Mentre in Iran milioni di persone cercano di esprimere – col rischio di essere condannate a morte – il loro rifiuto della teocrazia khomeinista, il mondo occidentale si sta dibattendo nella drammatica alternativa tra la legittimazione della repressione e il fallimento dell’operazione diplomatica in grado di arrestare la corsa del regime iraniano verso il nucleare: si può trattare con un regime criminale che sta ordinando ai suoi magistrati di accelerare le condanne a morte dei dissidenti?
E – se non trattare – volesse dire lasciare al regime la massima capacità di produrre l’arma atomica? È questo l’angolo impossibile in cui l’Occidente si sente di nuovo rinchiuso
Negoziare
Nella analoga, precedente, circostanza, il presidente Obama decise di negoziare la lunga sospensione del programma nucleare iraniano e di favorire – almeno nelle sue intenzioni – una «pace fredda» tra Iran e Arabia Saudita, riammettendo il regime degli ayatollah nel “salotto buono” della comunità internazionale, in cambio della fine delle sanzioni petrolifere e dello scongelamento degli asset finanziari.
L’accordo mondiale tra i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu più la Germania, fu trovato dopo aver voltato le spalle – era il 2009 – al movimento verde iraniano che stava definendo truccata la rielezione di Ahmadinejad alla presidenza della repubblica.
Obama, dunque, scelse il negoziato e la piazza fu repressa. L’accordo sul nucleare fu firmato anni dopo e sembrò rendere ragione al presidente statunitense, sebbene una ragione – moralmente – molto costosa. Come noto, Trump cambiò linea e uscì dall’accordo, riportando l’economia iraniana sotto le sanzioni.
Oggi si può dire che la linea di Obama fosse vincente? Recentemente Obama ha fatto autocritica, dicendo che là dove c’è richiesta popolare di libertà gli Stati Uniti devono sostenerla. Le conseguenze più rilevanti della sua scelta furono appunto due.
Le conseguenze del negoziato
La prima, nel 2009. Come accennato, in Iran si protestava per i brogli elettorali che portarono il falco Ahmadinejad, per la seconda volta, alla presidenza, primo presidente scelto tra i Pasdaran – i guardiani della rivoluzione – in grado, secondo i risultati truccati, di doppiare nei voti il candidato ritenuto da tutti o quasi il vero vincitore: il riformista Mousavi, poi arrestato.
Dunque, nel 2009, al tempo della scelta che il movimento di opposizione verde visse come il «tradimento di Obama», si era nel pieno del corso riformista interno della Repubblica Islamica, ancora compatibile con la stessa, non nell’ottica dello scontro di civiltà con l’Occidente, bensì del dialogo: la linea dei riformisti dei tempi del presidente Khatami.
Dal 2009 ad oggi i riformisti iraniani sono progressivamente scomparsi e il regime si è articolato in gruppi di pressione più o meno oltranzisti, i cui confini si sono identificati con interessi personali o di cordata. Gli uffici della Guida della Rivoluzione – l’ayatollah Ali Khameni – sono divenuti, in buona sostanza, una camera di compensazione dei loro interessi, spesso illegittimi. Così dopo aver desiderato la riforma del regime, gli iraniani hanno cominciato a pensare che il regime non sia più riformabile.
Il quadro attuale
Da settembre di quest’anno il quadro è decisamente mutato. L’assassinio in prigione di Mahsa Amini – la giovane curda iraniana colpevole di non aver indossato il velo in maniera corretta – ha innescato un’ondata di rabbia popolare. Il movimento donna, vita, libertà non ritiene più possibile riformare il sistema: vuole decisamente cambiarlo.
La seconda constatazione è la seguente: la scelta epocale di Obama di trattare con gli ayatollah ha determinato un cambiamento decisamente sfavorevole ai riformisti sul fronte interno senza produrre alcuna «pace fredda», tutt’altro: l’espansionismo iraniano è aumentato, da allora ad oggi, in Libano, Siria, Iraq, Yemen: Paesi, ora, ridotti a macerie e, tecnicamente parlando, Stati falliti.
In questo contesto la questione nucleare è percepita come una sfida esistenziale. Il regime intende porre l’Occidente davanti al bivio: legittimarne le sue condotte interne e internazionali o dare corso alla pretesa nucleare?
Il nucleare
È troppo arduo entrare qui nel merito tecnico del potenziale accordo sul nucleare. Basta percepirne la rilevanza, soprattutto nel verso di eludere l’arma atomica.
