Provocazioni teologiche di un itinerario spirituale
Ricorreva il 1° dicembre un secolo dalla morte del beato Charles de Foucauld; e, alla fine del mese di ottobre, abbiamo ricordato i 130 anni da quel giorno nel quale Charles de Foucauld incontrò a Parigi l’abbé Huvelin che, attraverso la confessione e la comunione, gli fece ritrovare il Cristo conosciuto nell’infanzia, dimenticato nell’adolescenza, sostituito in giovinezza dalla ricerca leggera del piacere e della dissipazione; quel Cristo con il quale forse de Foucauld incominciò a identificarsi, senza saperlo, quando, travestito da mercante ebreo itinerante – in quella che all’epoca e in quel mondo costituiva una delle condizioni sociali più disprezzate – compì un’esplorazione del Marocco che gli sarebbe valso il plauso di tutta la Francia coloniale; un’impresa che gli meritò una medaglia d’oro della Società geografica nazionale e avrebbe potuto dargli lustro e fama; e che, invece, turbò il suo cuore, perché gli fece incontrare la fede e la sottomissione a Dio del popolo musulmano; una fede che lo spinse a riscoprire l’assoluto di Dio, pienezza e meta ultima di ogni desiderio e di ogni ricerca umana.[2]
Nel momento nel quale – e siamo appunto a 130 anni or sono, a fine ottobre del 1886 – Charles de Foucauld ritrova il Dio della fede appresa da bambino, in famiglia, non ha più nessun dubbio: a questo Dio egli vuole consegnare tutto se stesso, con una dedizione che non ammette sconti né mezze misure. L’incertezza, se vi è, riguarda per così dire il metodo, la via sulla quale concretamente incamminarsi, per fare dell’assoluto di Dio il centro della propria esistenza.
Una prima scelta è presto fatta, e del resto era già stata suggerita dall’esperienza dell’esplorazione del Marocco, compiuta tra il 1883 e il 1884: come aveva vissuto, fino ad allora, una vita diciamo pure gaudente, socialmente frenetica, insomma decisamente mondana, così, ora, passa radicalmente dall’altra parte: una vita ritirata, già in qualche modo “monastica”, salvo per quanto riguarda l’affettuosa partecipazione alla vita della famiglia, o di ciò che ne rimane – in particolare la cugina alla quale fu sempre legatissimo, Marie de Bondy, che fu per lui un esempio costante e una figura di confronto permanente per la vita di fede.
Verso Nazaret: un movimento di “fuga”
Il grande movimento, che fa seguito alla sua conversione, è un movimento di ritirata, di fuga: fuga dal mondo, fuga dalla società gaudente così volentieri frequentata in giovinezza, fuga anche dagli onori che gli vengono giustamente tributati per i suoi lavori geografici ed etnografici; una vera fuga mundi, che già configura quello che sarà un tratto determinante della sua esistenza futura, il polo monastico.
Se non che, prima di intraprendere una scelta monastica, su suggerimento, anzi su comando del suo direttore spirituale, il neoconvertito dedica qualche settimana a un pellegrinaggio in Terra Santa. Intrapreso malvolentieri, quel pellegrinaggio – che si compie tra il 1888 e il 1889 – segna una svolta decisiva nella sua vita, perché gli fa scoprire quello che sarà poi il centro permanente di tutta la sua avventura spirituale: il mistero di Nazaret.
Il paese nel quale Gesù passò la maggior parte della sua vita, a quanto possiamo saperne, all’epoca nel quale Charles de Foucauld lo visitò (gennaio 1889) non doveva essere molto diverso da quello di Gesù, per lo meno quanto a dimensioni (certamente molto diverso da adesso). In ogni caso, Nazaret fu una vera folgorazione: «A Nazaret, Charles de Foucauld vede quel Dio che ha camminato tra gli uomini. Lo incontra alla fontana, assieme a Maria; lo vede guardando gli artigiani lavorare. Ma lo vede a modo suo, secondo la mentalità di chi desidera cambiare vita. Ciò che deve fare gli è svelato per le strade di Nazaret: Dio si è fatto uomo, e in quel modo è vissuto in mezzo agli uomini. Allora, per seguire Gesù, è quella la via da imboccare».[3]
Da questo viaggio in poi, Nazaret rimane la cifra costante di tutto l’itinerario spirituale del futuro beato.[4] Quando si parla di “cifra costante”, non si deve però intendere la cosa come se si trattasse di un riferimento rigido, di un modo di intendere le cose definito una volta per tutte. L’avventura spirituale di Charles de Foucauld è anche l’avventura di una continua, o quasi, “ridefinizione” di che cosa sia “Nazaret”, di che cosa significhi seguire/imitare Gesù –giacché di questo si tratta, e con una radicalità che lasciò senza fiato i contemporanei di de Foucauld, come lascia ancora oggi ammirati e anche sconcertati – ma, precisamente, il «Gesù di Nazaret».
