Quale concezione ha papa Francesco della indissolubilità del matrimonio? È una delle domande che si pone chi legge l’esortazione apostolica Amoris lætitia ed è il tema preferito al quale ricorrono i suoi oppositori per insinuare l’idea che egli si sia allontanato in modo preoccupante dalla linea seguita dalla tradizione e difesa fermamente dai suoi predecessori.
Sappiamo che papa Francesco alle esposizioni dottrinali delle verità cristiane preferisce l’analisi pastorale della situazione in cui vive e opera la Chiesa, nella speranza di riprendere con gli uomini di oggi un dialogo che si era indebolito, se non interrotto del tutto.
Le esposizioni dottrinali che il papa non privilegia devono essere fatte però sul versante teologico e giuridico dagli specialisti nelle diverse discipline. In tema di indissolubilità del matrimonio troviamo nell’esortazione pontificia alcune affermazioni che possono aiutarci a formulare una risposta alla domanda che ci siamo posti avviando queste riflessioni.
Indissolubilità come dono e non come giogo
Papa Francesco, dopo avere riaffermato nella sua esortazione il valore dell’indissolubilità del matrimonio con le stesse parole adoperate da Gesù nei vangeli, cita la Relatio Synodi e afferma che l’indissolubilità «non è da intendere come “giogo” imposto agli uomini, bensì come un “dono” fatto alle persone unite in matrimonio» (n. 62). In queste due immagini (il giogo e il dono) possiamo individuare le due concezioni dell’indissolubilità, che tradizionalmente si sono contrapposte nella dottrina cattolica del matrimonio.
Mentre, nei primi secoli, l’indissolubilità del matrimonio veniva considerata come un valore etico altissimo, che gli sposi cristiani dovevano raggiungere se volevano realizzare pienamente il dono della comunione trinitaria ricevuto nel battesimo e nel matrimonio, a partire dal IV secolo la Chiesa di Occidente, in una prospettiva del tutto diversa, ha preferito comprendere l’indissolubilità come una “catena” o un “giogo”, che lega per sempre i due sposi. La prima è una concezione squisitamente teologica; la seconda invece è decisamente giuridica.
Le conseguenze pastorali di queste due concezioni sono molto diverse: l’indissolubilità concepita come ideale etico e come dono prevede una gradualità nella sua attuazione. Come gli scalatori di una montagna, gli sposi possono giungere alla vetta, possono fermarsi a metà strada o possono scoraggiarsi fin dall’inizio del cammino. A questa molteplicità di situazioni corrisponde una diversità di trattamento pastorale.
Tutti coloro che non riescono ad attuare pienamente l’ideale dell’indissolubilità devono riconoscere il proprio peccato. Questo peccato non può essere concepito però come un unico schema che include tutti senza distinguere le diverse situazioni di ognuno. Trattandosi di un “peccato”, può essere assolto nel sacramento della penitenza come gli altri peccati.
Quando dall’indissolubilità concepita come ideale etico e come dono, si è passati alla visione giuridica della “catena” o del “giogo”, non è stato più possibile un trattamento diversificato per coloro che non sono riusciti ad attuare l’indissolubilità del matrimonio: tutti sono peccatori allo stesso modo, chi provoca il fallimento e chi lo subisce; coloro che, dopo il fallimento del primo matrimonio, danno vita a una seconda esperienza matrimoniale si trovano in uno “stato di peccato”.
A chi vuole rientrare nella piena comunione con la Chiesa è indicato un solo percorso: dimostrare che il suo matrimonio è invalido. Tuttavia questo percorso può essere seguito solo da alcuni, quelli cioè che si trovano nella condizione di dimostrare che il proprio matrimonio è invalido. Chi riconosce, invece, che il proprio matrimonio è stato celebrato validamente, ma è fallito in un secondo momento per un qualsiasi motivo, deve rassegnarsi a scegliere fra la castità perfetta o l’esclusione dai sacramenti della penitenza e dell’eucaristia.
