Gianfranco Pacchioni, docente di chimica all’Università Milano-Bicocca, è autore di volumi di chimica ambientale. Insieme al suo gruppo di ricerca sta lavorando alla produzione dell’idrogeno verde dall’acqua quale vettore fondamentale nella transizione energetico ecologica. Lo abbiamo intervistato su questo tema e sulla più ampia questione energetica.
- Professore, su quale progetto sta precisamente lavorando?
Mi sto occupando di catalizzatori di nuova generazione per produrre idrogeno (H2) − cosiddetto verde − dall’acqua: sia direttamente dall’energia solare (fotocatalisi), sia da energia elettrica da origine solare (elettrocatalisi). I catalizzatori sono sostanze che favoriscono la scissione del legame tra idrogeno e ossigeno nella molecola dell’acqua (H2O), abbassando quindi la quantità di energia da spendere per ottenere il prodotto voluto. Chiaramente la ricerca è rivolta a individuare i catalizzatori più efficiente e, insieme, maggiormente reperibili.
- Quanto sono reperibili i materiali impiegati in questa e in altre tecnologie di sostenibilità ambientale?
In Italia, e non solo, abbiamo problemi di reperibilità di materiali per lo sviluppo di tutte le nuove tecnologie: per catalizzatori, elettrolizzatori, batterie. Si sta facendo molta ricerca in questo ambito. Faccio l’esempio dei catalizzatori per cui servono metalli pregiati − quali il rodio, il palladio, il platino −, molto più costosi dell’oro, oggi, sul mercato. Ebbene, la ricerca sta arrivando a utilizzare particelle sempre più piccole di questi elementi, ottenendo gli stessi risultati. L’obiettivo è raggiungere i risultati attesi con quantità infinitesimali di sostanza. Siamo a buon punto. Anche nell’ambito delle batterie, la ricerca sta ottenendo risultati importanti: non ho dubbi che non sarà lontano il giorno in cui si potrà fare a meno del famoso litio, per il molto più disponibile sodio.
- Come si lavora per conseguire nuovi risultati?
Oggi la ricerca procede per gruppi estesi e in rapporto con altri gruppi nel mondo. Della mia compagine fanno parte giovani studenti, dottorandi, ricercatori, oltre a collaboratori di diverse età. Non esiste più la figura del chimico ricercatore isolato nel suo laboratorio. Si lavora insieme. I giovani hanno un ruolo determinante.
- Parliamo dunque dell’idrogeno: perché è definito un vettore per il futuro e non una fonte di energia?
Per fonte intendiamo una materia dalla quale possiamo trarre direttamente energia. Faccio l’esempio tradizionale del carbone: un giacimento di carbone si diceva una fonte di energia perché, mandando carbone alla combustione − bruciandolo − si sarebbe ricavata l’energia per far funzionare treni, navi, centrali termoelettriche ecc. Mentre l’idrogeno non si trova in natura. Non ci sono i giacimenti di idrogeno. Lo possiamo produrre dall’acqua spendendo energia, ma se questa viene dal sole, ecco che l’idrogeno diviene un vettore di quella stessa energia, gratuita e pulita.
È noto l’obiettivo di questa operazione, come ho avuto già modo di spiegare su queste pagine (cf. qui), l’umanità ha bisogno di trarre energia da combustibili che non siano a base di carbonio, perché l’eccesso di anidride carbonica nell’atmosfera, a seguito della combustione, costituisce la principale causa del riscaldamento globale e quindi delle alterazioni climatiche. L’idrogeno è un vettore meraviglioso poiché, quando si ricombina con l’ossigeno dell’aria (O2), libera l’energia chimica immagazzinata e dà luogo di nuovo ad acqua che può essere tranquillamente rilasciata nell’ambiente.
- Dove sta la convenienza di spendere energia per produrre l’idrogeno per poi “bruciarlo” per ricavare energia?
L’intento è produrre idrogeno da fonti di energia rinnovabili, ossia dal sole, dal vento o dal calore «gratuito» contenuto nelle profondità della terra (geotermia). Tali fonti di energia − specie il sole e il vento − hanno però carattere di intermittenza, per ovvi motivi. Gli impianti fotovoltaici ed eolici sono perciò in grado di «regalarci» energia elettrica in alcune stagioni e in alcune giornate più che in altre: da ciò il vantaggio di impiegare i picchi stagionali e giornalieri di produzione di energia da fonti rinnovabili per immagazzinarla nel vettore idrogeno, impiegabile, con diverse modalità, successivamente.
