Scrive G. Bernanos in un abbozzo di libro su Lutero, rimasto incompiuto: «Chi pretende riformare la Chiesa coi medesimi mezzi che si usano per riformare una società temporale, non solo fallisce nella sua impresa, ma infallibilmente finisce col trovarsi fuori della Chiesa. Dico che si viene a trovare fuori della Chiesa prima ancora che qualcuno ve lo abbia escluso; dico che si esclude da sé stesso per una tragica fatalità».
Sia l’ideatore del Vaticano II, Giovanni XXIII, sia il suo nocchiero o timoniere, Paolo VI, sono stati inseriti nel calendario cattolico dei santi proprio perché artefici di quello che ai loro tempi si chiamava aggiornamento.
Entrambi riformatori a motivo dell’impulso iniziale, papa Giovanni, e della continuazione e conclusione del Vaticano II, papa Montini, alla prova dei fatti essi stanno mostrando che una vera riforma della Chiesa, che non voglia essere una rivoluzione o una scissione, passa sempre per la santità di vita.
Un’epoca di grandi trasformazioni
Presiedendo il rito di canonizzazione di Paolo VI, il 14 ottobre del 2018, papa Francesco affermò di lui: «Oggi ci esorta ancora, insieme al Concilio di cui è stato il sapiente timoniere, a vivere la nostra comune vocazione: la vocazione universale alla santità. Non alle mezze misure, ma alla santità».
Montini, un vescovo catapultato dalla Provvidenza alla guida e alla gestione di un Concilio in un momento di grandi trasformazioni sociali, culturali ed ecclesiali, incarna molto bene la figura santa di un’effervescente e tormentata stagione di rinnovamento, ancora da approfondire in più aspetti nelle prime decadi del terzo millennio.
Si è scritto, sul piano storico-sociale, di un “secolo breve” e, su quello ecclesiale, di una stagione che, di fronte alle degenerazioni del secolarismo e della “desertificazione” della fede, ha dovuto generare lo slogan della “nuova evangelizzazione”. Etichetta che ricorre dagli anni Novanta del Novecento, cui non è estranea la bellissima e sempre attualissima esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, promulgata da Paolo VI l’8 dicembre 1975, dieci anni dopo la chiusura del Vaticano II.
Come dopo il Concilio di Trento si parlava insistentemente di “riforma della Chiesa”, e come dopo il Vaticano I si discuteva di rinnovamento della visione del servizio petrino, così durante e dopo il Vaticano II, grazie proprio a Montini, si parlerà sempre di più e meglio di nuova Europa, di nuova civiltà e, soprattutto, quasi di «nuova piantagione del Vangelo nelle terre di antica cristianità», oppure di «mobilitazione generale per un nuovo annuncio del Vangelo» con nuovo ardore, nuove strategie e nuovi metodi.
Finissimo intellettuale, amico dei grandi pensatori personalisti europei, papa Montini si era, del resto, nutrito della grande tradizione patristica, per esempio di Agostino.
Come ci viene confidato da p. Cremona, Montini ha lasciato tra le sue carte ben cinque fascicoli di circa duecentoventi pagine, vergate con la sua calligrafia, zeppe di citazioni testuali su argomenti di fede, di morale, di esegesi scritturistica, di ecclesiologia e anche di semplice costume, desunte dall’opera sterminata di Agostino d’Ippona, con dei peculiari temi ricorrenti. Erano le tracce scritte di una lunga e continua frequentazione, a sua volta testimone della grande stima da parte di Paolo VI, il pontefice che condusse in porto il concilio ecumenico Vaticano II.
I quattro grandi obiettivi
Negli anni della sua celebrazione in quattro periodi (1962-1965), il Concilio segna un vero spartiacque, raccogliendo e rilanciando diversi precedenti movimenti e istanze di rinnovamento (riforma liturgica, riforma dei metodi d’indagine esegetica, prospettiva storica nell’interpretazione dei dogmi, dialogo tra cristiani e con le altre religioni e fedi non cristiane…).
Inoltre, insieme con Atenagora I, nel 1965, è il papa che cancellerà le reciproche scomuniche, che datavano al 1054, quando si era consumato lo scisma fra Chiese d’Oriente e d’Occidente.
Paolo VI governa la barca del Concilio con grande acume e braccio fermo. Nell’allocuzione in apertura della seconda sessione conciliare, il 29 settembre 1963, enumera davanti ai Padri gli obiettivi del Concilio: in primo luogo, centralità della concezione di Chiesa: «Nessuna meraviglia… se la nozione vera, suprema e completa di Chiesa, quale Cristo l’ha fondata e gli Apostoli cominciarono ad edificare, ha ancora bisogno di una definizione più accurata. La Chiesa è un mistero, cioè una realtà arcana che è profondamente impregnata di presenza divina, e perciò è di natura tale da autorizzare indagini nuove e sempre più intense di sé stessa» (n. 2).
In secondo luogo, riforma intesa come ritorno alle origini: «Il Concilio Ecumenico è da considerarsi come una nuova primavera, che risveglia in seno alla Chiesa energie e possibilità immense quasi latenti degli animi. È infatti proposito del Concilio, come chiaramente appare, che tanto le ricchezze interiori della Chiesa che le norme con le quali sono regolate le sue istituzioni canoniche e le forme rituali ritornino al loro primitivo vigore. Questo Concilio universale mira cioè a far sì che la Chiesa accentui quell’incantevole perfezione e santità che solo l’imitazione di Gesù Cristo e l’unione mistica con lui per mezzo dello Spirito Santo possono conferirle» (n. 5).
In terzo luogo, la ricomposizione dell’unità dei cristiani.
Infine, il dialogo col mondo contemporaneo: «Siamo forse così ciechi da non vedere molti posti vuoti in quest’assemblea? Dove sono i nostri Fratelli di quelle Nazioni dove è stata dichiarata guerra alla Chiesa? E in quale situazione si trova là la Chiesa? Considerando questi fatti, ci sembrano ancor più gravi se volgiamo la mente a quello che sappiamo, ed ancor più a quello che non ci è dato sapere, della sacra Gerarchia, dei religiosi e delle sacre vergini, e della grande moltitudine di Nostri figli che per la loro incrollabile fedeltà a Cristo e alla Chiesa sono sottoposti ad intimidazioni, a vessazioni, a tribolazioni, ad oppressioni» (n. 5).
Insomma, franca e responsabile ricognizione dei problemi aperti e delle questioni da approfondire, con sguardo religioso e riformatore. In sintesi, appello alla responsabilità corale.
Ha detto papa Francesco, nel febbraio 2021, davanti al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede: «La congiuntura che stiamo attraversando sia analogamente di stimolo per condonare, o perlomeno ridurre, il debito che grava sui Paesi più poveri e che di fatto ne impedisce il recupero e il pieno sviluppo».
Non un’antropologia, né una sociologia, bensì una teologia esce dal Concilio; una teologia che tiene presente il volto di tutti gli altri, anche se non presenti nell’aula di San Pietro, tutti illuminati dal volto di Cristo.
Del resto, Paolo VI annota, nell’allocuzione del solenne inizio della seconda sessione del concilio: «Questa nostra assemblea qui radunata non brilli d’altra luce se non di Cristo, che è la luce del mondo; i nostri animi non cerchino altra verità se non la parola del Signore, che è il nostro unico maestro» (n. 4).
Un attento ed illuminante richiamo all’essenza dell’esperienza cristiana. Grazie