Volendo forzare un po’ le cose, si potrebbe persino sostenere che Charles de Foucauld ha «reinterpretato» Nazaret, la cifra spirituale di Nazaret, in modo da farla quadrare con l’evoluzione del suo itinerario e con le diverse scelte che, via via, è andato compiendo.[5] Una Nazaret a proprio uso e consumo, dunque? Per quel che ho potuto capire, non credo che sia così. O, forse, si deve dire che è così soprattutto all’inizio, è così nella fase propriamente «monastica» dell’avventura di Nazaret, e anche nei tre anni che de Foucauld trascorrerà fisicamente nel paese di Gesù: ma sarà proprio la meditazione e contemplazione del mistero di Nazaret a smuovere cuore, mente e spirito di Charles de Foucauld, a fargli comprendere la «verità di Nazaret» in modo molto più profondo e autentico, rispetto alle “ingenuità” dei primi tempi.
Tutte le fasi successive della vita di Charles de Foucauld sono contrassegnate dalla volontà di stare all’intuizione originaria – Dio lo chiamava a seguire Gesù non genericamente, non secondo tutti gli aspetti della sua esistenza, ma precisamente nella «forma di Nazaret» – ma, al tempo stesso, di non “installarsi” in essa, e di lasciarsi via via chiamare su una strada sempre più esigente e, al tempo stesso, sempre più “vera”.
Nelle grandi linee, queste tappe si possono riassumere come segue. Anzitutto, l’ingresso nella vita monastica, per la precisione nell’abbazia trappista di Notre Dame des Neiges, in Ardèche (siamo al 15 gennaio 1890): un ingresso doloroso soprattutto per il distacco dalla famiglia, che Charles sentì in modo particolarmente pesante, ma che sigillava la sua scelta di un distacco totale, netto, da tutto ciò che era stata la sua vita fino ad allora. Poi, dopo pochi mesi, il successivo passaggio all’abbazia di Akbès, in Siria, una delle abbazie più povere della congregazione trappista, dove sembra a Charles (che, concluso il noviziato, emette i primi voti con il nome di fr. Marie Albéric) di poter vivere il mistero di Nazaret in modo pieno: perché appunto la sua interpretazione del mistero di Nazaret è, in questo momento, di tipo monastico, e non si fatica a leggere, dietro la descrizione idealizzata che egli dà della vita della Santa Famiglia, la descrizione perfetta di un monastero!
Una cosa del genere, è chiaro, non poteva funzionare, anche se ciò che de Foucauld sente, in questo momento, è soprattutto l’insufficiente pratica della povertà in quella che, pure, era un’abbazia piccola e povera quant’altre mai (la difficoltà non nasce tanto da una percezione di benessere economico, quanto da quella della sicurezza: bene o male, i monaci nella loro abbazia sono abbastanza al riparo dalle difficoltà della vita; il termine di confronto che il neo-monaco aveva, e al quale guardava, erano gli operai, i braccianti che lavoravano anche al servizio del monastero e che gli sembravano, loro sì, molto più vicini a quella che doveva essere la vita povera e senza assicurazioni di Gesù a Nazaret).
Matura così la decisione di lasciare la trappa, decisione alla quale viene autorizzato nel 1896; l’anno dopo lo troviamo di nuovo a Nazaret, dove cerca ancora una volta di nascondersi, di seppellirsi, diventando appunto il servitore di un convento di Clarisse, che per i pochi servizi che gli chiedono gli permettono di starsene in una sua casupola nell’orto e di dedicare molto tempo alla preghiera e alla meditazione, soprattutto sul Vangelo – ma anche alla stesura della regola di vita (articolata e, soprattutto, severissima) che vorrebbe proporre a quanti, come spera, volessero unirsi a lui in una vita religiosa imperniata sull’imitazione di Gesù a Nazaret.
