«Cristo è morto per noi quando noi eravamo suoi nemici. È l’amore oltre ogni limite. È il motivo della nostra gioia. Posso toccare la sua fede con queste parole. E ciò mi basta».
Non coltivò mai l’odio, padre Pino Puglisi. Persino ai suoi assassini, gli uomini mandati dai Graviano, potenti capi del mandamento mafioso di Brancaccio, che lo uccisero il 15 settembre del 1993, sotto casa, nel giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno, fu capace di regalare un ultimo sorriso.
A distanza di anni, in un mondo drammaticamente lacerato dalla violenza e dalle guerre, in un tempo in cui la memoria è una fatica e l’apparenza l’unica prospettiva, le sue parole, il suo insegnamento, la sua figura continuano a essere modello di vita.
Del resto, don Puglisi, martire in odium fidei, già in vita era stato la dimostrazione di quanta paura potessero procurare a Cosa Nostra gli uomini e le donne in grado di svolgere fino in fondo il proprio dovere quotidiano, e i preti fermi nel portare avanti senza tentennamenti un ministero sacerdotale improntato all’educazione, alla catechesi dei ragazzi, all’apostolato in parrocchia, al richiamo costante dell’autenticità dei valori del Vangelo.
E lui, che non amava i proclami, ma si sforzava d’essere semplicemente un presbitero evangelicamente coerente, divenne presto un intralcio per l’affermazione dei compromessi sui quali si basava la potenza prevaricatrice dei sedicenti uomini d’onore.
Visse e operò nell’umiltà, sempre nella discrezione, spesso nella povertà: pur di strappare i bambini e i ragazzi dalle strade della mafia, celebrava messa in un garage, perché la chiesa di san Gaetano era rimasta danneggiata dal terremoto.
Promuoveva comitati civici per rendere vivibile una borgata priva di alberi e di scuole.
Richiamava la politica al rispetto del senso autentico della sua missione.
Aveva fondato un centro per seguire nello studio i bambini poveri, altrimenti destinati ad un futuro di asservimento allo strapotere dei boss. E, così facendo, smitizzava la cultura del potere, saldamente poggiata su indifferenza e omertà, come quando dal pulpito – nei giorni in cui era destinatario di minacce, avvertimenti, intimidazioni – invitava i mafiosi al colloquio e alla redenzione.
In una Brancaccio afflitta dalla miseria e dal degrado, l’operato di padre Puglisi strideva con i facili guadagni con cui la malavita adescava i giovani del quartiere: era un prete senza conto in banca, con le tasche vuote e la casa piena di libri di filosofia, teologia, pedagogia e psicologia. Donava tutto il suo tempo agli altri.
Gli proposero gli incarichi più gravosi, scartati da tutti e lui li accettò. E, quando gli offrirono chiese ricche e posti di prestigio, rifiutò: «Non sono all’altezza, rimango qui tra i poveri».
La sua pastorale, il suo stile di vita, il suo ministero, insomma, divennero presto motivo di interferenza rispetto ai disegni dei mafiosi. Per questo lo condannarono a morte: come scrive il magistrato Luigi Patronaggio, «fondamentalmente perché era un evangelizzatore, nel senso che educava alla cultura del vangelo, alla cultura della legalità. Educava alla cultura della partecipazione, a superare il male attraverso il bene».
Anche la Corte d’Appello di Palermo lo riconosce nella sentenza del processo a carico di esecutori e mandanti del delitto: «L’aggregazione sociale voluta da don Pino Puglisi, la pratica dei valori cristiani tradizionalmente opposti alla logica della violenza e del terrore di Cosa Nostra, rappresentava un consistente pericolo per l’organizzazione criminale, che vedeva compromessi i suoi principi proprio nel luogo ove più forte era il suo radicarsi per consolidata permanenza».
I mammasantissima e i loro gregari pensavano di poter cancellare tutto questo a colpi di pistola. Il sorriso di quel prete li ha condannati alla galera e all’irrilevanza: Puglisi vive.
- L’autore, arcivescovo emerito di Catanzaro Squillace, è stato postulatore della causa.