«I presbiteri, avendo presente la pienezza del sacramento dell’ordine di cui godono i vescovi, venerino in essi l’autorità di Cristo supremo pastore. Siano dunque uniti al loro vescovo con sincera carità e obbedienza. Questa obbedienza sacerdotale, pervasa dallo spirito di collaborazione, si fonda sulla stessa partecipazione del ministero episcopale, conferita ai presbiteri attraverso il sacramento dell’ordine e la missione canonica» (PO 7).
«Tra le virtù che più sono necessarie nel ministero dei presbiteri, va ricordata quella disposizione di animo per cui sempre sono pronti a cercare non la soddisfazione dei propri desideri, ma il compimento della volontà di colui che li ha inviati (…). Con questa umiltà e obbedienza responsabile e volontaria i presbiteri si conformano sull’esempio di Cristo, e arrivano ad avere in sé gli stessi sentimenti di Cristo Gesù, il quale “annientò sé stesso prendendo la condizione di servo…, fatto obbediente fino alla morte” (Fil 2,7-8) e con questa obbedienza ha vinto e redento la disobbedienza di Adamo, come testimonia l’Apostolo: “Come infatti per la disobbedienza di uno solo i molti furono costituiti peccatori, così per l’obbedienza di quel solo, i molti saranno costituiti giusti (Rm 5,19)» (PO 15).
«Tra le virtù che più sono necessarie nel ministero dei presbiteri, va ricordata quella disposizione d’animo per cui sempre sono pronti a cercare non la propria volontà, ma il compimento della volontà di colui che li ha inviati» (Pastores dabo vobis, 28).
Ministero e gerarchia
Il ministero presbiterale deve inserirsi nella comunione gerarchica di tutto il corpo, nutrendosi soggettivamente della fede e della libertà e rimanendo vincolato oggettivamente ai superiori (papa e vescovo) per potersi mettere effettivamente al servizio dell’edificazione del corpo di Cristo. Con questa obbedienza, “responsabile e volontaria”, i presbiteri si conformano a Cristo obbediente.
Sulla questione dell’obbedienza vi fu un interessante confronto tra i padri conciliari nell’ottobre 1965, nella fase finale dell’elaborazione del decreto. Alcuni avrebbero voluto leggere un’affermazione più netta della necessità che i presbiteri obbedissero ai vescovi, mentre altri auspicavano un’obbedienza attiva, più responsabile e collaborativa, e rigettavano ogni forma di episcopalismo[1].
Nel testo definitivo è notevole l’affermazione della libertà dei presbiteri proprio nel contesto del dovere di obbedire, che è stato talvolta inteso come consegna acritica e passiva ai superiori.
Il decreto invece ritiene che proprio un’obbedienza «responsabilis et voluntaria» – come leggiamo nel testo – «porta a una più matura libertà di figli di Dio». La libertà del presbitero non viene quindi intesa in senso alternativo all’atto di obbedire al vescovo, ma in senso integrativo. Una vera obbedienza, in altre parole, è esercizio di una più matura libertà; e una vera libertà, per il presbitero, comporta l’obbedienza.
Per spiegare questa relazione il testo declina la libertà dei presbiteri in due direzioni, delle quali la prima si può definire pastorale e la seconda spirituale.
Si può indicare come libertà pastorale il triplice compito dei presbiteri, indicato dal testo:
- cercare prudentemente vie nuove per il maggior bene della Chiesa;
- rendere note con fiducia le loro iniziative;
- esporre con passione i bisogni della comunità ad essi affidata.
Così i presbiteri sono inviatati a portare avanti, sebbene «prudenter», iniziative che non siano semplicemente l’esecuzione di direttive ricevute dai vescovi; e sono invitati inoltre a sostenere davanti agli altri fratelli presbiteri e al vescovo le parti delle comunità di cui sono responsabili.
Si può indicare come libertà spirituale la disponibilità a sottomettersi al giudizio dei superiori: questo atteggiamento infatti richiede il distacco da sé stessi e dai propri progetti individuali, che a volte possono costituire una catena e quindi togliere la libertà interiore, affidandosi a coloro che sono posti a guida della Chiesa e quindi rimettendo alla fine al loro giudizio le decisioni opportune.