Vive a Nazaret da operaio come Gesù operaio e alla presenza di Gesù; considerarsi il suo «piccolo fratello», incontrando Gesù soprattutto nell’eucaristia e meditando i suoi comportamenti nei racconti evangelici: due tratti che saranno una costante di tutta la sua vita. Charles vive dunque a Nazaret (dal 1897 al 1899), in quella che dovrebbe essere, e in parte è, la condizione ottimale per realizzare quello che cerca, ossia una forma di vita tutta dedita a Dio nell’imitazione della vita nascosta e povera di Gesù. Vive a Nazaret, ma è soggetto a molte inquietudini e tentazioni “di fuga”, di attivismo, smania di fondazioni…[6]
Tutte cose tenute a bada con fatica dal direttore spirituale Huvelin, che sapientemente non ritiene Charles adatto a guidare delle anime o una fondazione religiosa, ed è spaventato dalla radicalità di vita che il suo figlio spirituale vorrebbe proporre anche ad altri. C’è, tuttavia, qualcosa di profondamente “positivo” che sta sbocciando, anche se si esprime in forme faticose, ed è la consapevolezza che “Nazaret” comporta una dimensione sin qui lasciata da parte, ma che si rivelerà determinante per tutte le scelte future di de Foucauld. È la dimensione che lo porta verso gli altri, è la preoccupazione per la «salvezza delle anime», e specialmente di quelle più abbandonate e dimenticate, quelle tra le quali – come dirà – Gesù è meno conosciuto e meno amato. È, diremmo noi, la dimensione “apostolica”, che affiora e che diventa sempre più prepotente. Come si concilia, questa dimensione, con il mistero di Nazaret?
Meditando i vangeli, Charles de Foucauld trova la risposta nel mistero della Visitazione.[7] Si tratta, più precisamente, della Visitazione colta nel gesto di Maria che porta ad altri un Gesù che rimane invisibile e pure, con la sua presenza, santifica coloro verso i quali è portato. Si tratta – per uscire dal linguaggio parabolico – della possibilità di un apostolato che avviene non attraverso la predicazione e le altre forme esplicite dell’annuncio, ma nel nascondimento, nella preghiera, nell’abiezione (come Charles ama ripetere): dunque di un apostolato che non solo non è in contrasto con lo stile di vita di Nazaret, ma anzi lo richiede e lo valorizza, specialmente in tutte quelle situazioni nelle quali l’annuncio diretto ed esplicito è impossibile o prematuro.
Nazaret: verso la fraternità
Ancora Nazaret, dunque: non, però, come una specie di «monastero famigliare», ma come una nuova possibilità di apostolato, di dedizione di sé all’opera della salvezza. Così, il mistero della Visitazione mette in moto un movimento nuovo, nella vicenda spirituale di Charles, o di fr. Charles de Jésus, come ormai si fa chiamare: se la conversione l’aveva condotto a una fuga mundi, ad allontanarsi, nel nascondimento, da tutte quelle relazioni che avevano caratterizzato la sua vita precedente, adesso sente che Dio lo manda ancora in mezzo agli uomini: ma precisamente secondo la «forma di Nazaret», che è la forma della condivisione umile e semplice, quotidiana, incentrata principalmente su molta preghiera, molta adorazione, molta povertà…
Tutto questo, tra l’altro – ma non è una cosa da poco – conduce de Foucauld a vedere in modo nuovo anche la problematica del ministero sacerdotale: ministero da lui rifiutato, quando la cosa si prospettava durante gli anni di permanenza alla trappa, perché lo vedeva come un innalzamento sociale, contrario a quell’abbassamento che stava invece cercando; e perché temeva (non senza ragione) che il ministero sacerdotale fosse solo l’anticamera di incarichi di responsabilità, dai quali rifuggiva. Adesso, invece, guarda il ministero da un’angolazione nuova, che è appunto quella apostolica, e lo vede come partecipazione all’opera salvifica di Cristo, e come possibilità di portare l’eucaristia, e Gesù in essa, anche e soprattutto nei luoghi dove è assente, e dove il tabernacolo è come il grembo di Maria, che porta il Figlio invisibile agli occhi del mondo, ma presente e operante per la salvezza di tutti.
Fr. Charles decide dunque di lasciare Nazaret, di tornare in Francia per prepararsi al ministero sacerdotale, che riceverà (il 9 giugno 1901) nella diocesi di Viviers, e per incominciare a vivere la sua vocazione di monaco-missionario (come dirà lui stesso, anche senza dare a questa espressione il senso di una «definizione» tecnica di uno stato di vita).
Nel momento in cui si tratterà di pensare a “dove” vivere questa vocazione, il pensiero ritornerà pressoché subito all’Africa, conosciuta negli anni di appartenenza all’esercito e poi esplorata nella sua memorabile ricognizione del Marocco. Ed è appunto al Marocco, che egli pensa: un territorio immenso (il doppio della Francia), senza nessun prete, senza nessuna presenza cristiana… Ma il Marocco è, al momento, inaccessibile; così, d’intesa con mons. Guérin, «Missionario d’Africa» («Padri bianchi»), prefetto apostolico del Sahara, dal quale ormai dipenderà, si stabilisce (nel 1902) a Beni Abbès, nel Sahara algerino, non distante dalla frontiera col Marocco, guardata con costante desiderio, e però mai più attraversata.
