e uno stile di vita. La parola di Dio sarà il vero cibo del popolo. I governanti di Israele non potranno non tener conto della Legge di Mosè. YHWH è il dio dei Patriarchi, il dio delle promesse fatte agli antichi. La storia ha una continuità, pur con punti di cesura.
La teofania di Es 33 completa quella del roveto ardente. Dio si farà vedere solo di spalle, perché «Vedere Dio è seguire Dio» (Gregorio di Nissa). Dio è sul cammino, precede Mosè e il popolo ed è camminando dietro di lui sulla strada tracciata da Dio che è possibile “vederlo di spalle”. La contemplazione di Dio non si può separare dalla marcia sulle piste del deserto.
Il Dio che passa avanti e precede è un Dio che perdona (Es 34,6-7). Si può vedere Dio solo seguendolo sulla via, sapendo che il perdono è una parte costitutiva della relazione stabilita tra Dio e il suo popolo.
Il Nuovo Testamento ricorderà che il Dio della misericordia e del perdono, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà è il Dio che ha inviato il suo Figlio nel mondo non per condannare il mondo ma per salvarlo per mezzo di lui.
Il quarto tema analizzato verte sul miracolo del mare (Es 14,1-31), argomento che ha costituito il tema della tesi di dottorato di Ska. Tre sono le tappe del racconto. Es14,1-14 si svolge nel palazzo del faraone (discorso divino a Mosè, inseguimento, reazione spaventata degli israeliti).
Es 14,15-25 narra il secondo discorso divino a Mosè con l’ordine di stendere la mano sul mare per separare le acque e invita gli israeliti a entrare nel mare. Gli israeliti eseguono e gli egiziani si precipitano nello stesso passaggio ma sul far del mattino fuggono.
Es 14,26-31 è la conclusione dell’episodio con l’arrivo del popolo sull’altra riva del mare, il comando dato a Mosè di stendere la mano sui flutti affinché il mare ricopra l’esercito degli egiziani ancora in mezzo al mare. Essi muoiono tutti annegati. Il brano termina con la professione di fede degli israeliti nell’opera di Dio a loro favore.
Ska si domanda se il mare si sia aperto o sia stato prosciugato, a seconda delle tradizioni letterarie soggiacenti. La versione del vento è quella più naturale, mentre l’altra ha un carattere miracoloso, ispirato forse dal passaggio del Giordano (Gs 3,16; cf. 4,22-23). Le due versioni concordano sul fatto che Dio ha potere sulla creazione e che il potere del faraone è limitato, e non può vincere contro le forze della natura. «“L’Egiziano è un uomo e non un dio, i suoi cavalli sono carne e non spirito” (Is 31,3). Ed è esattamente quello che si voleva dimostrare» (p. 77).
Un tema che ricorre nel testo è anche quello della “paura/timore” (Es 14,10.13.31). Il popolo ha paura ma, alla fine, «temette il Signore e credette in lui e nel suo servo Mosè» (14,31).
Es 14 descrive in definitiva «un’esperienza di fede. Mostra in che modo il popolo di Israele arrivi a liberarsi dalla schiavitù liberandosi dalla paura dei suoi oppressori egiziani e osservando la potenza del Dio creatore, molto più potente di tutti i faraoni d’Egitto e dei loro eserciti. Mostra che è un cammino di risurrezione, attraversando il mare, la notte, da ovest a est, passando dalla riva della morte e della schiavitù per scoprire la riva della libertà al levare del giorno» (pp. 78-79).
Il quinto tema preso in esame si sofferma sugli episodi della manna e delle quaglie, del pane e della carne, con la domanda cruciale fatta dal popolo: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?» (cf. Es 17,7).
Aiutandosi con versetti di Salmi e del Deuteronomio, Ska sottolinea il fatto che Dio è capace di nutrire il suo popolo nel deserto, con un’accentuazione della legge dello shabbat. Il racconto ha lo scopo di mostrare in che modo Israele “scopre” lo shabbat nel deserto. Certe leggi importanti prima sono scoperte e sperimentate e poi decretate. L’esperienza precede la legislazione.