Il rapporto dei presbiteri con il proprio vescovo viene basato sull’obbedienza e sulla fiducia, a cui deve corrispondere, da parte del vescovo, affetto paterno e amicizia.
Questa duplice libertà, per il concilio, è componente dell’obbedienza e non alternativa o estranea a essa: «L’obbedienza non è subordinazione né atteggiamento formale; non si esaurisce nemmeno nella sottomissione alla volontà del vescovo, ma è un’esigenza comunitaria, profondamente inserita nella comunione del presbiterio – lo “stato di famiglia” del prete – e si concretizza nei gesti quotidiani di concorde collaborazione, che da essa scaturiscono» [2].
Obbedienza e franchezza
Per fede i presbiteri vivono l’obbedienza e la franchezza, cercano il confronto e l’accompagnamento, si riferiscono al vescovo con le loro domande e proposte perché credono che l’unico Spirito rende tutti un cuore solo e un’anima sola e illumina e guida tutti.
«L’obbedienza è la virtù che modera l’autosufficienza»[3]. L’obbedienza è una virtù difficile. Eppure è estremamente necessaria. Soprattutto in questo momento della vita della Chiesa. Da parte di molti si tenta di presentarne un concetto deformato, come di una virtù passiva che mortifica i valori della libertà e della dignità dell’uomo creatura e figlio di Dio. Può costare molto. È la penitenza della nostra ragione (san Francesco di Sales), è il migliore olocausto (san Filippo Neri).
È una virtù che non gode buona salute nel clima culturale odierno, soprattutto in chi non la “abita” in maniera corretta. L’obbedienza è strettamente collegata a un ascolto fedele (ob-audire); è la risposta libera di qualcuno che ascolta e riconosce la grandezza di chi (o di ciò = la coscienza) gli sta davanti; è assenso libero nei confronti di ciò che abbiamo compreso essere la cosa giusta.
Quindi, obbedienza non è cieca sottomissione alla legge imposta; bensì, come sottolineava il pastore luterano Dietrich Bonhoeffer, è adesione libera «per intima convinzione, in piena consapevolezza e con animo lieto»[4].
L’obbedienza comincia dall’ascolto della propria coscienza, a cui segue l’agire convinto e coerente, nella libertà. Non può obbedire chi è privo di una coscienza libera, consapevole e formata. In nome della libertà di coscienza si può giungere a disobbedire alle leggi scritte dagli uomini.
L’ubbidienza umana entra in gioco in modo drammatico nell’accettare l’asimmetria costitutiva della condizione umana: si è creatura e non Creatore. È questa ubbidienza che viene richiesta dalla condizione umana come unica premessa e garanzia di ogni umana ubbidienza e di ogni appello alla sacralità legittimata della coscienza. Nessun uomo può definirsi o essere definito Dio e può quindi chiedere o dare ubbidienza assoluta. Solo quando si accetta pienamente l’identità di creatura – figlio di Dio o della vita – sarà possibile la danza che nasce dal gioco della propria soggettività con quella altrui.
Vi è un’obbedienza fondamentale che ogni uomo è chiamato a fare alla propria storia, alle proprie origini, al proprio corpo, alla propria famiglia, insomma a una serie di situazioni e persone, tempi e luoghi, eventi e condizioni che l’hanno preceduto, fondato, e su cui egli non ha avuto alcuna presa o possibilità di scelta e di decisione… Un credente legge questa obbedienza come “creaturale” e vi riconosce quell’accettazione dei limiti che è costitutiva della creatura di fronte al Creatore e che consente all’uomo di diventare uomo fuggendo la tentazione della totalità, cioè di ergersi a Dio.
Le mediazioni
Alla luce di questa obbedienza al fondamento, si possono comprendere e vivere le altre obbedienze alle istanze mediatrici della volontà di Dio. Nella Chiesa le diverse articolazioni dell’autorità sono di ordine “sacramentale”: rimandano all’unico fondamento che sta in Dio e nel popolo a lui legato dall’alleanza. Vi è per esempio un’autorità… a) istituzionale, i vescovi; b) nell’ordine della competenza, i teologi; c) nello spazio del carisma, i profeti. Queste tipologie di autorità vanno armonizzate nell’unico corpo ecclesiale.