I circa quattro anni vissuti a Beni Abbès sono quelli della realizzazione migliore del suo intendimento di vivere il mistero di Nazaret nella forma di «monaco-missionario». Costruisce un vero e proprio monastero, che prevederebbe la presenza di venticinque fratelli disposti a condividere le sua vita durissima; si dà una regola di vita molto rigida, si preoccupa di non oltrepassare mai – se non per il soccorso a malati gravi – la clausura che si è imposta; si dedica con una tenacia a tutta prova alle almeno otto ore di preghiera, otto di lavoro (il resto per i pasti e un po’ di riposo) che scandiscono la giornata…
Questo «monastero», però, è affollatissimo: ma non da altri «piccoli fratelli» che vogliano raggiungerlo a condividere questa sua vita durissima (è noto che non avrà, nel corso della sua vita, nessun confratello stabile), bensì da tutte le persone alle quali egli cerca di fare del bene: da poveri, ammalati, soldati delle guarnigioni francesi che occupano il territorio – inutile negare che l’esperienza di Charles de Foucauld è possibile grazie alla presenza dell’esercito del paese colonizzatore, un esercito nel quale peraltro egli ha molte relazioni…
Insomma, si affaccia qui una nuova dimensione del «mistero di Nazaret», una nuova dimensione che, peraltro, non era così «imprevista» dal marabutto, come ormai lo si incomincia a chiamare: ossia l’incontro con l’altro, l’accoglienza, la condivisione, l’ospitalità, l’elemosina… L’altro, il fratello, entra ormai in modo deciso nella vita di Charles de Foucauld, e gli offre la possibilità di sperimentare quella forma di condivisione, di relazione, di fratellanza che vuole essere “universale” nell’orizzonte, ma poi concretamente vissuta con quanti gli si fanno incontro giorno per giorno.
È il suo modo di annunciare Cristo, di portarlo agli «infedeli», perché Charles de Foucauld è convintissimo che questo sia necessario fare: ma di farlo appunto in questo modo, attraverso la «vita di Nazaret» ora intesa secondo questa modalità, e sempre accompagnata dall’eucaristia, che rimane il centro vivente della sua vita orante e apostolica.
Portare Cristo agli «infedeli», far conoscere loro le ricchezze insondabili di Cristo, si diceva. Ma poi scoprire che qualcosa di queste ricchezze è già presente. Venire a sapere, ad esempio, che una donna della “nobiltà” Tuareg, in una regione molto più a sud di Beni Abbès, nell’Hoggar, qualche tempo prima, nel corso di una spedizione finita disastrosamente per una compagnia dell’esercito francese, che è stata sconfitta dai combattenti Tuareg, si è opposta risolutamente all’uccisione dei “nemici” francesi, e anzi li ha accolti e curati in casa sua: scoprire questo, e dunque rendersi conto che l’insegnamento evangelico dell’amore per il nemico non è sconosciuto tra questi infedeli; e sentirsi proporre da un antico commilitone la possibilità di insediarsi in mezzo ai Tuareg, e di diventare così l’unica presenza cristiana in mezzo a questo popolo…
È di qui che parte l’ultima tappa della vita di Charles de Foucauld, che nel 1905 si insedia a Tamanrasset, un piccolo villaggio, che contava allora una ventina di famiglie nel cuore dell’Hoggar (siamo, tanto per avere un ordine di idee, a circa duemila chilometri a sud di Algeri), e vi rimarrà fino alla morte, allontanandosi solo per alcuni viaggi (sarà in Francia, per periodi di qualche mese, nel 1909, e poi ancora nel 1911 e nel 1913) o spostandosi, ma sempre restando nella regione, per incontrare gruppi di Tuareg che vivono in altre zone.
Qui Charles è molto più isolato che a Beni Abbès, in mezzo a gente di cui non conosce la lingua, la cultura, le abitudini… Tutte cose che, peraltro, si metterà a studiare con accanimento, ciò che farà di lui, in capo a dieci anni, uno dei maggiori conoscitori del popolo Tuareg, e soprattutto della sua lingua e letteratura: è da sottolineare questo modo di inserirsi all’interno di un popolo straniero preoccupandosi di conoscerlo a fondo, di penetrarne la lingua e il pensiero, e anche di custodire un patrimonio prezioso di tradizioni, proverbi, poesie ecc.; e di tradurre per questo popolo il Vangelo, sia proprio nel senso primo del termine (traduzione del Vangelo in lingua Tuareg), sia nel senso di fare della propria vita un «Vangelo vivente», dove prende sempre più forma precisa il senso della fraternità.
