Mentre la destra ha raggiunto, con qualche inevitabile scossone, la formazione del nuovo governo, il Partito Democratico è attraversato da ben più gravi problemi esistenziali, legati ad una sconfitta pesante e ripetuta.
I dati elettorali del 2022, infatti, replicano quelli già pessimi del 2018, e si sommano alla “mancata vittoria” del 2013. Insomma, sono quasi quindici anni che il PD non vince un’elezione politica nazionale, dimostrando un chiaro problema di credibilità del suo progetto nel più ampio elettorato del Paese. E trovandosi spesso a governare, ma con maggioranze raccogliticce, che ulteriormente consumano efficacia e credibilità.
Pertanto, non c’è nemmeno da paragonare le tensioni che vive o potrà vivere il centrodestra – puramente di spartizione interna del potere e della visibilità – con quelle dell’attuale sinistra italiana. Sinistra che, invece, l’accesso al potere – tolto quello locale, in qualche regione e comune – sembra averlo perso strutturalmente, nel cuore stesso dell’elettorato italiano, e per effetto di una profonda crisi ideale e delle classi dirigenti.
Ormai, tra gli stessi elettori del PD, c’è tanta stanchezza: molti lo votano per una reale mancanza di alternative; “entusiasmo”, “passione” sono parole che nemmeno più i quadri e le classi dirigenti democratiche riescono a pronunciare sinceramente. Figuriamoci, dunque, gli elettori.
Le domande essenziali che si impongono ai democratici
Ecco allora nascere le domande essenziali, in casa PD e in tutta la sinistra italiana: ha ancora senso il progetto del Partito Democratico, così come nacque dall’Ulivo e al Lingotto, ormai 15 anni fa? E, se sì, in che termini? Cosa resta valido di quella fondazione e cosa è ormai irrimediabilmente perduto? Come ripensare e rilanciare quel progetto unitario di più culture politiche?
Oppure, si deve ridividere il destino del riformismo centrista – di prevalente origine cristianodemocratica – dalla tradizione socialcomunista, come ripropone in questi giorni, tra gli altri, Massimo D’Alema?
Si può tornare ad una unità di azione di una sinistra-sinistra, inclusa quella (vera o presunta) di matrice populista, con un progetto “alla Mélenchon”?
E un simile progetto potrà tornare ad avere successo nel Paese e avere qualche possibilità di alleanza sensata (nel senso di omogenea, affidabile in chiave di possibili future coalizioni di governo) col nascente “Terzo polo” centrista?
O una simile sinistra finirebbe inevitabilmente per avvicinare Calenda e soci al centrodestra o almeno ad una classica politica centrista dei “due forni”?
Infine – peggio ancora – finirebbe per consegnare la secolare tradizione socialcomunista italiana alla leadership populista di Giuseppe Conte?
Sono tutte domande molto importanti, di identità e di strategia politica, che il Partito Democratico dovrebbe porsi col futuro prossimo congresso, annunciato da Letta da qui a marzo 2023.
Per l’esperienza che abbiamo di precedenti assise del PD (anche con pretese rifondative o riformatrici) sarebbe già un enorme successo se da quel congresso uscissero delle risposte chiare alle suddette domande essenziali. Almeno a qualcuna.
Il rischio di un congresso sui nomi e sui problemi immediati
La cosa di gran lunga più probabile cui assisteremo è un congresso per scegliere un nome, quello del futuro segretario, con la convinzione che da quel nome possano poi discendere le soluzioni alle domande suddette. Quanto meno, a quella sul posizionamento e le alleanze (Terzo polo e/o Cinquestelle): perché, di tutte le domande “esistenziali” che attraversano il PD, oggi questa sulle alleanze sembra l’unica che ci si riesce a porre seriamente. Cioè: la domanda di come trovare una scorciatoia per tornare a governare.
Del resto, tenere un congresso – che si pretende rifondativo – mentre si deve votare in Lombardia e in Lazio (ossia le due regioni più popolose e visibili del Paese) non è facile.
Inevitabilmente, le posizioni congressuali si scontreranno con l’esigenza pragmatica di definire una linea sensata verso il tentativo Moratti in Lombardia, o per dirimere il caos balcanico generatosi nel Lazio per la successione a Zingaretti, con ipotesi che vanno dal “campo largo”, all’accordo solo coi M5S, fino alla tragica corsa da soli.
Il rischio enorme, insomma, è che il congresso PD tratti solo di leadership e di alleanze a breve.
