Oltre l’80% dei migranti africani non lascia il proprio continente. Solo una piccola parte tenta di raggiungere l’Europa. E, contrariamente ai luoghi comuni e a una certa propaganda, gli immigrati in Italia non provengono dagli strati più bassi delle società d’origine né dai Paesi più poveri
Un luogo comune descrive i migranti come persone estremamente povere, provenienti da Paesi in ginocchio, alla ricerca disperata di un modo per sfamarsi. La realtà è diversa. Gli immigrati generalmente non provengono dagli strati più poveri del Paese d’origine, ma dalle classi medie, anche se fragili o a rischio di impoverimento.
Emigrare costa. L’investimento per raggiungere le coste italiane può superare i diecimila dollari. I più poveri non dispongono di risorse sufficienti. E la scolarità di chi arriva in Italia è mediamente buona, rispetto agli standard dei Paesi d’origine.
I migranti si spostano perché aspirano a migliorare le loro condizioni: la speranza e le ambizioni contano più della disperazione.
Non solo: se confrontiamo l’elenco dei Paesi che forniscono il maggior numero di emigrati verso l’Italia, ma anche su scala più ampia, con le graduatorie mondiali basate sull’Indice di sviluppo umano, scopriamo che i Paesi più sfortunati, come quelli dell’Africa subsahariana, partecipano ben poco alle migrazioni internazionali.
Soprattutto inviano pochi emigranti verso l’Occidente sviluppato. La graduatoria delle prime comunità africane in Italia – che complessivamente non rappresentano più del 15% degli immigrati – è guidata dal Marocco, cui seguono Egitto, Nigeria, Senegal e Tunisia. Paesi africani ben più poveri non hanno significative comunità immigrate.
Va ricordato in proposito che solo una percentuale minima di persone costrette o spinte a lasciare il proprio Paese cerca di raggiungere l’Europa. Dei 35 milioni di emigrati subsahariani registrati lo scorso anno, solo una minoranza di 6 milioni di persone si è allontanata dal continente.
Una gran parte ha sì attraversato confini, ma spesso solo per spostarsi in un Paese limitrofo (Nigeria, Costa d’Avorio, Senegal, Etiopia, Sudafrica e Kenya rappresentano i principali poli attrattivi regionali). Certo, una variabile da tenere presente è l’instabilità politica, che può generare migrazioni di massa.
Basti pensare a quanto accaduto in Libia e in Tunisia ai tempi delle cosiddette Primavere arabe, che hanno fatto cadere regimi granitici aprendo fasi di profonda incertezza e insicurezza. Oggi le guerre nel Sahel, nel Tigray, nel nord del Mozambico e nell’est del Congo generano milioni di sfollati e profughi.
E sempre di più i fenomeni meteo estremi, come alluvioni o siccità, spingono ad abbandonare la propria casa per rifugiarsi altrove. L’insicurezza alimentare causata dall’emergenza climatica va ad intaccare soprattutto la fascia del Sahel e del Corno d’Africa, contribuendo ulteriormente a mettere a dura prova le fragili economie locali.
Il boom demografico è destinato ad aumentare la pressione dell’uomo sull’ambiente. Entro il 2050 la popolazione africana raddoppierà, arrivando ai 2 miliardi e mezzo (1 abitante su 4 nel mondo). La sola Nigeria sarà popolata da 450 milioni di persone.
Terre fertili e fonti d’acqua diventeranno sempre più scarse in relazione alle crescenti necessità. Nuova gente deciderà di emigrare. Specie se si andranno ulteriormente esacerbando le disuguaglianze sociali.
I dati della Banca mondiale sono eloquenti: un subsahariano guadagna mediamente 1.700 dollari l’anno, mentre il reddito medio dei cittadini dell’eurozona è di 37.400 euro. Nello stesso arco di tempo in cui l’Africa raddoppierà la sua popolazione, l’Italia si spopolerà (secondo l’Istat, il nostro Paese è destinato a perdere sei milioni di abitanti) e invecchierà (oltre la metà dei cittadini sarà in età pensionabile).
A quel punto non saremo più interessati a interrogarci sulle ragioni delle migrazioni. Saremo ossessionati da un’unica preoccupazione: come convincere i migranti a salvarci.
- Pubblicato sul sito della rivista Africa.
Condivido pienamente l’analisi quando rileva il fatto che a migrare non sono “gli ultimi” dei paesi d’origine. Lo confermavano già studi dell’FMI e Banca Mondiale del 2018. Questo dato però mal si adatta all’idea secondo la quale all’origine della gran parte dei flussi vi sia il cambiamento climatico o l’instabilità politica. Queste considerazioni – ovviamente – nulla tolgono all’imperativo costituito dalla necessità dell’accoglienza. Però possono indicare qualche via in relazione al governo dei flussi, peraltro oggi inesistente. Sul declino demografico dell’Italia penso che la nostra Repubblica dovrebbe fare di più che aspettare che i flussi migratori compensino il fenomeno: occorre una seria politica a sostegno della famiglia e della maternità! Sul punto molto potremmo imparare dalla vicina Francia.