Su ogni forma e tipologia di obbedienza cristiana deve regnare il Vangelo e tutto deve essere sottoposto al criterio decisivo del Vangelo: se, dunque, ciò che viene comandato è contrario a questa unica norma normans, se le mediazioni della volontà di Dio (autorità ecclesiastiche, dottrine teologiche, regole monastiche, riti cultuali ecc.) si sostituiscono a Dio e pretendono obbedienza per se stesse, allora al cristiano si apre la strada che, da un “dissenso leale”, può giungere fino all’obiezione di coscienza.
Nelle decisioni personali è di importanza massima, per essere e restare umani, obbedire alla coscienza prima che a chiunque altro, e anche contro ogni altra autorità, comando, legge, usanza, convenienza.
L’obiezione di coscienza è un’obbedienza, altra e superiore: «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 4,19, e prima Socrate, nell’Apologia 29-d). È obbedienza a Dio tramite la coscienza, e per chi non pensa Dio è obbedienza all’istanza più alta, più propriamente umana, sicché il disobbedire a questa essenza di sé sarebbe rinnegare la propria dignità. Chi non crede che Dio esista può pensare che, con l’obbedire alla propria coscienza, darebbe ascolto a lui nel caso che esista.
Non possiamo tacere il difficile rapporto tra obbedienza e coscienza nel cuore dell’uomo. «Certamente se io dovessi portare la religione in un brindisi dopo un pranzo – cosa che non è molto indicato fare – allora io brinderei per il papa. Ma prima per la coscienza e poi per il papa». È il teologo Ratzinger che, nel suo L’Elogio della coscienza[5], cita questa famosa battuta del card. Newman. La coscienza come il luogo sacro della più radicale e intima soggettività. L’uomo è uomo se decide la sua vita ubbidendo alla propria coscienza.
Rivendicare il primato della coscienza altro non è che riconoscere la dignità del soggetto. Il rispetto della coscienza come «sacrario» inviolabile e originario dell’esistenza umana (GS, 16). E nessuno può sostituirsi alla coscienza dell’altro. Lo ribadisce in modo categorico, sul registro educativo, papa Francesco in Amoris laetitia.
Intimamente legato all’obbedienza è il tema della coscienza. L’ubbidienza ha senso come scelta di fiducia e di amore che non può mai richiedere l’annullamento della propria coscienza.
Figure della coscienza
L’etica della coscienza responsabile non porta alla ribellione all’autorità «fino a quando la mia coscienza non è posta nella dolorosa alternativa di obbedire a Dio piuttosto che agli uomini (Atti 4,19)», affermava don Primo Mazzolari. «Il regolamento è l’oppio della coscienza. Se non ci fosse il regolamento, il gemito di quel morente lungo la via non mi darebbe requie (…). I samaritani, cioè gli uomini che non conoscono il regolamento, ci precederanno nel regno di Dio».
Si deve ricordare che Mazzolari continuò a scrivere su Adesso, con vari pseudonimi, nonostante il divieto canonico imposto con fragili motivazioni opinabili, e questo faceva «non per disinvolta improntitudine, ma con meditata e serena consapevolezza». In quella singolare esperienza di Mazzolari bisognerebbe scoprire l’indicazione evangelica che ripropone l’obiezione di coscienza anche dentro le istituzioni della Chiesa.
Ora, la Chiesa educa alla coscienza o all’obbedienza passiva? Non possiamo azzardare una risposta semplicista, ma sentiamo che il problema esiste. Chi di noi è nella Chiesa vi sta per ascoltare e obbedire (ob-audire, udire protesi verso chi ci parla, in un rapporto personale di avvicinamento e con-cordia) allo Spirito di Dio, cercato e accolto insieme ai fratelli.
Non possiamo ignorare la «difficoltà di ascoltare profondamente e di accettare di essere trasformati da questo ascolto, la mancanza di processi comunitari di ascolto e discernimento (…). Il permanere di ostacoli strutturali, tra cui: strutture gerarchiche che favoriscono tendenze autocratiche»[6].
«È importante costruire un modello istituzionale sinodale come paradigma ecclesiale di destrutturazione del potere piramidale che privilegia le gestioni unipersonali. L’unica autorità legittima nella Chiesa deve essere quella dell’amore e del servizio, seguendo l’esempio del Signore» (CE Argentina)[7]. «Una spiritualità sinodale non potrà che essere una spiritualità che accoglie le differenze e promuove l’armonia, e attinge dalle tensioni le energie per proseguire nel cammino»[8].
