L’articolo di Domenico Marrone (SettimanaNews, qui) prende le mosse indicando il problema per preti e religiosi. E certamente le fatiche sono le stesse, ma credo che, nell’affrontarle, faccia la differenza pensare che il celibato non è eliminabile per la vita religiosa mentre lo è per il prete: benché antica, il celibato dei preti è una regola ecclesiale.
E per altro se ne discute molto oggi: l’opportunità di tale regola è, infatti, messa in discussione. Questo è un dibattito infinito, che forse purtroppo non risolverebbe molte situazioni e che diventa sempre più difficile da aprire seriamente, perché, mentre fatichiamo a parlare di preti sposati, sappiamo che dovremmo subito considerare anche la figura del prete separato. Inoltre, è chiaro che dovrebbe cambiare la figura del prete e quella ecclesiale, in un circolo virtuoso che oggi mi sembra inimmaginabile.
Nel frattempo è importante trovare una via d’analisi che aiuti ad uscire da una situazione taciuta a livello di magistero, così mi risulta per l’Europa. Sono a conoscenza del documento della Conferenza episcopale nazionale del Congo (CENCO) che ha pubblicato nel marzo del 22 Alla scuola di Gesù, esattamente sul tema preti, castità e paternità.
Qui non abbiamo preti che, alla luce del sole, vivono con moglie e figli, ma esiste un sottobosco di celibi in apparenza.
Alcune sottolineature senza pretesa di completezza. Vivere il celibato porta con sé il rimando al vivere le relazioni, il bornout e il potere, e inserire questi elementi nell’analisi non è aggiungere un capitolo sociologico a quello della spiritualità.
Per le relazioni credo sia importante mettere in luce la consapevolezza di essere uomini, maschi. Senza cadere nella complementarietà tra i sessi, è pur vero che la relazione con l’altro sesso è una dimensione che attira e alla fine può aiutare uomini e donne.
Evidentemente per un celibe la questione è di saper vivere amicizie che siano consapevoli che le caratteristiche del registro amicale con una persona dell’altro sesso hanno una loro specificità, da maneggiare con cura. Sembra invece, con un po’ di generalizzazione, che si passi dal rifiuto ad atteggiamenti che superano l’amicizia.
Per i preti, come per ogni ambiente monosessuale, forse è importante ricordarsi che comunque si è sempre “la metà del cielo”. Il prete, presidente della celebrazione, ma poi, di fatto, presidente di tutto, può perdere di vista la consapevolezza che gli uomini sono solo una parte del mondo.
Poi ci sono i preti omossessuali. Pure in questo caso l’amicizia con altri uomini è da vivere nella consapevolezza di sé e del delicato equilibrio che si vive nell’amicizia tra attrazione e fraternità.
Per semplificazione, forse non lontana dal vero, potremmo indicare nel bornout, o anche solo nella fatica poco soddisfacente della vita del prete oggi, la radice di gesti che sono puro uso dei corpi per compensazione.
Affrontare i temi appena indicati della presidenza totale e dell’immagine di Chiesa conseguente sarebbe un aiuto a indagare la questione. Per impiegare un’immagine veloce potremmo dire così: finché l’altare è elevato da gradini, e non è allo stesso livello dell’assemblea, l’immagine dell’uomo solo al comando vince e rovina.
In questo ha poi spazio il tema del potere, vero e proprio. A questo è collegato il vissuto del prete, che porta a gesti di abuso psicologico. Quando nascono “amori” con persone giovani, la figura forte del “don” non ha forse esercitato tutto il suo potere?
E poi la terribile pedofilia, su cui credo non ci siano più parole da aggiungere.
Giustamente l’articolo di Marrone indica la necessità di togliere il tabù della sessualità del prete. La diffusione di celibi-non celibi è tale che chiede però di allargare il ragionamento. E nel frattempo? Perché non tornare al sano principio paolino: è meglio sposarsi che bruciare (1 Cor 7,8)?
Ma forse di questo hanno paura i celibi, che perderebbero molto, e i superiori che si chiedono con quanti preti potrebbero rimanere.
Ringraziando per la profondità e fecondità di questi due articoli su “La sessualità del prete”, vorrei rilanciare la riflessione, richiamando una dimensione del problema ben poco trattata. Si tratta più in generale del ruolo della corporeità nell’amicizia in generale; quindi non solo in quella del prete. Purtroppo, a livello di vissuti quotidiani, prevale la visione semplificata, per la quale la corporeità è stata completamente sdoganata per le relazioni di coppia; mentre, quando si tratta di amicizia tra un uomo ed una donna, la questione viene di fatto pensata solo come una relazione esclusivamente psicologico-spirituale; come se all’improvviso le persone coinvolte potessero eliminare la loro corporeità. Questo, che è un indiscutibile retaggio di preconcetti secolari relativi alla corporeità, crea inevitabili conflitti di coscienza e spinge verso più o meno velate forme di ambiguità. Se poi a tutto ciò, aggiungiamo una malsana visione sacrale della figura del prete, ecco che la questione può assumere veri e propri risvolti drammatici.