La quarta monografia della rivista Presbyteri è dedicata a una riflessione su premesse, metodi e strumenti affinché una pastorale sia davvero «sostenibile» (qui). «Sentiamo tutti − si legge nelle presentazione − di essere in un tempo faticoso, sia a livello personale che pastorale, segnato da una parte dalla necessità di cambiare, dall’altra dalle resistenze al cambiamento. Insieme, e alla luce del cammino sinodale che stiamo vivendo, desideriamo guardare alle nostre comunità con speranza e responsabilità, invitando a riflettere sulle pratiche presenti, a imparare a discernere nelle diversificate situazioni e a facilitare l’ascolto di più voci all’interno della comunità cristiana». Pubblichiamo l’editoriale del numero.
Introducendo una riflessione su questo tema, il sociologo e pastoralista austriaco Paul Zulehner, in maniera provocatoria, scrive: «Una pastorale sostenibile? È una fatica d’Ercole».[1]
Stiamo parlando di pastorale sostenibile, ma siamo già convinti che è terribilmente faticoso cambiare il nostro modo di pensare e di agire. Eppure, la ricerca di una proposta pastorale in grado di intercettare le domande essenziali che sgorgano dalla vita delle comunità cristiane e di proporre risposte significative non preconfezionate, ma piste di ricerca plausibili e praticabili, non è solo una possibilità, è piuttosto una necessità.
Sostenibilità
È una espressione che è entrata oramai prepotentemente nel vocabolario quotidiano, con il rischio di diventare una di quelle parole-slogan super inflazionate che, a forza di essere usate, perdono la forza motivazionale e la carica di passione che portano con sé.
“Sostenibilità” è divenuta sempre più il nuovo paradigma di ogni processo di sviluppo, personale, sociale, ambientale e tanto altro ancora. Essa riunisce in sé caratteristiche importanti per la conservazione di un ecosistema fragile ma anche per lo sviluppo di ogni processo di crescita umana. L’uso intelligente e non improvvisato delle risorse umane, la capacità di individuare obiettivi realisticamente proponibili e lo sforzo di un lavoro di verifica costante (dimensione spesso carente nelle nostre proposte pastorali!) ci aiuterebbero ad interagire in maniera più rispettosa e creativa nei confronti di una vita sempre più fluida e complessa.
Anche nell’immaginare nuovi processi di evangelizzazione, le dimensioni della “sostenibilità” potrebbero divenire un ulteriore criterio per un discernimento in ascolto dello Spirito.
Sarebbe un aiuto per riscoprire, in tutta la sua forza di provocazione e bellezza, quel discorso che papa san Paolo VI pronunciò all’ONU, per dire “no” alla guerra, per parlare a nome del Concilio, per ricordare la grande esperienza della Chiesa. Una sua frase andrebbe scolpita, scritta, ripetuta: «Siamo esperti in umanità».[2]
È la stessa logica che guida Papa Francesco quando, nel quarto capitolo dell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, offre i “quattro principi” (nn. 221-237) o criteri-guida, che servono al discernimento per giungere a scelte valide e lungimiranti per una ordinata vita sociale ed ecclesiale.
La sostenibilità non riguarda solo il carico di impegni molteplici e frammentari che gravano sulla vita dei preti, creando spesso malessere e disorientamento, ma tocca al cuore la vita stessa delle comunità cristiane. Come non ricordare il ritornello incessante con cui, nel libro della Apocalisse, si concludono i messaggi alle sette chiese dell’Asia Minore (2,1-3,22): «Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese»?
Leggerezza
Leggerezza: potrebbe essere un altro modo per declinare la richiesta di sostenibilità che emerge dai ministri ordinati e dalle comunità cristiane, oggi?
C’è un autore contemporaneo che, da un pulpito laico, ha bene interpretato il desiderio e lo sforzo di mettersi in ascolto della realtà e dello Spirito per immaginare una Chiesa che dialoga con le donne e gli uomini suoi contemporanei: è Italo Calvino.
Lezioni Americane. Sei proposte per il prossimo millennio, è il libro di Italo Calvino che meglio rappresenta la filosofia di questo autore. Infatti, il tema delle lezioni che avrebbe dovuto tenere all’Università di Harvard era: «Alcuni valori letterari da conservare nel prossimo millennio». Purtroppo Calvino morì nel settembre 1985 e non riuscì a presentare questo capolavoro. I contenuti della prima edizione furono recuperati dalla moglie Esther Calvino e poi rielaborati.[3]
In Lezioni Americane, Calvino parla di cinque concetti fondamentali (del sesto, “sul cominciare e sul finire”, si hanno solo degli appunti) che riguardano non solo la letteratura ma qualsiasi altra forma espressiva e, soprattutto, che toccano la vita in sé: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità.