- Immagazzinare idrogeno per immagazzinare energia non è pericoloso?
Tutti i sistemi che contengono energia sono intrinsecamente pericolosi. È intrinsecamente pericolosa una bombola di gas metano in casa accanto al fornello, così come una un’autobotte di benzina che viaggia in autostrada accanto alle nostre auto. Nonostante i sistemi di sicurezza, sempre migliorati, avvengono ancora guasti, incidenti, esplosioni. L’idrogeno è pericoloso − né più né meno − rispetto ad altri contenuti di energia. Certamente l’idrogeno ha un trattenuto di energia, per unità di volume, superiore al metano e alla benzina. Va quindi trattato con estrema cautela. Ci sono, in tal senso, problemi tecnologici ancora da affrontare e da risolvere al meglio. Non sto pensando, tuttavia, oggi, ad un uso capillare, domestico, dell’idrogeno, allo stesso modo del gas metano.
- A quali utilizzi sta quindi pensando?
Sto pensando − oltre a specifici impieghi di dimensione industriale − al grande trasporto: su autotreni di grandi dimensioni, su navi e persino su aerei almeno un giorno.
- Ci faccia capire come possano funzionare motori – di così grandi dimensioni – ad idrogeno…
La tecnologia dei motori ad idrogeno ha preso le mosse già negli anni Sessanta con le spedizioni spaziali americane. Da allora sono note le cosiddette celle a combustibile. Spiego semplicemente di cosa si tratta. La reazione tra l’idrogeno e l’ossigeno è una reazione di ossido-riduzione: tra i due elementi avviene un passaggio di elettroni, dall’idrogeno all’ossigeno. Nelle celle a combustibile il passaggio di elettroni avviene, in maniera controllata, altrimenti esplosiva, in un circuito elettrico: in tal modo si trasforma l’energia contenuta nell’idrogeno di nuovo in energia elettrica. Il motore ad idrogeno è sostanzialmente un motore elettrico.
- Auto con celle a combustibile alimentate a idrogeno sono già sul mercato da tempo. Sarà questo il futuro dell’auto?
Sul futuro non è facile fare previsioni. Ad oggi penso di poter dire che l’impiego dell’idrogeno per milioni e per miliardi di auto private comporterebbe una trasformazione radicale della rete di distribuzione dei carburanti, con costi infrastrutturali giganteschi. Trovo l’ipotesi improbabile e neppure auspicabile. Penso che il futuro dell’auto possa essere totalmente elettrico, ma con una concezione completamente diversa dell’oggetto, perché la sua funzione sia sostenibile. Penso che in futuro circoleranno quindi molte meno auto private, specie nelle città: ci saranno auto elettriche, a guida autonoma, a uso pubblico.
- Perché dunque non potrebbero funzionare con motori puramente elettrici anche camion, navi e aerei?
Come sappiamo, i motori elettrici sono alimentati da batterie. Ora è difficile ipotizzare mezzi pesanti, navi e aerei con dotazioni di voluminose e pure pesanti batterie. Perciò ritengo che questi mezzi potranno opportunamente impiegare idrogeno. Ricordiamo poi che l’obiettivo ambientale è evitare l’emissione di altra anidride carbonica nell’atmosfera e che i trasporti stradali, marittimi e aerei sono ancora oggi i principali responsabili dell’eccesso di CO2.
- Lo stoccaggio e la distribuzione dell’idrogeno richiedono materiali e tecnologie speciali?
Se l’impiego avviene in maniera fissa in una azienda, non ci sono particolari problemi tecnici da risolvere: l’idrogeno viene compresso e liquefatto e utilizzato al bisogno. Mentre di fronte alla prospettiva della grande e capillare distribuzione, come ho già accennato, si pongono diverse difficoltà, ancora peraltro allo studio. Servono contenitori diversi dagli abituali, riempiti, ad esempio, di materiali spugnosi in grado di adsorbire e di rilasciare l’idrogeno gassoso. Ciò significa maggiori volumi e maggior peso dei contenitori, a parità di contenuto di energia, rispetto ai combustibili fossili tradizionali. C’è poi il tema del trasporto a distanza attraverso i condotti. La molecola biatomica dell’idrogeno è molto piccola: fluendo attraverso i normali condotti, una parte delle molecole dell’idrogeno sfuggirebbe nell’atmosfera. Servono quindi specifici idrogeno-dotti fatti di materiali speciali. Ce ne sono alcuni in Italia, ma sono solo a carattere di servizio industriale.