Naturalmente, come abbiamo già capito dagli interventi alla Direzione post-elettorale, la discussione sulle alleanze non mancherà di essere “condita” con i consueti temi riorganizzativi interni, che chi ben conosce le adunanze del Partito Democratico ha sentito richiamare tante volte, come una sorta di cifra retorica costante: il rinnovamento della classe dirigente, l’apertura ai sindaci e ai territori, il ritorno alla centralità dei circoli e degli iscritti, il maggiore accento verso donne e giovani, e così via.
Tutti temi importantissimi e sulla cui buona fede non ci permettiamo di giudicare: ma è evidente il fatto che tutti questi temi – posti in campo ad ogni congresso, immancabilmente, da anni – servono solo da richiamo per le allodole – sempre più sparute – e mai hanno trovato una reale soluzione e una fattiva risposta.
Ma da uno schema di discussione di questo tipo (leader+alleanze+retoriche riorganizzative) ben difficilmente potrà uscire un reale rinnovamento del progetto del centrosinistra italiano, la rinascita che tanti invocano.
Ben difficilmente da questo tipo di congresso – anche se fosse davvero celebrato in forme aperte, innovative – verranno le risposte alle domande essenziali.
E ancora meno troveremo nelle tesi congressuali del PD – sempre ammesso che si scrivano e che ce ne siano di contrapposte – le reali questioni di fondo che minano alla base, oggi, l’identità delle sinistre. In Italia, come in gran parte del mondo.
Una sinistra in difficoltà globale
Con una sintesi estrema e banalizzante, possiamo dire che, in quasi tutta Europa, la sinistra storica – di matrice socialdemocratica – è in crisi profonda. Scomparsa in Francia, affannata con alleanze complicate in Germania e Spagna, sconfitta recentemente in Svezia… In Inghilterra il Labour ha perso sistematicamente le ultime quattro elezioni. Non bastano Portogallo, Finlandia, Malta o Danimarca, per salvare il quadro europeo.
Anche in chiave mondiale, l’India – la più grande “democrazia” del pianeta – è in mano conservatrice. Se si esclude il Sudafrica, col partito fondato da Mandela, solo in America Latina sembra essere in corso una ripresa strutturale delle sinistre; tuttavia, la risicata vittoria di Lula in Brasile – per quanto importante per tutto il continente – non sembra segnare un grande rilancio, una strada da percorrere con sicurezza.
In Nordamerica, il Canada è liberale-centrista. Gli USA sono invece governati dai Democratici: ma sappiamo bene come i Dem americani siano un partito non comparabile con la sinistra europea, all’interno di una politica che ha troppe peculiarità per vedere in Biden – peraltro in grave difficoltà di consenso nel Paese – una chiara guida o una speranza per la sinistra mondiale.
Sinistra che, nei paesi sviluppati, vince ormai esclusivamente in poche enclaves identitarie, e nei centri urbani, dove vivono le classi medie e medio-alte culturalmente più avvantaggiate.
Un fenomeno, questo del voto “pariolino” alla sinistra, che, lungi dall’essere solo italiano, si verifica in tutto il mondo. Da Parigi a Londra, da Edimburgo a Washington DC: i centri-città votano tutti a sinistra. Persino nel Texas trumpianissimo Dallas, Austin, Houston votano Dem: poi basta fare poche miglia e, in periferia, il voto si inverte completamente.
Cos’è la sinistra, oggi?
Forse questa sarebbe l’unica domanda davvero fondamentale, cui dare risposta. E a cui – temiamo molto – in Italia non se ne darà alcuna o, al massimo, di facciata.
Cos’è oggi la “sinistra”? Come interpretarla nel cuore della società e dell’elettorato? Perché oggi, almeno nei paesi avanzati, votano a sinistra molte élites e classi medie, mentre il voto popolare va più a destra o ai movimenti populisti?
Emerge così chiaramente, in tutta Europa e nel mondo, da anni, la tematica dello statuto ideale e politico delle forze di sinistra, con la necessità di un’analisi storica e sociale che ben difficilmente un congresso nazionale – per quanto a intento rifondativo – riuscirà a porsi.
Non abbiamo qui lo spazio per un’analisi storica e politologica approfondita, che pure ci tenterebbe molto.
L’impressione è che la sinistra abbia perso a più livelli l’appuntamento con la storia e, quindi, col cuore e col voto di grandi fasce della popolazione occidentale.
