Il figlio della vergine Maria ha un doppio nome: quello usato dai suoi contemporanei – Gesù, colui che libera dai peccati – e quello che gli attribuisce l’evangelista Matteo – Emmanuele, Dio con noi.
La prima grande eresia venne introdotta da un brillante dialettico del IV secolo, Apollinare di Laodicea: sosteneva che Gesù aveva sì un corpo umano, ma non un’anima come la nostra. Temeva che, accordandogli una piena umanità, ne uscisse offuscata la sua divinità. Gli faceva un grave torto: lo allontanava dal nostro mondo, dalla nostra condizione; gli sottraeva il secondo nome, quello di Emmanuele.
Nell’espressione di Giovanni la Parola si è fatta carne (Gv 1,14), il termine carne non indica solo la corporeità, ma tutto l’essere umano inteso nel suo aspetto di debolezza, di fragilità, di limiti che derivano dal fatto di essere creatura.
In Maria, l’Unigenito del Padre non si è soltanto rivestito di muscoli, ma si è inserito pienamente nella nostra condizione umana.
Ha provato i nostri sentimenti, le nostre emozioni, le nostre passioni; ha sperimentato le gioie degli affetti e la delusione dei tradimenti; ha condiviso le nostre ansie, i nostri dolori e le nostre umiliazioni, la nostra ignoranza, la nostra soddisfazione nell’apprendere e anche la nostra paura di fronte alla morte.
Non si è unito a un “vero corpo”, ma è divenuto “realmente uomo”, in tutto come noi, tranne che nel peccato. Per questo è Emmanuele, Dio con noi.
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Sei venuto tra noi, Signore, per rimanere sempre con noi”
Prima Lettura (Is 7,10-14)
10 Il Signore parlò ancora ad Acaz: 11 “Chiedi un segno dal Signore tuo Dio, dal profondo degli inferi oppure lassù in alto”. 12 Ma Acaz rispose: “Non lo chiederò, non voglio tentare il Signore”. 13 Allora Isaia disse: “Ascoltate, casa di Davide! Non vi basta di stancare la pazienza degli uomini, perché ora vogliate stancare anche quella del mio Dio? 14 Pertanto il Signore stesso vi darà un segno. Ecco: la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele: Dio-con-noi”.
Il contesto storico in cui è stato pronunciato questo oracolo è ben noto.
Nel 734 a.C. i re di Aram e di Israele si alleano nel tentativo di liberarsi dal giogo assiro e pretendono di coinvolgere nella loro temeraria impresa anche Acaz che regna in Gerusalemme. Questi si rifiuta, allora i due re decidono di detronizzarlo, di porre fine alla sua dinastia e di stabilire sul suo trono un sovrano favorevole ai loro progetti (Is 7,1-10).
Il giovane Acaz – ha appena passato i vent’anni – è sgomento e frastornato. È un discendente di Davide, appartiene a quella nobile famiglia alla quale è stato promesso un regno eterno. Per bocca del profeta Natan, Dio ha assicurato: “Io renderò stabile per sempre il regno della famiglia di Davide, non ritirerò mai da lui la mia protezione, il suo potere sarà stabile per sempre” (2 Sam 7,14-16). Non dovrebbe dunque temere, ma la sua fede in Dio è fragile, fa calcoli umani e comincia a commettere un errore dopo l’altro. Compie perfino il crimine abominevole di immolare agli idoli il suo unico figlio (2 Re 16,3); poi, cosciente di avere un esercito troppo debole e di correre il rischio di venire sopraffatto, chiede aiuto all’Assiria.
Venuto a conoscenza della decisione del re, Isaia interviene.
Gli assiri dominano la scena internazione e non avranno difficoltà a proteggere il piccolo regno di Giuda, ma pretenderanno di ridurlo a vassallo; porranno in pericolo soprattutto la fede e la purezza religiosa del popolo di Dio.