L’aspetto “monastico”, per lo meno nel senso del monastero inteso come struttura anche fisica, regola di vita, clausura ecc., è sempre più superato: anche la stessa distanza fisica dal villaggio – cercata a Beni Abbès – non è un problema, perché ormai de Foucauld non sente più il bisogno di questa separazione, una fila di sassi che chiunque può superare senza fatica è l’unico segno della “clausura”. Del resto, nei primi tempi i visitatori sono pochi, a Tamanrasset non c’è tutta la confusione di Beni Abbès,[8] Charles fa anche l’esperienza di una radicale solitudine, superata solo poco alla volta, a mano a mano che i suoi vicini imparano a conoscere l’uomo, a sperimentarne il desiderio di fraternità, di amicizia, l’interesse autentico per la loro cultura e per le loro vicende, e soprattutto la carità senza limiti.
Proprio questa carità determina un’altra svolta importante:[9] nell’inverno 1907-08 la regione dell’Hoggar subisce una gravissima carestia. C’è siccità, non c’è vegetazione, anche i pochi animali – le capre, in particolare, che danno ai Tuareg il latte che è l’elemento base della loro alimentazione – non hanno più latte da dare, o quasi; Charles dà alle famiglie, alla gente, tutto quello che ha, e lui stesso incomincia a patire la fame, si ammala di scorbuto, ed è vicino alla morte. In quel momento, sono i vicini a salvarlo. Fanno il giro di tutte le capre che trovano nei dintorni, mungono quel poco di latte che c’è e glielo portano, perché possa ristabilirsi.
Questa è una svolta fondamentale, almeno agli occhi di Chatelard – ma la ricordano e la sottolineano anche i vescovi algerini nella loro lettera –, perché qui Charles de Foucauld entra in quella dimensione per la quale non è più soltanto lui a dare, fosse pure dare tutto se stesso, la sua stessa vita, ma impara a ricevere; impara a ricevere la vita, a dipendere, a potersi «salvare» grazie alla carità e alla fraternità di altri. È una svolta che segnerà gli ultimi anni della vita di de Foucauld, conclusi il primo giorno di dicembre del 1916 con l’uccisione, avvenuta nel corso di una razzia – razzie di questo genere si erano moltiplicate nel corso dei mesi precedenti, e per questo Charles de Foucauld aveva voluto costruire una specie di fortino, in cui dare rifugio alla popolazione, e difenderla dalle varie scorrerie che venivano soprattutto dal Marocco e che avevano una funzione antifrancese. Di fatto, poi, la scorreria che lo condusse alla morte veniva da tutt’altra parte, dalla Libia; Charles fu preso in consegna da un ragazzino o poco più, armato, che più per paura personale che per altro, forse, gli tirò la pallottola che la sera del 1° dicembre 1916 gli tolse la vita.
Lo ritrovarono con sul corpo il piccolo ostensorio portatile nel quale conservava l’ostia consacrata; e ritrovarono, tra le sue carte, tutto lo straordinario lavoro linguistico, letterario e culturale sulla civiltà Tuareg, che aveva messo a punto negli anni. Tutto questo, peraltro, era diventato ormai per Charles de Foucauld una cosa secondaria: importantissima per far conoscere la cultura Tuareg, ma rifiutò categoricamente che queste opere fossero pubblicate con il suo nome, nonostante l’insistenza di mons. Guérin e di altri, che in tutto questo vedevano anche un titolo di gloria per la Chiesa. Charles fu nettissimo nell’opporsi e non volle che queste opere, ancora oggi fondamentali per la conoscenza del popolo Tuareg, portassero il suo nome.
Nazaret qui è diventata, dunque, la fraternità piena, la condivisione radicale, il dono di sé ma anche il sapersi amato e aiutato; non è più il nascondimento dagli uomini, ma il nascondimento in mezzo agli uomini. In un testo del 1904, una meditazione nella quale Charles fa parlare Gesù stesso, questi gli dice: «… per quanto concerne il raccoglimento, è l’amore che deve raccoglierti in me interiormente, e non l’allontanamento dai miei figli: in loro vedi me; e come ho fatto io a Nazaret, vivi presso di loro, perso in Dio».[10] Mi sembra una bella sintesi di tutto l’itinerario vissuto dal beato Charles de Foucauld.