Norberto Bobbio, nel suo famoso best-seller mondiale del 1994, definiva la sinistra come il partito dell’eguaglianza; quello che non accetta che gli uomini siano naturalmente a livelli diversi, che opera per riallinearli economicamente e socialmente, a differenza della destra che accetta come naturale e morale un diverso punto di arrivo per ciascuno.
Significativo, in questo senso, il dibattito sul neonato meloniano “Ministero dell’Istruzione e del Merito”: con la CGIL subito a sottolineare che “merito” è una parola di destra (se non presuppone un lavoro adeguato sul punto di partenza di ciascuno, avrebbe aggiunto don Milani).
Poveri vs ricchi: non basta più
Poveri/ricchi: è davvero ancora questo il cleavage, la faglia sociale su cui identificare destra e sinistra?
Nel terzo mondo, probabilmente, sì. Ma nel mondo occidentale non basta più, come dimostra – appunto – il voto urbano alla sinistra. Perciò è ingenuo e insufficiente ripetere alla noia che è colpa delle sinistre che hanno smesso di frequentare piazze, operai e fabbriche…
Il punto è che la società è cambiata e la tradizionale lettura “classista” della sinistra è divenuta del tutto antistorica.
È così per via del cambiamento del lavoro, perché la fabbrica è sempre meno fordista, il lavoro sempre più lontano da quello del film di Chaplin e della II e III rivoluzione industriale: nell’era digitale, l’operaio è sempre più un lavoratore di concetto, un controllore di macchine digitali, non un produttore manuale; e i numeri di lavoratori manuali, massificati in classe dalla produzione seriale, calano da decenni.
Le nuove sacche di povertà non sono più in questo tipo di lavoro industriale, ma nelle imprese ancora ad alta densità di lavoro manuale (agroalimentare e carni, servizi sociali…), nei giovani scolarizzati a inizio carriera o impegnati nei nuovi servizi logistici e web e, soprattutto, nell’ampia fascia di precari/disoccupati, che derivano da una scuola pubblica sempre meno efficace e capace di fungere da ascensore sociale e reale abilitante verso professioni che cambiano a ritmi elevatissimi.
Gli stili di consumo, i social e i reality sembrano attrarre proprio le classi meno abbienti verso i modelli culturali e mentali di chi ha i soldi e si permette beni e vacanze.
I modelli di empowerment di molti giovani – basta seguire i social e i loro messaggi “motivazionali” – virano drammaticamente verso il successo individuale in termini economici. Secondo la tradizionale classificazione di Bobbio, sono culture massive di destra, ma diffuse ora anche tra i “poveri” e i “nuovi lavori”.
La curiosa sinistra delle libertà individuali
La sinistra ha quindi perso strutturalmente nella capacità di leggere questi fenomeni epocali e di individuare, di conseguenza, nuovi “diritti sociali”, collettivi, comunitari: il fatto che, negli USA come in Europa, la sinistra sia identificata – specie dai giovani – soprattutto dalle battaglie per le libertà individuali (l’esempio dell’aborto è lampante), testimonia che si è solo saputo inseguire questa “individualizzazione” della società digitale e dei consumi, senza trovare una rinnovata progettualità comunitaria e sociale.
Si assiste così al curioso fenomeno per cui destra e sinistra, nei paesi sviluppati, competono entrambe sulle libertà individuali: con la sinistra schierata su quelle relative ai vincoli etici e ai comportamenti privati (amore, figli, consumi di droghe leggere ecc.) e la destra paladina della libertà individuale nella sfera socio-economica (che in Italia si esprime immediatamente nei temi dell’uso libero del contante, della pace fiscale per gli evasori, persino della riduzione degli obblighi sanitari).
Insomma, la sinistra è per le libertà individuali e gli obblighi sociali (tasse, mascherine, legalità, regole…), mentre la destra per le libertà nei comportamenti collettivi (economici, fiscali, sanitari…) ma per i vincoli – almeno a parole – in quelli etico-privati.
In questo curioso chiasmo, tutto imperniato comunque sul concetto di “libertà”, si perde del tutto il dibattito sulla sfera comune, sul “progetto di società”, l’utopia di una comunità più equa e avanzata, che da sempre è il faro, il “sole dell’avvenire”, il motore vero del voto a sinistra.
L’individualizzazione della società globale, televisiva e social, si è mangiata culturalmente la sinistra socialdemocratica in appena 20 anni.
L’assenza di una nuova utopia sociale e globale
Così, dopo il tracollo storico dell’analisi sociale marxista, la sinistra ha preso solo clamorose cantonate sul piano intellettuale, sposando prima la rivoluzione individuale/digitale come fonte di nuove equità (Blair), poi la globalizzazione “no logo” come possibile fonte di un nuovo ordine mondiale più giusto (Genova 2001).
