Neopaganesimo ecologico? No, grazie

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natura

Nel 1967, lo storico della scienza e della tecnologia Lynn White pubblica un articolo sulla rivista Science, dedicato alle Radici storiche della nostra crisi ecologica. Secondo lo studioso, la tradizione ebraico-cristiana ha favorito una comprensione desacralizzata della natura; in seguito allo sviluppo della tecnica, tale lettura profana dell’ambiente apre le porte a uno sfruttamento drastico e poi addirittura rapace delle risorse, con conseguenze che apparivano catastrofiche già all’epoca della pubblicazione dell’articolo.

White, cristiano protestante, propone come antidoto, a chi non voglia abbandonare le radici bibliche, di integrarle con la sapienza orientale e di valorizzare impulsi «cristiani» ecologicamente sensibili, come quelli di Francesco d’Assisi. Molti hanno visto nell’enciclica Laudato si’ del 2015 un significativo passo nella direzione auspicata dallo studioso.

Custode, non dominatore

Nei decenni successivi si è sviluppato un dibattito amplissimo, ormai oggetto di intere monografie. Probabilmente non è inesatto affermare che, sul piano della ricerca specialistica, le tesi di White sono state assai ridimensionate. Nella più ampia ricezione culturale, tuttavia, esse sono diventate quasi un luogo comune. Un esempio interessante è offerto dall’esegesi biblica. Praticamente tutti i commenti recenti al primo libro della Scrittura si sentono in dovere di spiegare che il «dominio» umano del quale si parla in Genesi 1,26 non può essere inteso come autorizzazione alla rapina ambientale; e che, semmai, il compito dell’essere umano è quello del «custode», individuato in Genesi 2,15, cioè all’interno dell’altro racconto della creazione.

Se si prescinde dall’evidente anacronismo (gli umani ai quali pensa la Bibbia devono in primo luogo difendersi da una natura fortissima e pericolosa, nonché strapparle le risorse per sopravvivere: l’Antropocene è ancora piuttosto lontano), nella raccomandazione non vi è nulla di disdicevole: come ogni relazione, anche quella con l’ambiente dev’essere orientata alla responsabilità, diversamente da quanto di fatto accade.

Le cose cambiano quando, nel quadro del necessario impegno per interrompere il processo di distruzione della natura della quale siamo parte, molti orientamenti teologici propongono una visione «romantica» dell’ambiente o, addirittura, una sua ri-sacralizzazione. L’intenzione è ovviamente lodevole, ma è legittimo, anche se impopolare, obiettare rispetto al percorso intellettuale scelto per attuarla.

Il mondo profano

L’idea in base alla quale il mondo non è né divino (come vorrebbe il panteismo di tutti i tipi) né demoniaco (contro molteplici visioni religiose di tipo manicheo), bensì profano, non solo è effettivamente centrale in entrambe le narrazioni bibliche della creazione, ma costituisce uno dei più esplosivi apporti di liberazione offerti all’umanità dalle Scritture ebraiche e cristiane. La stessa immagine della «casa», volentieri utilizzata in senso ecologico, ha un carattere profano e non sacrale.

Proprio se la natura è una dimora e non un tempio, anche la liturgia e il tempio trovano il loro significato autentico. La scienza della natura e la tecnologia sono frutti relativamente recenti, ma molto significativi, dello stesso processo: anche in questo White e i suoi epigoni hanno ragione. Il potenziale distruttivo della tecnica è il punto di partenza dell’intera riflessione: guai, tuttavia, se esso inducesse le tradizioni cristiane a unirsi alla demagogia irrazionalista che propone il ritorno a un’immediatezza con la natura che, in realtà, non è mai esistita. Non sussiste alcun motivo teologico, e neppure semplicemente logico, per considerare una nuova sacralizzazione della natura, di qualsiasi tipo, come alternativa alla distruzione suicida dell’ambiente.

La catastrofe climatica e gli altri aspetti della crisi ecologica costituiscono un appello drammatico alla responsabilità, non al neoromanticismo o al panteismo. Il luogo di esercizio della responsabilità è un mondo intrecciato con l’umanità («antropizzato»). Se quest’ultima vuole sopravvivere, non può lasciare a sé stessa la natura, ma nemmeno distruggerla. Credo sia questo il sobrio, ma anche lieto, messaggio delle tradizioni bibliche per il nostro tempo.

Fulvio Ferrario è professore di Teologia dogmatica presso la Facoltà valdese di teologia di Roma. Dal sito della rivista Confronti, 15 novembre 2022.

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2 Commenti

  1. Adelmo Li Cauzi 12 dicembre 2022
  2. Tobia 8 dicembre 2022

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