Riconoscimento del “martirio” dei bambini di Jastrebarsko e Sisak da parte della Chiesa serba e argomentata risposta dei vescovi cattolici di Zagabria (Croazia): il carteggio su un episodio delle memorie sanguinanti dell’ex Iugoslavia nella seconda guerra mondiale apre una squarcio sulla “politica della santità” della Chiesa serba – indicata in questo caso come subalterna alla narrazione comunista – e sull’inestricabile intreccio fra etnie, confessioni, ideologie e manipolazioni storiche che hanno segnato e caratterizzano anche oggi il quadrante balcanico.
Nel comunicato finale del santo sinodo della Chiesa serba (Belgrado, 15 – 21 maggio 2022), che porta la data del 23 maggio, si elencano i molti temi affrontati dall’assemblea ecclesiale: dalle fondazioni caritative alla formazione dei seminari, dalla questione della divisione intra-ortodossa ai monasteri serbi nel Kosovo ecc.
Fra le informazioni, la prima riguarda il riconoscimento nei dittici dei santi e dei martiri di una quindicina di casi (singoli o collettivi) e la definizione della data della loro memoria liturgica. Fra questi, «i santi fanciulli martiri di Jastrebarsko e Sisak con data di celebrazione, 13/26 luglio», esempi «luminosi di grandezza di virtù e fermezza di fede, di speranza e di amore».
I bambini di Jastrebarsko e Sisak
A cosa si riferiscono i vescovi serbi? A due campi di raccolta di bambini, su oltre una ventina operanti nello stato indipendente croato di Ante Pavelić, creato dalle potenze dell’Asse, Germania-Italia, nel 1941.
Le milizie ustascia perseguirono negli anni della guerra la pulizia etnica di stampo nazista. Le vittime, i cui numeri obbediscono a una «grottesta competizione nella sofferenza» (R. Landau), sono indicativamente fissati in 750.000 serbi, 60.000 ebrei e 26.000 rom. I bambini vittime sarebbero 53.626.
Inizialmente sostenuto dalla Chiesa cattolica, il regime ustascia ha visto una crescente distanza dell’arcivescovo di Zagrabria, Aloisio Viktor Stepinać. Processato nel 1946 come collaborazionista, fu incarcerato, nominato cardinale nel 1953 ed è morto nel 1960.
Gli scontri bellici nell’area, le sistematiche carneficine ustascia e le drammatiche condizioni dei campi di concentramento lasciavano dietro di sé migliaia di bambini orfani. Alcuni di questi transitarono nel campo di Sisak (7.000 di cui 1.631 non sopravvissero) e Jastrebarsko (3.336 bambini, di cui morirono di malattia 449).
A Jastrebarsko la gestione funzionale del campo fu affidata alle suore della misericordia di san Vincenzo de’ Paoli. Anche la narrazione più ideologicamente connotata non ha potuto ignorare, almeno parzialmente, la loro generosità e la netta minore incidenza dei morti rispetto agli altri campi. E ancora meno la generosità di centinaia di famiglie croate che adottarono e crebbero i bambini una volta che il campo fu chiuso.
E, tuttavia, la narrazione post-bellica le ha trasformate in aguzzine, direttamente responsabili delle morti dei bambini, tanto che nel luogo si organizzava annualmente un raduno nazionale della gioventù comunista iugoslava come ammonimento e memoria. E, nel documento di supporto al riconoscimento del martirio (petizione), l’eparchia di Karlovć e il suo vescovo Gerasim ne hanno assunto toni e contenuti.
Su quel documento i vescovi cattolici si erano espressi in forma critica. Il riconoscimento sinodale del martirio, senza alcuna specifica nei confronti delle suore e del personale curante (fra cui un medico serbo e diverse figure professionali), conferma il pregiudizio.