Alcune implicazioni teologiche
Vorrei, con alcuni cenni conclusivi molto rapidi, sottolineare qualche aspetto che mi sembra possa interessare anche la teologia, e non soltanto la spiritualità. Su questa, naturalmente, resterebbe ancora moltissimo da dire; in ogni caso, per quanto riguarda la teologia, mi sembra utile – nella consapevolezza di operare una scelta molto soggettiva – indicare qualche aspetto più significativo.
Prima di tutto, in ambito cristologico: mi sembra importante – e in parte anche lo si fa – integrare sempre più il «mistero di Nazaret» nella riflessione cristologica. Non condivido le posizioni di quei teologi secondo i quali la cristologia troverebbe un fondamento sufficiente nel Gesù prepasquale: ritengo che non si possa dare cristologia in senso vero e proprio se non a partire dalla fede pasquale, dalla fede nel Cristo risorto, con tutto quello che ne deriva.[11] Ma proprio il modo in cui si è sviluppata nelle prime generazioni cristiani la confessione di fede in Gesù Cristo, a partire dalla fede pasquale, mi sembra rilevante: se, infatti, la composizione dei Vangeli quali li conosciamo noi risale a non prima del 70-80 (conforme alle valutazioni di una larghissima parte della ricerca esegetica), dobbiamo chiederci: come mai le prime generazioni cristiane sentono il bisogno di «tornare al racconto»?[12]
Dopo che la fede cristologica si è espressa, per i primi decenni, attraverso le formule, le homologie, i titoli cristologici, gli inni ecc., a un certo punto si sente il bisogno di tornare (o forse è meglio dire: di cominciare) a raccontare di Gesù, a parlare di lui e a dire e proporre la fede in lui attraverso il racconto. La cosa merita attenzione, e porta a chiedersi in che modo il racconto include Nazaret: perché poi naturalmente sappiamo bene che i vangeli ci dicono pochissimo, a proposito di questi anni della vita «nascosta» di Gesù.[13]
A me sembra che una lettura attenta di tutto l’insegnamento di Gesù e di quanto i vangeli ci trasmettono di lui mostri quale conoscenza profonda e intima Gesù ha della vita ordinaria dell’uomo. L’esistenza umana che traspare dai suoi insegnamenti è quella “comune”, normale, la vita di tutti i giorni, quale si poteva vedere in un piccolo villaggio, qual era Nazaret al tempo di Gesù. Nazaret entra nella riflessione cristologica anche in questo modo, perché la vita ordinaria, appresa a Nazaret, diventa parabola del mistero del Regno, e permette di capire tutto il mistero della kenosis del Verbo non soltanto nel momento drammatico della croce, alla quale del resto Charles de Foucauld è sensibilissimo,[14] ma anche nella kenosi prolungata della sua vita immemore di tutto davanti al Padre e in mezzo ai fratelli: «Nazaret è la vita di Gesù, non semplicemente la sua prefazione. È la missione redentrice in atto, non la sua mera condizione storica. Nazaret è il lavoro, la contiguità, la prossimità domestica del Figlio che si nutre per lunghissimi anni di ciò che sta a cuore all’abbà-Dio («Non sapevate che devo occuparmi delle cose del Padre mio?», Lc 2,49). Identificazione di Dio che passa per lo più inosservata, e proprio perciò rivelazione clamorosa; presenza assolutamente discreta, e proprio perciò miracolo dell’affectus Dei. Nazaret è già per il Figlio la kenosi lunghissima – una vita! – di un’identificazione immemore di privilegi con l’umanità perduta e sperduta, irriconoscibile e dimenticata (Fil 2)».[15]
Su questo mi sembra che la cristologia abbia ancora un terreno fecondo da esplorare.
La seconda osservazione riguarda l’ecclesiologia. L’esperienza di Charles de Foucauld potrebbe offrire elementi significativi per pensare il volto di un’ecclesiologia dell’amicizia, imperniata sul volto di una Chiesa fraterna, amica. Mi richiamo qui volutamente a un linguaggio che ho imparato a conoscere soprattutto nell’esperienza recente della Chiesa in Algeria, esperienza che non è senza legami con quella di Charles de Foucauld, ma che i cristiani in Algeria hanno vissuto soprattutto negli anni Novanta del secolo scorso, segnando con il sangue di laici, di consacrati e consacrate, fino ai monaci trappisti di Tibhirine e a mons. Pierre Claverie, uccisi – questi ultimi – giusto vent’anni fa, rispettivamente nel maggio e nell’agosto del 1996.