Dimostrando, inoltre, forti difficoltà a sposare la nuova importante faglia ecologica, venendo da una tradizione operaia e industriale che non può facilmente inseguire la decarbonizzazione (si veda la difficoltà ideologica strutturale del PD in situazioni come Taranto e acciaierie, Piombino e rigassificatori, Basilicata e estrazioni petrolifere ecc.).
Per tacere gli imbarazzi (che risalgono ai tempi del bombardamento di Belgrado, assai prima dell’Ucraina) sul rapporto tra diritto delle nazioni-pace-uso degli armamenti, dove la sinistra rimane vittima della totale assenza di una visione – che un tempo aveva – sull’internazionalismo, lo sviluppo e i rapporti tra le nazioni.
Schierata fortunatamente sull’europeismo, ma sempre in difficoltà con un’Europa che funziona poco e male a difendere le frontiere sociali (fino a due anni fa, infatti, era solo libero mercato e stabilità finanziaria).
A provare che la crisi delle sinistre è culturale, di comprensione della nuova società, è – per assurdo – proprio il costante ricorso al pensiero di papa Francesco, almeno in Italia.
Non avendo più un’analisi storica e globale propria, si ricorre all’unica “riserva culturale” che ancora esprime un pensiero autonomo, non allineato alla koyné (liberista o keynesiana, non importa) su temi come sviluppo, giustizia, ambiente, pace tra i popoli. Manca, cioè, alle sinistre italiane un’analisi storica e sociale propria, capace di indicare alle masse dei “nuovi poveri” (che ci sono, eccome!) un modello di “utopia” globale, equa, sostenibile, che sia realistica e costruibile.
Senza queste progettualità, la sinistra può perdersi solo nell’assistenzialismo che allevia la povertà (e riporta consenso…), ma non troverà la sua vera strada.
Serve battersi programmaticamente su un modello sociale innovativo e perseguibile, che sia chiaro e leggibile sulla transizione ecologica, sulla redistribuzione della ricchezza, sulle migrazioni, sui rapporti internazionali, sulla nuova economia digitale, sui nuovi lavori. Non solo sulle libertà individuali o sulle retoriche nostalgie di ere socioeconomiche e industriali passate.
Tornando dunque al Partito Democratico…
Tornando al PD, dunque, da dove eravamo partiti, appare chiaro come questo compito culturale sia del tutto impervio e improbabile per le attuali classi dirigenti, e per un congresso di quattro mesi (che per i tempi politici attuali sono già un’eternità).
Occorre che la sinistra riallacci la catena di trasmissione con i centri elaborativi del Paese (se ancora ne esistono), a partire da università, fondazioni culturali, thinktank, associazionismo sociale (tra cui può avere gran ruolo quello cattolico, dove ancora resiste).
Che si inizi una “Lunga Marcia” (per usare uno stereotipo caro alla sinistra mondiale), con un lavoro di elaborazione sovranazionale, che accetti che ci vorrà tempo per tornare a governare in tanti paesi, per essere competitivi nel cuore della gente e degli elettori nell’era digitale e social. Pena, passare dalla sconfitta occasionale a quella sistematica, che ormai si profila, non solo in Italia. O – peggio ancora – l’essere fagocitati in un’idea solo assistenzialista e populista della “sinistra”.
Ma una cosa è certa: il dibattito odierno su nomi e su alleanze, nel PD o nei vari partiti della “sinistra”, può essere solo un vago anticipo, un’ombra di quello che serve. Che è uno sforzo culturale ben più grande. Speriamo, per il futuro dell’idea stessa di giustizia e eguaglianza, non troppo grande.
La sensazione più palpabile è che, più che rinnovarsi in una società in evoluzione continua, si sia mirato a privilegiare i rapporti di forza interni al partito; il che significa consegnare il potere a personaggi catalizzatori di voti (a loro volta interessati al mantenimento dello status quo) ma incapaci di intercettare le esigenze di quel popolo che, oggi più che mai, sta soffrendo della mancanza di una guida carismatica.
All’Interno del PD, vien da dire, pochi ci credono e quei pochi non sanno in cosa credere.
O, meglio, il potere interno catalizza ogni attenzione e non ci si accorge che esso è , invece, l’automatica conseguenza di una linea di pensiero perseguita con fermezza e basata sullo studio e sull’attenzione alle reali esigenze della società e delle classi più disagiate.