Nel dopoguerra, nessuna delle suore è stata chiamata a giudizio. Della loro responsabile, sr. Pulherija Barta – rifugiatasi in Austria – non è mai stata chiesta l’estradizione. Le altre hanno continuato a ricevere regolarmente la pensione statale. Anzi, è stato loro chiesto di continuare il servizio a condizione, per loro inaccettabile, di rinunciare all’abito.
Condizionati dalla retorica comunista
I vescovi croati scrivono: «Guardando all’insieme degli eventi di quel tempo, è particolarmente doloroso oggi assistere al proseguimento della propaganda ideologica del totalitarismo comunista iugoslavo, secondo la quale medici, personale medico e, soprattutto, monache, nonché molti benefattori e genitori affidatari che hanno investito le loro forze e conoscenze, che hanno fatto sacrifici per salvare i bambini dei centri di accoglienza di Jastrebarsko e Sisak, sono descritti come i peggiori criminali. Vale a dire, se questi bambini sono dichiarati martiri, ci devono essere anche i torturatori e, dalle note del documento, si comprende che sono proprio le persone sopra citate quelle considerate responsabili. Loro, che hanno permesso che molti bambini ospitati siano riusciti a sopravvivere in condizioni eccezionalmente difficili».
Dopo aver citato una mezza dozzina di studi a sostegno della loro posizione, i vescovi croati concludono: «A causa di tutto ciò, rimaniamo increduli e addolorati perché abbiamo l’impressione che il santo sinodo dei vescovi della Chiesa ortodossa serba abbia accettato la retorica della propaganda comunista, piena di falsità e di manipolazioni, con cui si tenta di incolpare persone innocenti per le torture e le uccisioni di bambini. Migliaia dei quali, grazie all’amore e alla cura dei cattolici croati, sono stati salvati dalla morte e sono sopravvissuti alle drammatiche condizioni del tempo di guerra».
Santità oltre i confini confessionali
Il riconoscimento di santità e di martirio è in tutte le Chiese anche un gesto di “politica ecclesiastica” con cui si accentuano figure e modelli considerati emblematici di indirizzi ecclesiali condivisi. La scelta delle loro memorie non è mai staccabile dalle esigenze pastorali del presente.
Nel caso delle Chiese ortodosse, e della Chiesa serba nel nostro caso, vi è anche l’ambiguità di una memoria nazionale e di appartenenza etnica. Un segnale è il silenzio sui crimini dei “liberatori”. Non è casuale che il centro memoriale nazionale del campo nazista di Belgrado, avviato nel luglio scorso, abbia come riferimenti ultimi il ministero della cultura e la Chiesa ortodossa serba.
Il pericolo di “addomesticare” la storia è presente, compreso l’avvelenamento dei rapporti fra etnie e confessioni, nonché l’«adattamento all’attuale ideologia e agli obiettivi politici immediati contrari al Vangelo di Cristo».
Legittima la preoccupazione delle Chiese, oggi in dialogo, su gesti e decisioni che possono avvelenare i rapporti. È il caso della dura e decennale opposizione, non priva di efficacia e di qualche ragione d’opportunità, del sinodo serbo al riconoscimento di santità per il card. A. Stepinać. Non dovrebbe sorprendere l’attuale preoccupazione da parte cattolica nei confronti del riconoscimento del martirio. «Nessuno ha diritto di manipolare la tragedia dei bambini con interessi o tentativi impropri, come strumento per obiettivi che sono lontani dell’autentica com-passione per i bambini e dall’impegno per la giustizia».
E comunque la canonizzazione di Stepinac è bloccata da anni a causa delle obiezioni avanzate dagli ortodossi serbi, e non si va avanti per necessità di mantenere buone relazioni ecumeniche.
E poi vediamo che loro se ne fregano e non c’è reciprocità.
Loro sono senza vergogna e noi facciamo la figura dei fessi…
La Chiesa Ortodossa sembra diventare una confederazione di chiese etniche votate al nazionalismo, e questo rischia di mandare a ramengo tutta la tradizione liturgica e spirituale e non favorisce l’unità tra i credenti