Sal 114,8 parla di un «Dio che muta la rupe in un lago, la roccia in sorgenti d’acqua». Ska sottolinea come l’esperienza di Mosè circa la vita nel deserto possa aver contribuito a trovare l’acqua in luoghi opportuni.
Nel deserto si trova anche il nemico da sconfiggere, Amalek, che sarà ricordato in molti testi biblici. In Es 17,14 si comanda a Mosè di mettere per iscritto l’evento della battaglia e della vittoria. È una delle prime allusioni alla scrittura nell’Antico Testamento.
Interessante il fatto che Ska interpreti il gesto delle mani alzate di Mosè (cf. Es 17,11-12) non come espressione di preghiera – non c’è alcuna invocazione – ma come un gesto di autorità. Il verbo usato in Es 17,11 si trova in contesti dove si vuole soprattutto affermare il proprio potere e la propria libertà (Es 14,8, Nm 33,3; Is 26,11; Sal 89,14; cf. Nm 15,30 dove agire “a mano alzata” significa “agire con deliberazione”).
La costruzione dell’altare sigilla l’evento vittorioso più come un fatto religioso che come frutto di strategia militare.
Nm 1–3 (cf. 9–10) narra altre peripezie del soggiorno di Israele nel deserto. L’intento non è quello di fornire un rendiconto rigoroso e dettagliato degli eventi, quanto quello di inscrivere nella memoria di un popolo una serie di lezioni sulla base del passato (cf. 1Cor 10,6). I racconti hanno un carattere paradigmatico e rispondono alle domande: chi può fornire acqua nel deserto? Chi può dare la vittoria al popolo di Israele? In che modo agire in caso di necessità? A chi rivolgersi in tali circostanze?
La tenda di Dio e la sua Legge
Il sesto tema approfondisce l’affermazione di YHWH di voler piantare la sua tenda in mezzo agli israeliti (cf. Es 29,45). Lo studioso ricorda la scelta di Gerusalemme come luogo dove YHWH fa risiedere il suo nome nel tempio (2Cr 6,6). Questa è una certezza cantata in tutto il Salterio (cf. Sal 27,4-5; 18,6-7; Sal 42,2-3 ecc.). Il Signore ascolta quanti si rivolgono a questo luogo – così giustamente Ska che traduce letteralmente, e non tanto in questo luogo, CEI 2008 –, è la sicurezza che anima la preghiera di Salomone. Se il nome di YHWH abita nel tempio di Gerusalemme, secondo Ez 11,16 YHWH accompagna il suo popolo anche in esilio: «Nelle terre dove sono andati sarò per loro per poco tempo un santuario». YHWH non è solo una “divinità locale” legata a un tempio. Secondo Ezechiele, Dio può spostarsi (cf. i capitoli sul carro del Signore e sulla Gloria che si sposta verso l’esilio e poi torna in Gerusalemme). A Davide, che gli vuole costruire un tempio, YHWH ricorda: «Sono andato vagando sotto una tenda» (2Sam 7,6).
Il settimo tema si concentra sulla legge, se sia prescrittiva o descrittiva. Ska si riallaccia a quanto accennato in precedenza e afferma che la legge dell’AT è per lo più descrittiva che prescrittiva. Essa trova la sua pienezza e la stessa coerenza nel NT. I codici dell’AT non sono esaustivi o sistematici e non corrispondono alle sentenze emesse dei giudici.
Lo scopo delle leggi è per Ska teologico, mostrare cioè che una vera nazione vive seguendo le proprie leggi e non quelle di un’altra nazione. «Israele è una nazione, una vera nazione e questo fin dal primo inizio della sua esistenza, perché possiede leggi proprie che risalgono al suo soggiorno nel deserto, al monte Sinai» (p. 100).