Il sangue di questi martiri sigilla la testimonianza di una Chiesa che volle vivere accanto al popolo musulmano sofferente in Algeria come «accanto a un amico»,[16] sapendo di non poter fare gran che in termini di apostolato, di proselitismo, di missione… di non dovere, anzi, fare gran che; eppure sapendo di poter dare testimonianza di Cristo e del vangelo attraverso questa amicizia.
Nella tradizione cristiana si è molto parlato della Chiesa Madre, della Chiesa Sposa, della Chiesa Maestra… forse è venuto il tempo di pensare il volto di una Chiesa amica, e tanto più amica quanto più il mondo sembra rifiutare questa amicizia o sottrarsi da essa.
In questo orizzonte mi sembra interessante riflettere anche sulla figura del ministero presbiterale, nella quale prendere in considerazione «l’ultimo posto». «Gesù ha scelto a tal punto l’ultimo posto che nessuno potrà mai toglierglielo»: è un’affermazione che Charles de Foucauld ha imparato dal suo direttore spirituale, l’abbé Huvelin, ma che è entrata al centro della sua esperienza. Papa Francesco, di tanto in tanto, parlando ai vescovi o anche ai preti, ha ricordato che la posizione del pastore nella Chiesa è variabile: qualche volta gli è chiesto di essere in testa al gregge, qualche volta di essere in mezzo; a volte gli è chiesto anche di stare in fondo, in coda, all’ultimo posto.[17] Su questo ci potrebbe essere qualche intuizione da sviluppare, proprio alla luce dell’esperienza di Charles de Foucauld, per una spiritualità e forse anche per una teologia del ministero ordinato.
Da ultimo, vorrei accennare al tema della teologia (ma anche della pratica) della missione. Charles de Foucauld si è considerato un «monaco missionario» – in realtà ci sono poi vari testi nei quali, soprattutto scrivendo e confrontandosi con mons. Guérin, rifiuta per se stesso un’identità «missionaria» nel senso tradizionale del termine.[18] Egli si sente piuttosto un precursore, uno che prepara la strada ai missionari; che va a dare una testimonianza di Cristo e del vangelo in questa forma nascosta, umile, semplice, fraterna, perché così si «impara» a conoscere il volto vero del vangelo vedendolo vissuto in queste modalità: dopo, poi, potrà esserci anche l’annuncio e tutto il resto dell’attività missionaria.
Personalmente, credo che l’esperienza di Charles de Foucauld abbia da insegnare qualcosa tout court alla missione della Chiesa, secondo quella linea che, negli ambienti della missione, da qualche anno si suole chiamare la «missione nella debolezza». De Foucauld svolge la sua attività nel momento in cui la missione è ancora fortemente legata alla colonizzazione, e dunque anche alla potenza militare, culturale e religiosa, dei popoli colonizzatori: e la missione si è potuta costruire anche – con tutte le contraddizioni del caso – grazie a questo intreccio, che ha potuto favorire la presenza dei missionari, l’edificazione delle loro opere e tutto ciò che i missionari (spesso con un impegno eroico) hanno potuto fare.
I decenni scorsi, certamente a partire dall’epoca della decolonizzazione, ma anche dopo per varie ragioni, sono stati anche i decenni nei quali gli Istituti missionari, e più complessivamente la missione della Chiesa, ha dovuto fare i conti con la «debolezza», la fragilità; e con la necessità di annunciare e testimoniare il vangelo non nella potenza dei mezzi o dei sostegni di vario tipo, ma nell’estrema debolezza.[19] Mi sembra che rileggere la vicenda di Charles de Foucauld ci possa ampiamente aiutare anche a questo riguardo.
Tutto questo, peraltro, con una certezza che per Charles de Foucauld non viene mai meno: si trattava di portare Cristo a tutti, senza nessuna ambiguità. Su questo l’eremita del Sahara non aveva dubbi; ma era altrettanto chiaro, per lui, che ciò richiede la costruzione paziente di dialogo, relazione, amicizia, fraternità vera e disinteressata… Richiede, insomma, di saper vivere il mistero di Nazaret sapendolo rileggere, come ha fatto lui, anche nella diversità delle condizioni di vita, di Chiesa, di chiamate di Dio, nel testimoniare il vangelo nel nostro mondo.
[1] Questo testo è stato presentato come prolusione inaugurale dell’anno accademico 2016-17 allo Studio teologico interdiocesano di Reggio Emilia, il 21 ottobre 2016.
[2] Cf. A. Mandonico, Nazaret nella spiritualità di Charles de Foucauld. Un luogo, un’esperienza, un simbolo, Studi religiosi, Messaggero, Padova 2002, 74.