L’esercizio dell’autorità
Che qualcuno sia designato in funzioni di insegnamento e autorità, è una ben comprensibile necessità comunitaria. Ma non ogni atto delle autorità è volontà di Dio. Ogni funzione ecclesiale è sotto quella parola di Gesù: «Ma tra voi non sia così», che differenzia costituzionalmente la Chiesa dalla prassi prevalente nelle nazioni, i cui capi spadroneggiano e pesano sui popoli (Mt 20,25-28).
San Francesco evidenzia il possibile disaccordo tra il fratello e il suo superiore. Laddove insorgono divergenze di vedute, il fratello deve rinunciare volentieri alle cose che vede migliori e più utili alla sua anima di quelle che gli ordina il superiore, e tale rinuncia è a lui riferita come obbedienza caritativa.
Nella tensione comune verso la comprensione della volontà di Dio ci possono essere delle divergenze su ciò che è meglio fare. A partire dai ruoli di servizio assegnati all’interno della fraternità, Francesco chiede al fratello di consegnare la sua autonomia con un atto di libertà, e con un atto di carità, espressione della fiducia nella manifestazione dell’amore di Dio visibile nella diversità dell’altro. Tale fiducia nasce dal comune desiderio di fare la volontà di Dio non assecondando la tentazione del potere.
San Francesco sottolinea anche un’altra possibilità: «quando il prelato comanda al suddito qualcosa contro la sua anima, pur non obbedendogli, tuttavia non lo abbandoni». Invita a ritirare la propria disponibilità ad obbedire quando la cosa richiesta fosse contraria alla propria anima, dentro un legame di alleanza fraterna che non ammette mai l’esclusione del fratello.
Francesco d’Assisi nella terza parte della terza Ammonizione dichiara che il frate non deve obbedire quando il superiore gli dà un comando contrario alla coscienza. Ma subito dopo indica il segno che garantisce della validità del giudizio della coscienza del frate: che non si separi dal suo superiore, che resti nell’amore. In altre parole, con una chiarezza geniale, Francesco afferma – in piena originalità nei confronti della spiritualità monastica del tempo – che l’obbedienza (anche quella religiosa) tra gli umani ha senso solo come amore.
Pensiero e coscienza hanno un compito irrinunciabile anche nell’ascoltare la parola del magistero, nei differenti gradi di importanza dei suoi pronunciamenti. Che si accetti con fiducia e senza difficoltà quella parola, o invece con una ricezione critica, sempre la coscienza deve essere all’opera ed è più impegnata nella critica che nell’acquiescenza. Quando l’insegnamento non persuade, la coscienza è sollecitata, e questo non è male.
Il pericolo non viene dall’essere critici, ma dal non esserlo abbastanza. In qualunque società o comunità, il contributo migliore è di chi persino “dà fastidio” e “pianta grane”, non di chi è sempre tranquillo, non pone mai problemi, di chi tace anche quando dovrebbe parlare e dissentire, col rischio di fare degli sbagli o persino del male senza volerlo. L’arcivescovo di Torino, il card. Michele Pellegrino, diceva di preferire, tutto sommato, i preti che gli ponevano problemi a quelli troppo passivi.
Don Milani era un “obbediente scomodo”; l’obbedienza cioè non era per lui acquiescenza, e neppure rassegnazione o accettazione passiva; era libertà di parola, correzione filiale, dissenso leale e aperto, nella caparbia volontà di rimanere dentro la Chiesa e vedersi riconoscere dai superiori.
Nient’altro ha fatto soffrire don Milani quanto l’indifferenza, il sospetto e l’ostilità che percepiva dalla Curia fiorentina e, in parte, anche dal vescovo. D’altronde, non era certamente semplice stare dietro a un carattere forte come quello di don Lorenzo, dotato di un linguaggio tagliente e provocatorio e di una personalità allergica a ogni compromesso[9].