Possedere delle leggi, e delle leggi molto antiche, era una priorità per l’Israele antico, che aveva bisogno di provarlo a se stesso e alle altre nazioni (cf. Dt 4,8). L’esempio concreto della legge sul mantello del debitore (cf. Es 22,25-26) mostra il taglio pedagogico della legge, più che quello giuridico.
Le leggi dell’AT sono impregnate di grande sensibilità umana. Ci si rivolge alla coscienza delle persone, ci si rifà all’usanza e al costume e l’insieme mostra come si voglia educare alla giustizia e alla solidarietà, inculcando a ogni membro del popolo i valori fondamentali di una vita in società.
Siamo nel mondo della sapienza, più che in un palazzo di giustizia. Molte leggi sono simili a consigli sapienziali (cf. Sir 4,1-6) e Mt 5,25 si pone sulla linea dell’AT quando invita a mettersi d’accordo con l’avversario prima di giungere in tribunale.
Le leggi dell’AT mostrano un mondo più privato che pubblico, dove vigeva il diritto consuetudinario che costituiva la base concreta della giustizia e serviva a reprimere i delitti o a risolvere i conflitti. Il Codice dell’alleanza parla di problemi di agricoltori e di allevatori, mentre è completamente assente l’ambito del commercio. Le leggi sono il riflesso della pratica, e della pratica di piccoli gruppi che cercavano di amministrare la giustizia sul posto, prima di ricorrere alla giustizia ufficiale che dipendeva dal re.
Le leggi forniscono indicazioni, casi concreti risolti in passato e informazioni utili per la risoluzione di casi simili. «È quindi chiarissimo che il diritto biblico è più descrittivo che prescrittivo, in quanto presenta dei casi concreti che servono da paradigmi per la giurisprudenza» (p. 105).
La teofania di Dio e il popolo sacerdotale
L’ottavo tema è costituito dalla teofania del Sinai (Es 19–20). Ne 9,13 ricorda: «Sei sceso sul monte Sinai e hai parlato con loro dal cielo». La teofania è presentata tramite elementi propri di un temporale di montagna molto impressionante (suoni/tuoni, lampi, nube densa, fumo, tremore ecc.). Non si rimanda a un’eruzione, in quanto si afferma che Dio scende nel fuoco (Es 19,18). La descrizione del temporale è stata spesso collegata alla manifestazione di Dio (Sal 18,8-15; 68,8; 77,18-19; 97,3-5).
La teofania del Sinai utilizza l’immaginario biblico e orientale legato alla manifestazione della divinità nel temporale per introdurre l’idea di un Dio la cui “voce” – stesso termine usato per “tuono” in ebraico – comunica le sue volontà al suo popolo. YHWH non dimostra solo la sua potenza come il Baal di Ugarit (mondo naturale) ma rivela la sua volontà (mondo culturale), parlando con Mosè e poi con il suo popolo.
La teofania del Sinai è un testo rimaneggiato varie volte. La teofania sigilla con la sua autorità tutta la legislazione fondamentale di Israele. Il testo è stato rielaborato, in particolare per introdurvi il Decalogo, che, in origine, non faceva parte di questa pericope.
Gli scribi hanno avuto la tendenza a far combaciare i racconti dell’Esodo con la versione che ne dà il Deuteronomio. Il Pentateuco samaritano accentua questa tendenza.
Gli scribi suppongono che, nel Deuteronomio, Mosè abbia riportato esattamente quello che è avvenuto nei quarant’anni trascorsi nel deserto. La legislazione di Israele è introdotta dal Decalogo. Va ricordato che il Decalogo viene comunicato direttamente al popolo da Dio stesso. In Israele il diritto ha quindi un fondamento divino e non umano/regale, anche se passa attraverso la mediazione di Mosè. «Giustizia e diritto sono la base del tuo trono», ricordano Sal 89,15 e Sal 97,2 in riferimento a YHWH. Con ciò si sottrae il diritto all’istituzione fondamentale nel Vicino Oriente antico, quella della monarchia.