Tecnicismi a parte, non si può sorvolare su un aspetto cruciale: proprio nelle ore appena trascorse, a partire da domenica 18 dicembre, l’Agenzia per il controllo delle attività nucleari (AIEA) è potuta tornare in Iran, dopo un lungo gelo con Tehran per aver denunciato due fatti circostanziati: l’Iran avrebbe ripreso da tempo le sue attività nucleari producendo uranio arricchito addirittura al 60%, a un passo da quel 90% che rappresenta il livello necessario a realizzare la bomba atomica; queste attività, inoltre, avrebbero preso a svolgersi anche in tre siti mai contemplati dalle mappe condivise tra Iran e AIEA. Tehran si è sempre rifiutata di rispondere alle contestazioni.
Nei giorni scorsi Tehran, improvvisamente, ha deciso di riaprire le porte agli ispettori del suo programma nucleare, proprio quando l’Alto rappresentate per la politica estera europea e il ministro degli esteri iraniano si sono sentiti al telefono convenendo sulla necessità di tornare ad incontrarsi ad Amman.
Josep Borrell si è corretto in modo evidente, quasi da un giorno all’altro: prima aveva riaperto le porte agli ottimisti e a Tehran, dichiarando che l’interesse occidentale è avere un Iran non nuclearizzato e che, per riuscirci, occorre separare tale questione da quelle delle armi cedute alla Russia e del rispetto dei diritti umani; poi, dopo aver effettivamente incontrato il suo omologo ad Amman, ha ribadito – sì – la volontà negoziale sul nucleare, ma aggiungendo che la condizione è che Tehran arresti la vendita di armi alla Russia e la repressione del dissenso interno.
Tale linea è stata espressa da Borrell dopo il lungo incontro col ministro degli Esteri iraniano e i suoi negoziatori. Il capo della diplomazia iraniana, dopo lo stesso colloquio, ha invece espresso un unico ottimismo, affermando che «si è pronti a concludere», senza nulla dire delle richieste “collaterali” di Borrell.
Iran, Arabia Saudita, Stati Uniti
La vera sorpresa è arrivata – da lì a poco – sempre da Amman, ove il capo della diplomazia iraniana ha incontrato pure, dopo Borrell, anche l’arcinemico ministro degli Esteri dell’Arabia Saudita, Paese che solo poche settimane prima era stato minacciato militarmente da Tehran per il suo sostegno agli oppositori interni.
Iran e Arabia Saudita non intrattengono relazioni diplomatiche ufficiali: dunque si è trattato di un incontro inatteso e sorprendente. Non basta: a mostrare il volto più duro è stata, in quelle stesse ore, la Casa Bianca, annunciando nuove sanzioni contro il procuratore generale iraniano, Mohammad Jafar Montazeri, e contro altri responsabili delle sommarie e terribili condanne a morte di questi giorni.
Gli analisti internazionali parlano di momenti frenetici: i “falchi” di Tehran stanno dicendo di voler tirare dritti verso il nucleare, costi quell che costi. Secondo questi la via del negoziato sarebbe già abbandonata. Ma è vero o è ancora furberia e cinica strategia?
Tehran ha ancora bisogno dell’intesa sul nucleare per sbloccare l’export petrolifero: quel milione e mezzo di barili al giorno che garantirebbe i denari oggi indispensabili oer contrastare il cataclisma economico interno che sta affamando il Paese e inasprendo la rabbia popolare. La linea dei “falchi” potrebbe dunque servire a mantenere la forza negoziale.
Biden
Ma qual è ora la posizione di Washington? Molti – a mio avviso mal interpretando – hanno scritto che Biden ha lasciato intendere che il suo Paese non è più interessato all’accordo: ma Biden non l’ha detto, né lo ha fatto capire.
Il suo negoziatore, Robert Malley, alcune settimane fa, ha affermato che gli iraniani non erano più interessati e che, quindi, per gli Stati Uniti l’accordo non era più la priorità. Ma se, come sembrava evidente sino a poco fa, il regime ha davvero riscoperto il proprio interesse a raggiungere una intesa, nulla impedisce agli Stati Uniti, in coerenza alla “dottrina Obama”, di recuperare quella priorità.