- I gasdotti esistenti non sono dunque adatti per trasportare l’idrogeno?
Per l’idrogeno puro o concentrato, no. È probabilmente possibile miscelarlo in bassa percentuale al gas naturale che già passa nei gasdotti, con ovvie minori perdite: questa potrebbe essere una soluzione transitoria di risparmio, non certo quella ideale.
- Prima di essere impiegato a modo di vettore di energia, a cosa serviva e a cosa serve tuttora l’idrogeno?
La sintesi dell’ammoniaca è una esemplificazione fondamentale. Da anni si produce ammoniaca facendo reagire idrogeno e azoto, a temperature e pressioni elevate, in impianti chimici di grandi dimensioni. Questa reazione è molto importante perché l’ammoniaca serve a fare fertilizzanti. In un mondo in cui abbiamo ormai superato la soglia degli 8 miliardi di abitanti, dobbiamo essere consapevoli dell’importanza dei fertilizzanti azotati per riuscire a coltivare e per riuscire a sfamare tutti. Ad oggi l’idrogeno utilizzato per la sintesi di ammoniaca − quindi per l’indispensabile produzione di fertilizzanti − è l’idrogeno grigio, ossia quello ottenuto da combustibili fossili − sostanzialmente il metano − con rilascio di anidride carbonica in atmosfera.
- Ci chiarisce la differenza tra idrogeno grigio e blu?
Come ho detto, l’idrogeno grigio si ottiene «strappando», a temperature di circa 1.000 gradi centigradi, atomi di idrogeno dalla molecola del metano (CH4). Questa reazione ha come sottoprodotto l’anidride carbonica, la nota CO2, che normalmente viene impiegata dalle aziende del settore delle bevande gasate. I lettori di questa intervista ricorderanno che l’estate scorsa abbiamo vissuto la «crisi delle bollicine»: poiché il prezzo del metano si era impennato, i grandi impianti di produzione di idrogeno − e quindi di CO2 − sono stati fermati. Paradossalmente − con l’eccesso di CO2 nell’atmosfera − non c’era CO2 a sufficienza per gasare l’acqua minerale.
Quel che è importante chiarire qui è che la CO2, quale sottoprodotto della reazione che porta all’idrogeno dal metano, alla fin fine, finisce sempre in atmosfera, andando a incrementare quell’eccesso che causa il riscaldamento del globo e i cambiamenti climatici, ossia proprio ciò che si vuole evitare. La produzione dell’idrogeno grigio non è dunque più sostenibile.
Si sta pensando allora − percorrendo lo stesso processo chimico dal metano all’idrogeno − di sequestrare la CO2 sotto-prodotta per impedirne il rilascio lento nell’ambiente e nell’atmosfera, andandola a pompare dagli impianti chimici alle profondità geologiche della terra. In questo caso si parla di idrogeno blu. Le cavità in cui insufflare l’anidride carbonica possono essere del tutto naturali ovvero derivanti da giacimenti svuotati da gas naturale. Questa operazione, di per sé, è in grado di evitare il rilascio di CO2 nell’ambiente ma ha importanti controindicazioni: in primo luogo costa molta energia per il pompaggio e l’iniezione di CO2 nelle profondità e, non da meno, questa operazione genera apprensioni circa possibili alterazioni statiche nei territori interessati.
- Cosa ne sarebbe della CO2 infilata nelle cavità della terra? Ci resterebbe “per sempre”?
Se la CO2 fosse lasciata perennemente nelle cavità della terra resterebbe naturalmente inutilizzata. L’ipotesi che io ho fatto, in prospettiva futura − qualora vi sia un giorno idrogeno verde in abbondanza −, è utilizzare la CO2 per combinarla con l’idrogeno per produrre altre molecole importanti, come quelle del metanolo e dell’etanolo, normalmente impiegate per sintetizzare prodotti tra i più disparati: dai farmaci ai tessuti. La prospettiva ideale è sempre quella di reimpiegare tutto, non certo di stoccare sostanze nelle profondità della terra per dimenticarcene.
- L’idrogeno verde è quindi l’unico veramente sostenibile per l’ambiente?