Il Decalogo, con i suoi imperativi, è inoltre preceduto dal ricordo dell’evento storico della liberazione dalla schiavitù dell’Egitto attuata da YHWH (Es 20,2). L’autorità di YHWH sul suo popolo deriva da questa azione salvifica che diventa la pietra angolare dell’esistenza di Israele. «L’esperienza dell’esodo, della libertà, precede tutti i precetti della Legge e senza di essa le esigenze della Legge perdono il loro senso» (p. 113).
Il Decalogo ricorda inoltre che l’esistenza di Israele dipende non da un’istituzione come la monarchia o il culto del tempio o ancora meno da alleanze con altre potenze, oppure dal sostegno di un forte esercito. L’esistenza di Israele dipende innanzitutto da una legge di origine divina e non umana. Per questo le esigenze di Dio precedono i comandamenti sociali. Il vero garante del diritto in Israele è Dio in persona.
Il Decalogo protegge molti valori umani, fondati però sull’assoluto: il diritto allo shabbat, il rispetto dei genitori, la sacralità della vita e della libertà della persona, la sacralità del matrimonio, il rispetto di tutto quello che riguarda la dignità della persona e le condizioni di una vita decente. Secondo Ska, il comando “Non ruberai” va meglio tradotto con “Non commettere sequestri”, non impadronirti cioè di una persona per venderla come schiava.
La teofania del Sinai – in conclusione – «getta le fondamenta dell’esistenza di Israele. Queste fondamenta sono il diritto e la giustizia e sono poste da Dio stesso. Ci troviamo allora nel mondo dell’assoluto e non del relativo. La teofania del Sinai, che serve da quadro a questa proclamazione, descrive, come di tradizione, un temporale che consente a Dio di far udire la sua voce e di proclamare le sue “parole”, le sue volontà, al suo popolo» (p. 115).
L’alleanza
L’ultimo tema affrontato è quello dell’alleanza. La pericope esaminata è quella di Es 24,1-11, con due racconti incastrati. I vv. 1-2 e 9-11 narrano dell’ascensione al Sinai di Mosè, Aronne e i suoi due figli e settanta anziani. Essi consumano un pasto alla presenza di YHWH, senza morire. È una scena di investitura di due istituzioni fondamentali dell’Israele antico: il sacerdozio di Aronne e i cosiddetti “anziani”.
“Vedere Dio” qui significa far parte della corte celeste. Un vero profeta è qualcuno che può “vedere Dio”, apparire alla sua presenza e assistere al consiglio divino. San Paolo menziona coloro ai quali è apparso Cristo risorto (cf. 1Cor 15,3-8). Il pasto ha la stessa funzione, quella cioè di poter partecipare alla cerchia degli intimi (di un re, di Dio ecc.).
Es 24,1-2.9-11 mostra quindi una scena di investitura, il momento solenne nel quale i grandi dignitari sono ammessi alla presenza del Signore, il solo vero sovrano di Israele. In tal modo sono legittimamente investiti del potere che il lettore conosce bene e che è attestato anche nel NT (il Sinedrio è composto dai sommi sacerdoti e dagli anziani: Mt 21,23; 26, 3.47; 27, 1.12.20; At 4,23; 23,14; 25,15). L’autorità suprema di Israele è presentata quindi qui come risalente all’epoca della fondazione di Israele, nel deserto del Sinai.
In Es 24,3-8 è presente tutto il popolo e si assiste a una “liturgia dell’alleanza” in due tempi. Dapprima c’è una “liturgia della parola”, dove Mosè legge la parola tramessagli da Dio, la mette per iscritto e viene approvata dal popolo. Mosè mette per iscritto le “parole”.