[3] A. Chatelard, Charles de Foucauld. Verso Tamanrasset, Spiritualità occidentale, Qiqajon, Magnano (BI) 2002, ed. francese originale 2002, 43.
[4] Oltre al già citato saggio di Chatelard, Charles de Foucauld, su questo tema si può leggere l’assai ben documentato saggio di Mandonico, Nazaret nella spiritualità di Charles de Foucauld. A questi due testi rimando anche per ulteriori indicazioni bibliografiche.
[5] Cf. Chautelard, Charles de Foucauld, 79-82.
[6] Chautelard, Charles de Foucauld, 83-111, dedica pagine molto interessanti alle «tentazioni di Nazaret».
[7] Cf. Mandonico, Nazaret nella spiritualità di Charles de Foucauld, 176 ss.
[8] Cf. Chatelard, Charles de Foucauld, 232 s.
[9] Su questa svolta insiste molto Chatelard (cf. Charles de Foucauld, 245-262); Mandonico, che pure riferisce ampiamente della vicenda (cf. Nazaret nella spiritualità di Charles de Foucauld, 271-276), ritiene che Chatelard esageri, a questo riguardo, quando parla di una nuova «conversione» (cf. Chatelard, Charles de Foucauld, 257; per la critica di Mandonico, cf. Nazaret nella spiritualità di Charles de Foucauld, 271, nota 277). D’altra parte, lo stesso Chatelard riconosce che «Charles de Foucauld non ha misurato la portata di quell’evento, né il suo significato» (op. cit., 258), ma che possiamo farlo noi a posteriori, perché «se non seppe riconoscere l’importanza di ciò che stava vivendo allora, forse è perché le realtà del Regno hanno la caratteristica di non lasciarsi afferrare facilmente» (ivi, 259). L’importanza dell’episodio è segnalata, in ogni caso, anche nella lettera che i Vescovi di Algeria hanno scritto (nel 2015) in occasione del centenario foucauldiano.
[10] Riflessioni scritte il 26 maggio 1904: cit. in Chatelard, Charles de Foucauld, 222; cf. anche Mandonico, Nazaret nella spiritualità di Charles de Foucauld, 244.
[11] Cf. al riguardo E. Castellucci, Davvero il Signore è risorto. Indagine teologico fondamentale sugli avvenimenti e le origini della fede pasquale, Teologia – Strumenti, Cittadella, Assisi 2005, 207 s. e, più ampiamente, ivi, 127-159.
[12] Mi riferisco qui ad alcuni rilievi di D. Hercsik, Il Signore Gesù. Saggio di cristologia e soteriologia, Manuali, EDB, Bologna 2010, in particolare 113 ss.
[13] Per uno studio recente della questione, cf. S. De Marchi, Gesù. I primi trent’anni. Un’indagine biblico-narrativa, Studi cristologici, NS, Cittadella, Assisi 2014.
[14] Basti pensare all’immagine del cuore sormontato da una croce, che diventa parte della «firma» di fr. Charles.
[15] P. Sequeri, Charles de Foucauld. Il vangelo viene da Nazaret, Grani di senape, Vita e Pensiero, Milano 2010, 31 s. Tutto questo libretto di Sequeri merita di essere letto, sia come introduzione alla figura del b. Charles de Foucauld, sia come meditazione teologica intorno al «mistero di Nazaret».
[16] Cf. il titolo dell’edizione italiana di una raccolta di scritti di H. Teissier, arcivescovo di Algeri dal 1988 al 2008: H. Teissier, Accanto a un amico. Lettere e scritti dall’Algeria, prefazione di E. Bianchi, Sequela oggi, Qiqajon, Magnano (BI) 1998, ed. francese originale 1998.
[17] «Presenza pastorale significa camminare con il Popolo di Dio: camminare davanti, indicando il cammino, indicando la via; camminare in mezzo, per rafforzarlo nell’unità; camminare dietro, sia perché nessuno rimanga indietro, ma, soprattutto, per seguire il fiuto che ha il Popolo di Dio per trovare nuove strade»: Francesco, Discorso ai partecipanti al convegno per i nuovi vescovi promosso dalla Congregazione per i vescovi e dalla Congregazione per le Chiese orientali, 19 settembre 2013.
[18] Su tutta la questione, cf. Chatelard, Charles de Foucauld, 263-280.
[19] Tra altri, si veda J.C. Sivalon, Il dono dell’incertezza. Perché il postmoderno fa bene al Vangelo, Le nuove caravelle 11, EMI, Bologna 2014, ed. americana orig. 2012.
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