Non una novità ma il ritorno alla disciplina primitiva
Dalle indicazioni date da papa Francesco nell’Amoris lætitia si può dedurre che egli intende riproporre la primitiva concezione dell’indissolubilità del matrimonio, vista come ideale etico e come dono. Egli afferma con chiarezza che intende seguire la strada dell’integrazione, non quella dell’emarginazione: «la strada della Chiesa è quella di non condannare eternamente nessuno; di diffondere la misericordia di Dio a tutte le persone che la chiedono con cuore sincero» (n. 296). «Nessuno può essere condannato per sempre, perché questa non è la logica del Vangelo!» (n. 297). Ci troviamo pertanto dinanzi a un peccato che può essere assolto. Le persone che si trovano in queste situazioni possono accostarsi ai sacramenti a certe condizioni, senza la necessità di ottenere la dichiarazione di nullità del proprio matrimonio.
La rigida nozione giuridica di un unico “stato di peccato” viene respinta con fermezza: «I divorziati che vivono una nuova unione possono trovarsi in situazioni molto diverse, che non devono essere catalogate o rinchiuse in affermazioni troppo rigide senza lasciare spazio a un adeguato discernimento personale e pastorale» (n. 298).
La condizione posta tradizionalmente a queste persone di vivere “come fratello e sorella” se vogliono accostarsi ai sacramenti può essere superata, affermando il principio del bisogno che ha ogni coppia di «alcune espressioni di intimità» (n. 298, nota 329).
Papa Francesco non avrebbe potuto dare queste indicazioni se avesse continuato a concepire l’indissolubilità come “catena” o come “giogo”. Proprio perché egli la intende come ideale etico e come dono, può giungere alla conclusione di ritenere possibile l’ammissione ai sacramenti di coloro che si sono macchiati di un peccato, a condizione che lo riconoscano, dimostrino concretamente di esserne pentiti e chiedano con umiltà di rientrare nella piena comunione della Chiesa.
L’ideale etico dell’indissolubilità del matrimonio riproposto da papa Francesco ha un suo parallelo nell’ideale di santità indicato da Gesù: «Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48). Se questo invito di Gesù fosse interpretato in chiave giuridica, nessuno potrebbe far parte della Chiesa, perché il modello indicato è irraggiungibile. Gesù ha indicato questo ideale ma, conoscendo la fragilità umana, ha istituito il sacramento della penitenza per chi riconosce di non essere perfetto come il Padre celeste. Perché mai chi non è riuscito ad attuare pienamente l’indissolubilità del matrimonio dovrebbe essere escluso dai sacramenti o essere obbligato alla castità perfetta per tutta la vita?
Una verità intesa come misura dell’amore e in una dimensione storica
Ma tutto questo non è in contrasto con le indicazioni contenute nel magistero tradizionale e in quello degli immediati predecessori di papa Francesco? È il punto sul quale hanno insistito coloro che si sono opposti fin dall’inizio al suo progetto di ammettere ai sacramenti i divorziati risposati. Nei giorni scorsi quattro cardinali, con una pubblica Lettera indirizzata alla sua persona e per conoscenza al prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, hanno riproposto questa obiezione.
Ritengo che la risposta alle argomentazioni contenute in questi scritti può essere data partendo da due angolature diverse: quella teologica, esposta proprio su SettimanaNews nei giorni scorsi da Ghislain Lafont, e quella storica, che investe la natura stessa della rivelazione e della Chiesa. L’articolo di Lafont ha per oggetto il rapporto tra misericordia e infallibilità, ma è riferibile anche al nostro tema. La verità contenuta nell’insegnamento del magistero non può essere concepita al di fuori della misericordia. «La verità, in questa prospettiva, diventa un elemento di misura e di rettitudine nello slancio dell’Amore. Corrisponde a ciò che, in Dio o nell’uomo, comporta di permanenza, di stabilità, di essere. Ma la verità non esiste a parte o al di fuori dell’Amore […]. È certamente molto importante, affinché si possa vivere, poter conoscere la verità […]. Ma è altrettanto bene che ciò che è comunicato e la forma umana della comunicazione avvenga con il passo dell’amore, dunque della passione, del tempo, del dono…».