Vangelo e dissenso
La possibilità, il coraggio e l’umiltà del dissenso sono l’altra faccia dell’obbedienza, senza di cui l’obbedienza è cosa vuota, indegna. E questa è anche l’altra faccia della coesione necessaria in una comunità, che viene dal fare insieme le stesse cose tanto quanto dal cambiare le abitudini per fare cose migliori, al di là di ogni retorica sulla comunione intesa come unanimismo e omologazione. «Alcuni operatori pastorali, chierici e laici, a volte preferiscono circondarsi di coloro che condividono le loro opinioni e stare lontani da coloro le cui convinzioni sono ostili e in disaccordo con loro»[10].
Particolarmente nella Chiesa, per il riferimento alle più alte ragioni, alla stessa Parola di Dio, si corre il rischio di un’obbedienza sbagliata in nome dei motivi più santi. Ovviamente col senso della misura, e dei propri limiti, ma anche dell’insostituibile funzione di ciascuno nell’ascolto e nell’interpretazione attuale delle ispirazioni più alte, si deve contribuire tutti, dato che in ciascuno parlano la coscienza e la ragione, all’obbedienza comune nell’essenziale, con la giusta libertà nelle cose secondarie, con la carità fraterna sempre.
Un’obbedienza senza libertà, opposta alla libertà, non sarebbe umana, non rispetterebbe l’umanità di chi obbedisce, e questa violazione avverrebbe proprio da parte dell’obbediente, non soltanto da parte del comandante che volesse imporsi. Si tratta sempre di obbedire liberi.
C’è un’obbedienza libera, che onora ed eleva la persona: è l’obbedienza di chi ascolta, ama, si impegna per gli altri, risponde al loro bisogno. E c’è un’altra obbedienza, quella di chi, per non sottomettersi, non si relaziona all’altro, non risponde al bisognoso ma, intendendo star comodo e semmai comandare, si sottomette e obbedisce al potente, del quale vorrebbe condividere e magari poi rapire la forza, e così finisce per essere passivo e complice, la meno libera di tutte le condizioni, la più vile di tutte le obbedienze.
Se non sbaglio, oggi, in taluni convivono una disobbedienza individual-egoista e una obbedienza servile, ignorante, militare, meccanica, conformistica, che è disobbedienza alla vocazione umana superiore. Un’obbedienza cieca che nega la libertà della coscienza, infligge sofferenza e provoca infelicità, perché «l’obbedienza senza libertà è schiavitù, la libertà senza obbedienza è arbitrio»[11].
La prima obbedienza è il rispetto di questo valore inviolabile, negli altri come in noi stessi. Io posso dedicare la mia libertà, rinunciare alla mia decisione, per agire come un altro mi chiede, o per servire il suo valore, la sua vita, o una causa degna. Ma è sempre con la libertà che dedico e spendo la mia libertà; è con la libertà che decido di cedere il mio diritto di decidere.
Nella Chiesa si può distinguere un’obbedienza consapevole, una passiva, una comoda; e così si può trovare una disobbedienza sorda, clandestina, oppure una aperta, motivata (il cattolicesimo del dissenso o critico).
Per i cristiani si tratta anzitutto di obbedienza alla Parola di Dio. La fede è obbedienza (Romani 1,5). Dio è in noi, ci parla nella coscienza e nella Chiesa popolo di Dio lungo la storia, ma nessuno è Dio: «Non chiamate nessuno maestro».
Forse la coscienza è comoda (fare come mi pare e piace)? No, assolutamente. Ma certamente può sbagliare, può inclinare verso risposte di comodo. Perciò una caratteristica della vita della coscienza è la reciprocità, come sottolineava Bernhard Haering.
L’ascolto delle altre coscienze è costitutivo essenziale della ricerca che ciascuno fa nella propria coscienza. Già l’intima coscienza personale non è un solitario auto-ascolto. Infatti, la mia coscienza è un altro in me e, per chi lo ammette, è voce dell’Altro in me.
La coscienza è la parte più intima di me ed è, nello stesso tempo, me e più che me, è me e altro da me, perché mi può confortare ma può anche contestarmi, giudicarmi, rimordermi e castigarmi, premere irresistibilmente fino a farmi cambiare direzione di cammino. Per quanto determinata da tante cose, sebbene non assoluta e non infallibile, la coscienza è autorità, perché è l’istanza che ci fa crescere in umanità e in grazia: è l’ultima autorità, ha questo primato.
