Padre Renato Zilio, missionario scalabriniano a Casablanca (Marocco), racconta attraverso la sua esperienza quanto l’incontro tra culture e mondi differenti sia fruttuoso.
Intercultura: una parola nuova, ma che possiamo incontrare ogni giorno. Ad ogni passo. Sì, vivendola, perché è l’incontro o l’incrocio di mondi differenti. Di uomini e culture differenti. Ormai è abituale incontrare un nigeriano questuante alla porta della chiesa, dei marocchini per strada, dei volti dai tratti orientali al supermercato. Si rivela sempre vera la massima: «I sistemi si oppongono, gli uomini si incontrano».
Curiosità e rispetto
Ma la cultura che cos’è? È il cammino fatto da secoli dalla propria gente, che ha scoperto dei valori o dei tesori che altri non hanno trovato. Come la creatività, l’estro artistico, la funzionalità, l’ospitalità…
La cultura è anche un punto di vista particolare. Uno sguardo originale di un popolo sulle varie realtà umane: la vita, la morte e l’amore. L’educazione, le tradizioni e la natura. La realtà e il mistero di ogni essere. Ed è questo sguardo differente l’originalità di un popolo, che lo distingue da altri: il portoghese dall’italiano, l’africano dall’asiatico.
Due atteggiamenti fondamentali, allora, si rivelano essenziali: la curiositas (come dicevano gli antichi) e il rispetto.
Saper coltivare la curiosità. Un vecchio professore spiegava che è segno chiaro di intelligenza. Essere intelligenti non è essere pieni di nozioni, ma piuttosto essere sempre sulla pista di decollo, pronti a partire… Essere curiosi.
Questa apertura all’altro si può paragonare ad un ponte. Permette, infatti, di passare nel territorio dell’altro, per poi ritornare, incolumi, nel proprio. Ma senz’altro differenti, arricchiti.
Un’altra attitudine è sapersi togliere i sandali (come in Oriente), prima di entrare nello spazio dell’altro. Perché, trattandosi della vita, è uno spazio sacro. Va da sé che non si entra con il pregiudizio o il preconcetto. Sarebbe come entrare nel giardino del vicino, calpestando ogni cosa. Il rispetto, quindi.
L’originalità di una cultura può riguardare, per esempio, il cibo. Non solo nel prepararlo, ma anche nell’assumerlo, nella stessa maniera di mangiare.
Il pasto e le donne
Mi sorprende sempre nell’osservare i giovani migranti subsahariani, una trentina, ospitati dalla nostra parrocchia di Casablanca al momento del pasto. Nel cortile, accovacciati, piegati in avanti, a cinque o sei per gruppo attorno a un grande contenitore di riso e sugo, servendosi unicamente delle mani. In completo silenzio. Concentrati, attenti gli uni agli altri, vigilanti sulla loro sezione dell’enorme piatto. Poi, a parte, mi spiegano: «Ma padre, il cibo per noi è sacro. Non si parla, non ci si distrae. Il nutrimento ci dà la vita, per questo non si parla. È un segno di rispetto: nei nostri villaggi si fa così!».
Da noi, invece, parola, commento e cibo si intrecciano, si annodano e si alternano. La convivialità e la parola vi sono protagonisti. Per loro, invece, unico protagonista è il cibo. Come all’origine dei tempi, riveste la sacralità di ciò che riguarda la vita. Si mangia in silenzio, come nei nostri più antichi monasteri.
Oppure è interessante ascoltare come dei giovani europei qui di passaggio, in Marocco, discutendo con i loro coetanei marocchini, li interroghino sulla mancanza di dignità delle donne, perché vestite fino all’inverosimile, a volte solo a occhi scoperti. Ma la risposta dei giovani non si fa attendere: «E voi che presentate dappertutto donne quasi nude come animali in pubblicità, scoop o TV… sarebbe dignità questa per voi?». Da lasciarli senza parole.
La preghiera
Altra originalità di questa cultura musulmana è il costante rapporto con Dio. Mentre nella nostra cultura occidentale, spesso ci si ricorda di Dio solo una volta alla settimana, la domenica. Qui, si prega dappertutto. Dietro a un’auto parcheggiata vi sorprenderà qualcuno sul tappeto in preghiera. Allo sportello ferroviario per fare il biglietto, il bigliettaio non c’è: fa la preghiera. È scusato, si attende. Ogni città, ogni villaggio si risveglia per cinque volte al giorno all’appello del muezzin: una sinfonia incredibile, corale, quotidiana di tutte le moschee.
In terra d’Islam pregare è essenziale. È come l’acqua di sorgente per il deserto. Così, Lucia, Piccola sorella di Gesù, che lavora in un ospedale, ricorda bene quando un giorno il medico, non riuscendo più a farcela nel suo intervento per un bambino gravissimo, a un certo punto si fermò. Depose i ferri. Si mise a pregare e, alzando la voce, poi, verso di lei: «Prega anche tu, di’ un’Avemaria!».
Pregare è aggiungere una forza misteriosa alle nostre forze. Lo si capisce qui, per davvero, in questa cultura. «Le cose importanti non vanno cercate, ma attese», concluderebbe giustamente Simone Weil.