In queste stesse parole di Lafont è già contenuta la riflessione sulla dimensione storica della verità. Dio nel rivelarsi ha tenuto conto del lento divenire dell’uomo: «quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio» (Gal 4,4). Il tesoro della rivelazione lasciato da Cristo alla sua Chiesa deve essere continuamente riscoperto alla luce del divenire storico, cioè della continua acquisizione di prospettive nuove da parte dell’umanità. A questo punto, più di qualcuno griderà che si intende introdurre una forma di “relativismo”.
La dimensione storica di cui parliamo non può essere confusa con il relativismo, perché suppone dei punti fermi: Dio misericordioso che si è rivelato e il continuo riferimento all’evento Cristo, pur nel necessario ricorso alle forme di linguaggio e alle categorie che l’umanità scopre man mano nel suo divenire.
Alfonso ti ringrazio per il confronto.
Tuttavia mi devi ancora perdonare perché trovo l’esempio davvero fuorviante. Qui non si tratta di santità degli uomini. Qui si tratta dei ‘doni santi’ che professiamo nel Credo. Se c’è una cosa Santa, infatti, sono proprio i sacramenti. Sono loro ad essere santi a renderci santi. Non a caso il concilio di Trento afferma che il santo matrimonio apre agli sposi la via della reciproca santificazione, che, nella misura in cui essa si sostanzia in una ‘tensione verso’ quotidianamente diviene realtà in moltissime coppie. Ripeto: altro che ideale. Non essere tu rigido nell’esaurire la santità con la canonizzazione. E non essere tu rigido nel pensare che la santità che professiamo nel credo sia la santità degli uomini, sennò certo che finisci per credere che la santità non esista.
Se invece avete ragione Tu e l’Autore (come posso escluderlo?) significa che anche l’indissolubilità del matrimonio tra Cristo e la Sua Chiesa Santa (tale per la dimensione proprio sacramentale) è solo ideale, dunque irreale e pertanto revocabile. Puoi credere in questo liberamente, ma non è Cattolico. Mi spingo a dire che non è biblico, perché il Dio della Bibbia è Giustizia fondata sulla Fedeltà.
Sulla fedeltà di Dio non si discute, altrimenti perché credere?
Sulla fedeltà della Chiesa ho qualche dubbio, non per niente è “semper reformanda” e anche “santa meretrix”.
Se ho ben compreso, il Papa si muoverebbe su più fronti: quello pastorale, volto a ricordare di essere – come lui stesso ha detto – il “pastore di 100 pecore, non 99”; quello teologico, volto a sostenere che i sacramenti non sono una realtà che si dona integralmente “qui e ora” all’uomo e alla donna che vi si aprono, ma sono parzialmente investiti da una tensione ideale; quello storico, volto a recuperare il senso di la Chiesa – per dirla con il Cardinale Kasper – di 1700 anni fa, dell’epoca, dunque, precedente i concili ecumenici verso i quali è evidente la critica alla formulazione in termini dogmatici della fede cristiana, prima, cattolica, poi.
La ricostruzione del pensiero di Francesco in questi termini lascia perplessi. Per uno che sostiene che “la realtà prevale sull’idea”, affermare che l’indissolubilità del matrimonio – che è una delle ragioni fondanti, sebbene non l’unica, della sua sacramentalità – sia un “ideale” (irraggiungibile per ammissione stessa la dell’Autore) significa, in ultima analisi, negarne la realtà sacramentale. Senza contare che se si ammette una dimensione “ideale” e irraggiungibile del matrimonio, non si può escludere che tutti gli altri sei sacramenti vivano della stessa idealità: penso ad esempio al Battesimo, non più una realtà da vivere nella libertà, ma un ideale cui tendere, ciò che che porta logicamente a ritenere che anche la comune fratellanza quali Figli non sia una realtà, ma un ideale. Con buon buona pace di San Giovanni, che quando scrive che “siamo realmente” figli, non aveva capito che, siccome “la perfezione non esiste”, Gesù era un idealista.