Tutti siamo chiamati a vivere un’obbedienza sofferta ma solida. Siamo chiamati a vivere uno stile di obbedienza che comporta la franchezza e rifugge sempre la falsità; e che non rinuncia mai a esporre il proprio pensiero. L’assunto “comunione a tutti i costi”, “unità a tutti i costi” potrebbe portare a una deriva ecclesiale simile alla nozione di armonia alla cinese.
Sentiamo dire che la Cina, da millenni, ha compreso, nella sua sapienza, che non si può vivere senza armonia. E dunque che la grandezza del popolo cinese è sempre stata quella di saper manifestare, in ogni momento e in ogni luogo, questa armonia così benefica per l’uomo. Il problema però è che, se uno non entra nei parametri di questa armonia, viene inviato direttamente in un campo di rieducazione per comprendere il valore insostituibile dell’armonia cinese. Questa non è armonia, è “regime”.
Pensiero, libertà, omologazione
In 1984, George Orwell si era inventato la “Thought Police“, la polizia del pensiero, un espediente narrativo per fornire al sistema totalitario guidato dal Grande Fratello lo strumento di coercizione più invasivo che l’essere umano potesse immaginare e sopportare: il controllo del pensiero ventiquattr’ore su ventiquattro.
Il controllo poliziesco del pensiero significava annullamento del pensiero, cancellazione dell’individuo, schiavitù. «Il Grande Fratello vi guarda», minacciavano le scritte sulle strade di Oceania. I sudditi del regime, di conseguenza, erano costretti a non pensare. Erano costretti ad annullarsi per evitare guai. «Si doveva vivere (o meglio si viveva, per un’abitudine, che era diventata, infine, istinto) tenendo presente che qualsiasi suono prodotto sarebbe stato udito e che, a meno di essere al buio, ogni movimento sarebbe stato visto» – si legge già alle prime pagine di 1984, assieme a Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler.
Appellarsi continuamente alla comunione, l’armonia, l’unità “a tutti i costi”, significa instaurare un clima attraverso cui restringere i limiti di ciò che è consentito pensare, inibire la libertà di espressione, puntando addirittura a controllare la libertà di pensiero. Il tentativo d’imporre nella comunità degli esseri umani forme di pensiero unico o dominante è antico come il mondo.
La diversità è fondamentale: non è semplice da gestire, ma è l’incontro (e lo scontro) tra posizioni diverse a creare lo spazio per far parlare lo Spirito. Non parla a me o a te, ma parla attraverso una comunità che è capace di ascoltarlo solo se lo fa insieme. Il rischio che a volte viviamo è di creare luoghi ecclesiali (consigli pastorali, consigli presbiterali e altri organismi di partecipazione) in cui le persone sono fotocopie le une delle altre.
Sono luoghi rassicuranti, certo, ma anche molto noiosi․․․, dove rischia di non esserci spazio per ascoltare lo Spirito. La conflittualità fa parte della vita di una comunità, di un presbiterio. Non è per forza il segno di qualcosa che non va, anzi, a volte mostra che la comunità diventa uno spazio per parlare liberamente ed essere accolti. La tensione che si crea tra posizioni differenti è ciò che rende la comunità una cosa viva.
È necessario evitare «due delle principali tentazioni che si presentano alla Chiesa di fronte alla diversità e alle tensioni che essa genera. La prima è quella di rimanere intrappolati nel conflitto: gli orizzonti si restringono, si perde il senso dell’insieme e ci si frammenta in sotto-identità. È l’esperienza di Babele e non di Pentecoste, ben riconoscibile in molti tratti del nostro mondo. La seconda è quella di distaccarsi spiritualmente e di disinteressarsi delle tensioni in gioco, continuando a percorrere la propria strada senza coinvolgersi con chi ci è vicino nel cammino»[12].
È necessario assecondare «un desiderio profondo ed energico di forme di esercizio della leadership – episcopale, sacerdotale, religiosa e laicale – che siano relazionali e collaborative, e di forme di autorità capaci di generare solidarietà e corresponsabilità (…). Laici, religiosi e chierici desiderano mettere i propri talenti e capacità a disposizione della Chiesa e per farlo chiedono un esercizio della leadership che li renda liberi»[13].