L’idrogeno verde, come abbiamo detto, è quello che si ottiene dalla «semplice» acqua, scindendo la molecola nei suoi componenti − idrogeno e ossigeno − ed utilizzando energia elettrica da fonti rinnovabili nel processo di elettrolisi. Questa possibilità è ovviamente nota da tempo, ma solo da poco sta diventando una alternativa, non solo ideale, ma anche effettivamente praticabile su vasta scala. Intanto, possiamo dire che l’efficienza degli elettrolizzatori ha raggiunto livelli del 70-80% − grazie ai catalizzatori di cui ho detto − ed è in continuo miglioramento, grazie proprio alla ricerca; ci sono poi impianti industriali già in funzione e ci sono tanti progetti produttivi che stanno partendo. Ma siamo chiaramente ancora ben lontani da un apparato industriale massiccio. Va detto poi che i costi di produzione dell’idrogeno verde, sono − anticipatamente rispetto alle previsioni − divenuti competitivi ai costi di produzione dell’idrogeno grigio.
Sino a un anno e mezzo fa, infatti, il costo dell’idrogeno verde era 3,5 volte il costo del grigio: si prevedeva di giungere al cosiddetto punto di incontro attorno al 2030; ma nell’ultimo anno, come ben sappiamo, il costo del gas metano è salito alle stelle, e quindi il costo dell’energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili è divenuto molto più interessante per i produttori. Sappiamo che ciò che avviene sui mercati delle materie prime ha molto a che fare con questioni politiche e finanziarie più che di economia reale. Perciò oggi − al confronto − l’energia da rinnovabili costa molto meno. Se i prezzi dei combustibili fossili resteranno così alti, come penso, si andrà sempre più decisamente verso la produzione di idrogeno verde.
- Quale potrà essere il limite alla produzione?
Il limite è quantitativo: non siamo infatti in grado di produrre tutta l’energia che servirebbe da fonti rinnovabili. Ovviamente non solo per produrre l’idrogeno verde, bensì per tutta l’energia che serve in Italia, in Europa e nel mondo, anche per riscaldare le case, ad esempio.
- A che punto siamo della emancipazione dai combustibili fossili in Italia?
Nel 2010 eravamo tra i Paesi più virtuosi nella produzione di energia da fonti rinnovabili. Poi ci siamo fermati. Se si fosse andati avanti con la stessa determinazione, oggi ci troveremmo in una situazione energetica decisamente migliore. Le ragioni di tale frenata sono, a mio parere, culturali, finanziarie e politiche.
Ci sono ragioni culturali perché un certo modo di concepire la difesa dell’ambiente ha portato a bloccare progetti, già esistenti, per importanti produzioni di energia eolica e fotovoltaica, quindi direttamente dal vento e dal sole. Le popolazioni spesso si sono opposte, ad esempio, all’installazione di pale eoliche in mare, anche a chilometri di distanza dalla costa. Questo atteggiamento − che non posso condividere − sta determinando costi ambientali ben più alti per ciò che si è voluto salvaguardare.
Ci sono poi, evidentemente, ragioni economico finanziarie, perché la transizione coinvolge e travolge interessi enormi. È chiaro che le società che hanno fondato le loro fortune sui combustibili fossili tendono a procrastinare l’impiego delle loro stesse fonti tradizionali e dei loro impianti. Non a caso il Paese che più si è opposto alle varie risoluzioni della COP27 è l’Arabia Saudita.
Ci sono, non da ultime, ragioni politiche e geopolitiche delle quali non è possibile sminuire la complessità. Appare tuttavia piuttosto evidente la scarsa lungimiranza − di fatto − dei governanti che sono rimasti in carica per 1, 2 o 3 anni in Italia, mentre certe scelte in ambito energetico avrebbero richiesto − così come tuttora richiedono − il loro saldo mantenimento per anni e anni al fine di ottenere risultati seri.
- Quanto è importante fare corretta informazione e quindi cultura dell’energia e dell’ambiente?
È di fondamentale importanza. Solo una opinione pubblica assai ampia può chiedere alla politica di fare le migliori scelte per l’ambiente, con continuità e coerenza. Informazione, educazione, formazione − specie delle nuove generazioni − giocano chiaramente un ruolo determinante. Come sempre ripeto, l’umanità ha di fronte a sé una sfida enorme. Non esistono soluzioni semplici e immediate. Serve bensì un grande sforzo collettivo, globale, non privo di sacrifici, specie per chi ha già lungamente beneficiato dello sviluppo. La riuscita non è affatto assicurata. Solo vedere giovani e persone che vogliono conoscere come stanno le cose e che sono disponibili ad impegnarsi, mi dà fiducia.