Per Biden, sin dall’inizio del mandato, lo è. Tanto che, parlando con alcuni iraniani ad un comizio in vista delle elezioni di midterm del novembre scorso, ha detto: «l’accordo sul nucleare è morto, ma non lo annunceremo. Ma (gli iraniani) avranno un’arma nucleare». Con ciò ha espresso una decisione, un’intenzione, un timore? Era sincero? Stava mettendo in guardia? Quando il video è apparso sul web, in questi giorni, la Casa Bianca si è limitata a ribadire che l’accordo non è più una priorità.
Le posizioni di Washington vanno valutate nel mutato contesto globale, segnato dalla grave emergenza energetica, dal confronto con la Cina – oggi principale fruitrice del petrolio iraniano – e dalla guerra in Ucraina, oltre che da quanto accade all’interno dell’Iran: la repressione spietata pesa in queste ore più della «pace fredda» tra Iran e Arabia Saudita.
Questo non toglie peso internazionale ad un potenziale accordo che toglierebbe di mezzo – per via diplomatica e non militare – la questione del nucleare, sebbene sempre temporaneamente. Resterebbe l’impatto che una tale soluzione avrebbe sullo scontro civile in atto in Iran, coi suoi sviluppi.
La società iraniana
Oggi in Iran appare profilarsi una società anti-religiosa. È un fatto: non perché la società iraniana sia divenuta, per sua natura, anti-religiosa e anti-clericale, bensì perché indotta, per non dire costretta, dalle scelte ripugnanti degli apparati repressivi statali, investiti dal sistema teocratico del dovere di imporre il bene e di estirpare il male.
Il “carattere antireligioso” si addiziona al prodotto della esasperazione delle genti in Iraq, in Libano, in Siria, nello Yemen e in molti altri Paesi a maggioranza islamica: prodotto caustico che affiora dalle macerie dei conflitti scatenati dal regime iraniano con altri regimi, milizie, terroristi e narcotrafficanti a loro legati.
Mi riferisco al “nichilismo islamico” sempre più evidente in Medio Oriente. Le bande armate che devastano questa parte del mondo arabo si abbeverano della disperazione sociale lasciata dall’abbandono del 2009 iraniano, così come dell’abbandono del 2011 delle primavere arabe, quando quei popoli chiedevano un aiuto dal mondo, che non è mai arrivato.
Le società connotate dall’Islam popolare chiedono tuttora dignità, chiedendo di stare nel mondo, non contro il mondo: chiedono ancora aiuto per realizzare la loro difficile transizione alla democrazia. Ma, come vediamo, i loro regimi cercano sempre, in un modo o nell’altro, la chiave di interesse che condiziona l’Occidente.
Negoziato e diritti
Le scelte decisive non sono ancora fatte. Un accordo diplomatico sulla rinuncia – provvisoria – al nucleare da parte iraniana non può essere sottovalutato. La palla decisiva per le sorti della partita sta evidentemente nel campo statunitense: Biden potrà permettersi di fermarla in nome dei diritti umani?
Ma dovrà inevitabilmente tener conto dello sciopero proclamato dai lavatori iraniani dei trasporti, del petrolchimico e di altri comparti dal 19 dicembre: tutto dice che la protesta si sta estendendo e che il regime non riesce ad arginarla.
Mi viene in mente papa Francesco in Kazakhstan riguardo al suo Paese – l’Argentina -, mentre parlava della natura malvagia delle dittature.
Rivolgendosi ai gesuiti della provincia russa Francesco aveva detto: «I governi dittatoriali sono crudeli. C’è sempre crudeltà nella dittatura. In Argentina prendevano la gente, la mettevano su un aereo e poi la buttavano nel mare. Quanti politici ho conosciuto che sono stati in prigione e torturati! In queste situazioni si perdono i diritti, ma anche la sensibilità umana. Io l’ho sentito in quel momento. Tante volte ho pure sentito bravi cattolici dire: Se la meritano questi comunisti! Se la sono cercata! È terribile quando l’idea politica supera i valori religiosi. In Argentina sono state le mamme a fare un movimento per lottare contro la dittatura e cercare i loro figli. Sono le mamme a essere state coraggiose in Argentina».
Le mamme e le figlie dell’Iran hanno creato un movimento di popolo con un coraggio che impone all’Occidente un preciso appello di resistenza ai nuovi totalitarismi mondiali. Il nodo è di portata epocale. La via del dialogo tra le civiltà oggi passa attraverso una decisione drammatica, quella di trattare, o meno, col regime khomeinista e a quale prezzo.