Visione conciliare
Secondo il concilio Vaticano II, la Chiesa è il popolo di Dio che cammina nella storia. Tutti i membri di questo popolo, grazie al loro senso della fede, ricevono dallo Spirito Santo la capacità di comprendere sempre più profondamente il contenuto della fede cristiana e di applicarlo sempre meglio alla vita, pur sotto l’orientamento del magistero (LG 12). In effetti, nella visione conciliare, il cristianesimo non è semplicemente l’adesione ad un insieme di verità, ma ben più ampiamente un’esperienza di salvezza che è vissuta e trasmessa dai credenti nella forma di una Tradizione e, in questo processo, anche il contenuto dottrinale della fede tende a svilupparsi, pur all’interno di una fondamentale continuità (DV 8).
Il fatto che lo Spirito guidi la Chiesa ad una comprensione sempre più profonda dell’esperienza cristiana ha fondamentali ricadute pastorali. Ogni comunità cristiana non può mai cessare di porsi alcune domande: quali aspetti dell’esperienza cristiana lo Spirito ci sta facendo comprendere in modo migliore? Che cosa questo comporta in concreto, nella situazione in cui ci troviamo? Come possiamo riformare la nostra comunità perché sia più fedele alla volontà del Signore? Tutto questo fa sì che una comunità possa evitare di assestarsi su una mera e mortifera ripetizione di quello che si è sempre detto e fatto, e che possa vivere una continua e appassionata ricerca della volontà di Dio a suo riguardo.
Profili ecclesiali
Esistono però almeno due modi diversi di accostarsi a queste domande, che corrispondono a due profili ecclesiali differenti, ugualmente legittimi e complementari tra loro. Il primo modo è quello dei veri profeti e di quei teologi il cui servizio è positivamente recepito dalla comunità ecclesiale. Il loro compito è quello di vedere il più lontano possibile, cioè di cogliere fino in fondo le esigenze della parola di Dio così come può essere compresa nel tempo presente, e di mettere la Chiesa davanti a percorsi di riforma esigenti e radicali. Questo modo di ascoltare la Parola, ovviamente, non dimentica la realtà concreta e i suoi limiti, anche perché tale ascolto è possibile soltanto prendendo sul serio il contesto in cui si vive. Tuttavia il compito di queste figure ecclesiali è quello di immaginare una forma di Chiesa ideale, con caratteristiche che ancora non ha, e dunque non possono lasciarsi limitare dalla preoccupazione di come sarà possibile realizzare tale riforma. E poiché non tutti i membri del popolo di Dio hanno gli strumenti per vedere così lontano, è naturale che queste figure non siano sempre apprezzate.
Il loro approccio alla parola di Dio, però, non basta. Se, infatti, si cala un modello ideale di Chiesa direttamente nella pratica pastorale, senza alcuna mediazione, nascono inevitabilmente tensioni molto forti all’interno delle comunità cristiane. Molti credenti non capirebbero una visione troppo diversa dall’attuale, o non avrebbero le forze per viverla. Occorre, dunque, un’altro modo di accostarsi alla Parola di Dio che è complementare a quelli indicati.
Si tratta dello stile del pastore. Questi si avvantaggia del contributo di profeti e teologi, ma poi si chiede: fra gli elementi che caratterizzano una forma ecclesiale rinnovata, quali sono quelli sui quali posso ottenere un certo consenso delle persone della mia comunità? Il pastore, insomma, non è preoccupato solamente degli obiettivi a cui lo Spirito sta guidando l’intera Chiesa, ma anche di favorire la sua azione nelle singole persone del suo gregge, proponendo cambiamenti che siano effettivamente alla loro portata e cercando, per quanto possibile, un fondamentale consenso.
Il passo del pastore
Percorrendo questa strada, la riforma della Chiesa diventa enormemente più lenta. Tuttavia, chi presiede una comunità cristiana non può avere fretta: se assume lo stile del profeta o del teologo e riversa sulle persone delle istanze che esse non possono comprendere o condividere, finisce per restare solo o – peggio – per diventare la guida di un gruppetto di eletti, che però non è l’intera comunità che gli era stata affidata.
La Chiesa, dunque, ha bisogno di profeti e di teologi che le pongono davanti prospettive molto elevate, ma anche di pastori che abbiano l’umiltà di adattarsi al livello delle proprie comunità per proporre loro un cammino effettivamente possibile. Certo, gli aspetti fondamentali della fede non potranno mai essere messi in discussione, neppure per venire incontro alla maggioranza. Sulle conseguenze pastorali di tali principi, però, non vi potrà essere che uno stile di dialogo e di convincimento. Per questo – come dice papa Francesco – il pastore assume l’odore del gregge: accettando di condividere il cammino della sua comunità e scegliendo di essere pastore per tutti e non solo per qualcuno, egli finisce per essere segnato profondamente, nel bene e nel male, dalle qualità della propria gente, ma anche dai suoi limiti e dalla sua fragilità.
Ascolto e proposta
È molto difficile vivere questo stile. Ogni pastore, soprattutto se ha approfondito gli studi teologici in qualche settore, è portato a tradurre in modo diretto le sue convinzioni o quelle maturate nel dibattito teologico nella pratica pastorale senza passare attraverso un percorso di ridimensionamento alla luce della maturità della sua comunità. Vi è però anche la tentazione contraria, cioè quella di limitarsi a ripetere quello che si è sempre detto e fatto, evitando così qualunque tipo di conflitto, se non con le persone più formate e intelligenti che, in situazioni del genere, si trovano sempre a disagio. Questo però significherebbe chiudere le orecchie alla voce dello Spirito, che guida sempre la sua Chiesa alla conversione.
La capacità di stimolare la propria comunità verso una continua riforma e di costruire nello stesso tempo un cammino effettivamente possibile e ampiamente condiviso rappresenta forse la sfida più grande di ogni ministero pastorale.