La ricerca della comunione, dell’unità, dell’armonia nel presbiterio è una bella cosa, a condizione che sia fatta contemporaneamente a quella della libertà di pensiero e di parola, del dialogo, della verità e della giustizia. Ogni forma di pensiero che esclude la libertà o la possibilità di scelta sul piano della ricerca della verità ponendola in relazione alla coscienza interiore e allo spirito critico tende ad escludere quanto di più bello ci sia negli esseri umani, ovvero la ragione, il discernimento e la scelta.
[1] Cf. E. Castellucci, Presbyterorum ordinis. Introduzione e commento, in S. Noceti – R. Repole (a cura), Commentario ai documenti del Vaticano II 4. Christus Domini, Optatam totius, Presbyterorum ordinis, Dehoniane, Bologna, 2017, pp. 444-447.
[2] CONSIGLIO PERMANENTE DELLA CEI, Lievito di Fraternità. Sussidio sul rinnovamento del clero a partire dalla formazione permanente, San Paolo, Cinisello Balsamo 2017, p. 38.
[3] S. Natoli, L’Obbedienza è una «virtù», in Aa.Vv. L’Obbedienza è una «virtù», Editrice Esperienze, Fossano, Edizioni Italia Francescana, Giulianova, 2000, p. 12.
[4] Cf. D. Bonhoeffer, Fedeltà al mondo, Queriniana, 2004.
[5] Cf. Benedetto XVI (Joseph Ratzinger), L’elogio della coscienza, la verità interroga il cuore, Cantagalli, Siena 2009.
[6] Segreteria Generale del Sinodo, “Allarga lo spazio della tua tenda” (Is 54,2). Documento di lavoro per la tappa continentale, ottobre 2022, n. 33.
[7] Ivi, n. 57.
[8] Ivi, n. 85.
[9] Cf. E. Castellucci, «Criticheremo i nostri vescovi perché vogliamo loro bene». Dialogo quasi immaginario con don Lorenzo Milani, in “Rivista del clero italiano”, 9/2017, pp. 575-589.
[10] Segreteria Generale del Sinodo, “Allarga lo spazio della tua tenda” (Is 54,2). Documento di lavoro per la tappa continentale, ottobre 2022, n. 58.
[11] D. Bonhoeffer, Fedeltà al mondo, Queriniana, 2004, p. 97.
[12] Segreteria Generale del Sinodo, “Allarga lo spazio della tua tenda” (Is 54,2). Documento di lavoro per la tappa continentale, ottobre 2022, n. 30.
[13] Ivi, n. 59.
Il potere, inteso come dominio, è l’idolo adorato nella chiesa cattolica, per cui la pretesa dell’obbedienza ne è una conseguenza. La regalità di Cristo non è dominio , ma è servizio. Il Signore e Maestro Gesù ci indica che il potere è servizio, cioè la possibilità di compiere il bene per gli altri. Il rinnovamento della chiesa passa necessariamente dalla rinuncia al dominio sia dentro che fuori la chiesa, per mettere in pratica il Vangelo. Il rigetto di molti preti e vescovi verso una reale sinodalità è provocato dalla non volontà ad esercitare il potere come servizio e dall’idea di autosufficienza, che non sa cogliere le intuizioni dello Spirito Santo negli altri battezzati.
P.S. Ho letto che molti prteti rinunciano a diventare vescovi per il carico di responsabilità, visti gli scandali degli ultimi anni. La sinodalià serve a condividere le responsabilità.
Discorso interessante. Tuttavia manca un particolare che a mio avviso è di non poco conto. Ad un’obbedienza del presbitero verso il suo vescovo deve corrispondere un’obbedienza del vescovo – ob-audire, cioè ascoltare senza pre-comprensioni – verso il singolo presbitero. Altrimenti è l’obbedienza che un soldato deve al suo superiore: il superiore comanda e il soldato esegue. D’altronde – lex orandi, lex credendi! – nel rito il vescovo chiede: “Prometti a me e ai mei successori FILIALE obbedienza?”. L’obbedienza dovuta la vescovo è di tipo filiale, cioè quella di un figlio verso il padre e un padre non ha sempre ragione, può sbagliare e il figlio ha il compito, proprio perché a lui obbedisce, di farglielo presente. Tanti vescovi purtroppo preferiscono avere “Yes, man!” più che figli dell’unico Padre.
Condivido, grazie