Ci interessa soffermarci sulla prima lezione, quella che ha come tema “la leggerezza”. Innanzitutto, Calvino dice: «Prendete la vita con leggerezza, ché leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore».
Da una parte invita a vivere con “leggerezza”, ossia con la capacità di non dare peso all’inessenziale, ma di liberarsene riuscendo appunto a “planare sulle cose”; dall’altra dice che essere leggeri non significa essere superficiali, bensì essere un passo avanti rispetto a chi rincorre l’eccesso.
Scrive ancora Calvino: «la leggerezza per me si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso (…) Esiste una leggerezza della pensosità, così come tutti sappiamo che esiste una leggerezza della frivolezza; anzi, la leggerezza pensosa può far apparire la frivolezza come pesante e opaca».
Precisione e determinazione per essere leggeri… queste espressioni hanno qualcosa da dirci nella ricerca di una “pastorale sostenibile”? E perché la leggerezza pensosa descritta da Calvino, in tutt’altro contesto e con altri obiettivi, può essere rilevante anche nella nostra riflessione ecclesiale?
La risposta è abbastanza semplice: nel tempo in cui viviamo, siamo immersi nella pesantezza della routine quotidiana, nello stress, nella rabbia, nell’insoddisfazione, nelle delusioni, nelle aspettative frustrate, e così via. Lo stesso ministero presbiterale è chiamato a doversi immaginare in un modo “diverso” di essere e di collocarsi nel contesto della propria scelta di vita.
Potremmo declinare la leggerezza pensosa di cui parla Calvino con le parole di papa Francesco:
Mi piace l’atteggiamento che nasce dalla fiduciosa presa in carico della realtà, ancorata alla sapiente Tradizione viva e vivente della Chiesa, che può permettersi di prendere il largo senza paura. Sento che Gesù, in questo momento storico, ci invita ancora una volta a “prendere il largo” (cfr Lc 5,4) con la fiducia che Lui è il Signore della storia e che, guidati da Lui, potremo discernere l’orizzonte da percorrere.[4]
È quanto afferma il profeta Isaia: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Is 43,18-19).
Custodi di vita
«Il nostro compito supremo nel mondo è custodire delle vite con la propria vita».[5] Così scrive Elias Canetti, il romanziere e saggista bulgaro, premio Nobel 1981 per la letteratura.
Custodi di “quale vita”? In questo tempo di cammino sinodale la Chiesa è chiamata ad ascoltare e a lasciarsi profondamente interpellare: che cosa si attende, in generale, la gente dalla Chiesa oggi? Anche chi non viene più in chiesa, attende attenzione ai propri problemi concreti, cioè prossimità fatta di nuove relazioni, una parola di speranza e di fiducia che l’aiuti a reggere in questo periodo di smarrimento e di precarietà.
Mai come ora si debbono far funzionare i consigli pastorali delle comunità ecclesiali, non solo perché i preti sono pochi e i laici devono “darsi da fare”, ma perché questi consigli sono i luoghi dell’ascolto e della ricerca in cui tutti i fedeli esercitano il loro sacerdozio, la missione di partecipare alla vita della Chiesa che viene dal battesimo. Un consiglio pastorale deve preoccuparsi dei “nostri” ma anche, e forse più, degli “altri”, per individuare i modi per farsi prossimi a “tutti”.[6]
Sta maturando una comune consapevolezza: non siamo dei nomadi senza casa né degli avventurieri senza scrupoli; siamo piuttosto dei pellegrini che cercano la loro meta, tra dubbi e fatiche, ma anche con coraggio e speranza.
Potremmo individuare una icona vitale per questo cammino di consapevolezza e discernimento: è l’icona del pellegrino, dell’homo viator – come lo definiva Gabriel Marcel (1944) – che non è un naufrago disperso, un malinconico randagio o un vagabondo nomade e smemorato.
«Se l’uomo è essenzialmente un viandante, ciò significa che egli è in cammino verso una meta che vede e non vede. Egli non può perdere questo sprone, senza divenire immobile e senza morire».[7]
Criteri di riferimento
Vorrei proporre quattro aspetti per una cornice di riferimento entro cui collocare una riflessione più articolata per un cammino di scelte personali, ministeriali e pastorali da vivere e da operare.