La seconda parte della cerimonia è costituita dalla “liturgia del sangue”. L’Altare, che rappresenta Dio, viene asperso del sangue dei tori immolati. Mosè legge il rotolo al qualche ha affidato tutte “le parole” del Signore. Il popolo si impegna a metterle in pratica e ad ascoltarle. Le “parole del Signore” si trovano ormai nel libro scritto da Mosè in persona. Il popolo si impegna ad ascoltare le parole del Signore scritte nel libro, ogni volta che sarà letto. Una seconda aspersione di sangue, stavolta sul popolo, suggella l’alleanza tra Dio e il suo popolo, sulla base delle “parole del Signore” scritte nel libro (Es 24,8).
La liturgia della parola o del libro, mette il lettore di fronte alla propria situazione. Egli deve formulare di fronte al libro che ha fra le mani la stessa risposta che il popolo ha dato sul Sinai, all’inizio della sua storia.
La liturgia del sangue sembrerebbe avere come parallelo più immediato la consacrazione dei sacerdoti (cf. Es 29,12, 16.20-21; Lv 8,15.19.23-24.30: Aronne e i suoi figli).
Il sangue è sacro e serve a consacrare. In Es 24,8 tutto il popolo è consacrato e diventa quindi «un regno di sacerdoti e una nazione santa» come promesso da Dio in Es 19,6. Le due espressioni definiscono Israele in modo molto preciso. Come per i sacerdoti, anche Israele è la nazione scelta da Dio tra tutte le altre per essere al suo servizio particolare (cf. Es 19,5). Dio è sovrano di tutta la terra, ma ha delle persone e delle entità al suo servizio particolare e personale, come il re possiede una “proprietà regale” e un consiglio dei ministri, oltre al personale al servizio del palazzo.
Con il rito del sangue, Dio stabilisce una relazione vitale, esistenziale, tra sé e il suo popolo. «La vita è nel sangue» afferma infatti in modo lapidario Lv 17,11. «Dio fa di Israele una nazione consacrata al suo servizio, una “nazione santa”. Da questo rapporto dipende ormai l’esistenza di Israele come popolo di Dio. Da questo deriva la condizione sine qua non di tale rapporto: osservare la Legge consegnata per iscritto da Mosè» (pp. 121-122).
Es 24,3-8 unisce quindi due elementi fondamentali della religione di Israele, un rituale collegato al sangue e uno collegato al libro. Il libro contiene l’insegnamento che permetterà a Israele di essere fedele alla sua vocazione di «proprietà particolare» (Es 19,5), di regno di sacerdoti e di nazione santa (Es 19,6) al servizio del suo Dio.
Il sangue, invece, è l’elemento del culto che consacra il popolo per farne un popolo sacerdotale, la cui prima funzione è “il servizio di Dio”. Ciò «significa che tutti i membri del popolo di Israele partecipano di questo sacerdozio e che tutte le attività del popolo fanno parte della liturgia, del servizio divino. Gran parte di ciò sarà esposto in maniera dettagliata nei libri successivi, soprattutto in quello del Levitico» (p. 122).
Al termine della sua opera (pp. 123-134) Ska analizza la ricezione del libro dell’Esodo nell’AT, nel NT, nel giudaismo, nell’esegesi cristiana, nel Corano e sintetizza il rapporto fra il libro dell’Esodo e la cultura occidentale (letteratura, pittura e scultura, musica e cinema) – attenta particolarmente alla nascita di Mosè, al Decalogo e al passaggio del Mar Rosso.
La bibliografia (pp. 151-154), distinta per tematiche e periodi storici, conclude il volume, che riassume con tono spigliato e documentato un libro biblico fondamentale per la fede ebraica e cristiana. L’autore guida con mano sicura e linguaggio semplice e conciso il lettore lungo un testo da lui lungamente studiato, insegnato e divulgato a livello internazionale.
Jean-Louis Ska, Il libro dell’Esodo (Collana Biblica), EDB, Bologna 2021, pp. 160, € 16,00, ISBN 9788810221914.