Quanto al significato storico. Il ritorno alla Chiesa delle origini è un ideale rousseaniamente affascinante: una fede libera da dogmi, in cui il credente per sua stessa natura evidentemente sa in chi e cosa credere. Al di là del fatto che questa è la morte di ogni libertà perché non vi sarebbe alcuna giustificazione nella mancata adesione ad una intelligenza della fede che preesiste alla nostra stessa esistenza (con conseguente dannazione eterna), mi chiedo (ancora con Francesco): il contenuto del depositum acquisito in 2000 anni di storia della Chiesa non sono forse una realtà e un tempo (un “processo”, per dirla nelle categorie del Papa)? Non dovrebbero prevalere sull’idea e sullo spazio? Qual è esattamente il punto di caduta di questo ragionamento? Se oggi, in nome della Chiesa preconciliare, si mette in discussione la realtà dell’indissolubilità costitutiva, ab origine, del matrimonio, chi può escludere che domani si metterà in discussione la dimensione trinitaria di Dio (dogma fissato anch’esso a partire dal IV secolo)? I dogmi non sono, forse, la forma più alta di pastorale? Non ci dicono il contenuto della fede che liberamente decidiamo di fare nostra? Quando avremo messo in discussione – in nome del primato del “processo” – la Trinità, potrò ancora guardare chi mi siede accanto alla Messa ritenendo che entrambi preghiamo lo stesso Dio? O non saremo piuttosto delle monadi, irriducibilmente destinate a credere ognuno nel proprio Dio? Non è pastorale questa? Quando avrò messo in discussione l’indissolubilità del matrimonio, potrò ancora guardare la mia ex moglie che in quell'”ideale”, magari a differenza mia, ci credeva “nella carne”? E cosa le risponderò quando lei mi dirà che non c’è scritto proprio da nessuna parte, nei Vangeli, che quando Gesù ribadì l’indissolubilità del matrimonio si riferiva solo ad un ideale irraggiungibile? E cosa le risponderò quando mi chiederà perché, secondo me, i discepoli, dopo aver udito quella Parola, Gli abbiano chiesto “chi vorrà ancora sposarsi?”, ciò che certamente porta ad escludere che il richiamo di Gesù fosse stato percepito dai presenti (altro che IV secolo!) come idealità?
E allora? L’anticristo risiede in Santa Marta? Niente di tutto ciò. C’è solo un guaio. E il guaio è che il Papa è cattolico, ma i suoi quattro principi, oltre a non voler dire niente, non hanno fondamenti né teologici, né filosofici e questo consente ai numerosi non cattolici che ingrossano le fila dei cattolici (tra i quali per quanto mi riguarda possono benissimo rientrarvi alcuni cardinali) di “arruolarlo” forzandone il dettato. In fondo, lo aveva detto anche Paolo VI che all’interno della Chiesa Cattolica c’è un pensiero non cattolico che un giorno potrebbe anche divenire maggioritario.
Se c’è un senso nel recuperare l’esperienza della Chiesa primitiva, io lo vedo nel comprendere che quella Chiesa nulla aveva a che vedere con i battesimifici, i matrimonifici, i cresimifici che oggi conosciamo. La Grazia non è mai a buon mercato (lo diceva un luterano, quindi vale doppio), ma i nostri Parroci e Vescoci sembrano averlo dimenticato. “Volete andarvene anche voi?” – chiede Gesù ai dodici dopo aver esposto la sua dottrina e dopo che, per questo, “molti dei suoi discepoli” si erano “tirati indietro” e “non andavano più con lui”. Questa e la misura dell’Amore richiesto. Altro che ideale.
Ho l’impressione che Lorenzo non abbia letto attentamente l’articolo. L’autore non afferma che l’indissolubilità è irraggiungibile. Scrive solamente che è impossibile essere perfetti com’è perfetto il Padre che sta nei cieli. Inoltre affermare che l’indissolubilità è un ideale non equivale alla sua negazione. Anche la santità è un ideale; chi intende negarla? Tradurre in rigide forme giuridiche la teologia, l’etica, la spiritualità equivale a negare lo Spirito e la Vita.
Alfonso