– Relazione personale: essa deve essere rimessa al centro di ogni ulteriore passaggio. Senza relazioni il nostro agitarci è vano e risulta privo di senso. Abbiamo bisogno di tornare a “vivere il tempo” più che ad “occupare spazi”. Significa fare una cernita, con una verifica seria e condivisa, senza paura e senza sconti, dei luoghi sui quali far convergere i nostri sforzi di custodia della vita.
– Ascolto: parlare di relazione significa parlare di ascolto di ciò che le persone ci dicono e di ciò che la realtà può raccontare. Questo è ben più importante di tutte le parole che si possono dire. È l’arte di ascoltare i bisogni di questo momento, che divengono i “mondi possibili” nei quali lasciarsi coinvolgere. Ma come uscire dalle cornici di cui siamo parte e che tanto ci rassicurano?
– Fragilità, debolezza e precarietà: sono dimensioni che tornano prepotentemente alla ribalta come attenzione antropologica, spirituale e pastorale nell’annuncio del Vangelo di Gesù. Questo ridimensiona drasticamente ogni sindrome di onnipotenza e ogni ansia di prestazione. Ricordando ciò che afferma San Paolo: «Quando sono debole è allora che sono forte» (2Cor 12,10).
– Il quarto lato della cornice, forse quello fondamentale da cui ripartire, è imparare a declinare insieme «l’alfabeto della fede». La dimensione della fede è quella centrale da cui ripartire, sia come formazione dei presbiteri che come crescita della comunità cristiana.
In Presbyteri 6-2020, tematizzando il cammino dell’essere “preti adulti”, si ricordava come Papa Benedetto XVI, fin da quando era il giovane teologo Joseph Ratzinger, aveva intuito che il grande problema per la Chiesa del nostro tempo è il tema della fede.
Questa è la sfida pastorale prioritaria. I discepoli di Cristo sono chiamati a far rinascere in sé stessi e negli altri la nostalgia di Dio e la gioia di viverlo e di testimoniarlo, a partire dalla domanda sempre molto personale: «Perché credo»? Occorre far riscoprire la bellezza e l’attualità della fede come orientamento costante, anche delle scelte più semplici, che conduce all’unità profonda della persona rendendola giusta, operosa, benefica, buona.[8]
Non credo ci siano formule pastorali in grado di dire con chiarezza come raggiungere una pastorale sostenibile. Ciò che si può affermare, piuttosto, è che non può affievolirsi l’inquietudine della ricerca. Nella ricerca c’è tutto: il cammino, la lotta, il desiderio di osare, le paure, le resistenze e gli ostacoli, i momenti di confusione come quelli di chiarezza, la forza della comunione e il rischio della solitudine, la tentazione e la Grazia.
Diventano più che mai attuali le parole dello scrittore francese Julien Green: «Finché si è inquieti, si può stare tranquilli».[9]
[1] Paul M. Zulehner, Fiducia ansiosa, Il Regno – Attualità 18/2022, 520-523.
[2] Andrea Riccardi, Manifesto al mondo. Paolo VI all’ONU, Jaka Book, Milano 2015.
[3] Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Mondadori, Milano 2016.
[4] Francesco, Discorso ai partecipanti al simposio “per una teologia fondamentale del sacerdozio”, 17 febbraio 2022.
[5] Elias Canetti, Massa e Potere (Masse und Macht, 1960), traduzione di Furio Jesi, Rizzoli, Milano 1972. Elias Canetti (1905-1994) è stato uno scrittore e saggista bulgaro naturalizzato britannico di lingua tedesca, premio Nobel per la letteratura nel 1981.
[6] Gabriele Ferrari, Cosa chiede la gente alla Chiesa? in Settimana News, 2 ottobre 2021.
[7] Gabriel Marcel, Homo viator, Borla, Torino 1980.
[8] Benedetto XVI, Omelia, 31 dicembre 2011.
[9] Julien Hartridge Green (1900-1998) è stato uno scrittore e drammaturgo statunitense che passò gran parte della propria vita in Francia.
Un intervento chiaro, ricco di stimoli, che mi ha fatto riflettere, mi dato maggior consapevolezza e un pò di sana leggerezza! Grazie, don Nico! A. Bollin