Il profeta decide di rivolgersi personalmente ad Acaz. Gli va incontro, insieme al figlio Seariasùb, presso la piscina superiore, sulla strada del campo del lavandaio (Is 7,3). Lo trova mentre, sempre più agitato, sta studiando il modo di provvedere l’acqua per la città in vista dell’imminente assedio. Gli parla in nome di Dio, lo rassicura: “Ciò che tu temi non avverrà e non accadrà” (Is 7,8). Gli chiede di avere fiducia non nell’Assiria, ma nel Signore e nelle sue promesse. I nemici che lo spaventano, che lo scuotono e lo fanno tremare, come se fossero un vento impetuoso e inarrestabile, non sono altro che una nuvoletta di fumo che sale da due tizzoni bruciacchiati. Nessuna paura: la sua dinastia continuerà a regnare in Gerusalemme, per sempre, come il Signore ha promesso.
Nulla da fare! Il re si intestardisce sempre più, convinto che la forza degli assiri meriti più fiducia che Dio.
Passano alcuni giorni e Isaia va di nuovo a trovarlo, nel suo palazzo. Siamo giunti alla nostra lettura.
Gli dice: se non hai fiducia nelle mie parole, se vuoi una garanzia, chiedi un segno! (v. 11). Acaz non è disposto a ricredersi, perciò non gli interessa alcun segno.
Lo voglia o no, Isaia dà ugualmente il segno: “Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio che chiamerà Emmanuele” (v. 14). Che significa?
Qualcuno ha pensato che Isaia predicesse, con sette secoli di anticipo, il concepimento verginale di Maria, ma un simile segno non avrebbe avuto alcun senso per Acaz.
La vergine, cui Isaia si riferisce, è la giovane moglie del re. Questa ragazza – assicura il profeta – avrà un figlio il cui nome sarà “Emmanuele” che significa “Dio è con noi”. Questo figlio succederà a suo padre, darà continuità alla dinastia e nessuno lo spodesterà, anzi, sarà un grande re, un nuovo Davide.
Ho spiegato in modo piuttosto dettagliato questa breve lettura perché l’evangelista Matteo ha visto la piena realizzazione di questa profezia nella nascita di Gesù dalla vergine Maria.
Com’è andata a finire la guerra che Acaz stava preparando? Come Isaia aveva previsto: fu un disastro sia politico che religioso. L’Assiria intervenne e ridusse presto a “tizzoni fumiganti” i re di Aram e d’Israele. Acaz fu umiliato, dovette pagare forti tributi e il regno di Giuda divenne una colonia assira.
Il segno dato dal profeta si realizzò: il figlio di Acaz fu concepito dalla “vergine”, nacque e divenne il segno della presenza di Dio in mezzo al suo popolo; fu la prova della fedeltà del Signore alle sue promesse. Fu chiamato Ezechia, ma a lui si poté giustamente applicare il titolo di “Emmanuele”-“Dio è con noi”. Fu un buon re, ma non il sovrano eccezionale che forse lo stesso Isaia si aspettava.
Per questo, in Israele si cominciò ad attendere un altro re, un figlio di Davide che adempisse pienamente la profezia, che fosse davvero il “Dio con noi”. Nel vangelo di oggi Matteo lo indicherà: è il figlio della vergine Maria.
Seconda Lettura (Rm 1,1-7)
1 Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per vocazione, prescelto per annunziare il vangelo di Dio, 2 che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture, 3 riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, 4 costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore. 5 Per mezzo di lui abbiamo ricevuto la grazia dell’apostolato per ottenere l’obbedienza alla fede da parte di tutte le genti, a gloria del suo nome; 6 e tra queste siete anche voi, chiamati da Gesù Cristo. 7 A quanti sono in Roma diletti da Dio e santi per vocazione, grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo.
Inizia, con questa lunga introduzione, la lettera ai Romani. Ricalca la forma consueta delle lettere di quel tempo che prevedevano uno schema fisso: indicazione del nome del mittente, seguito da quello del destinatario, un saluto augurale (solitamente khairein – salve!) e un breve esordio dettato dalle circostanze.
Paolo fa suo questo formulario e lo adatta ad uno scopo specifico. Al nome del mittente, il suo, aggiunge le qualifiche che gli conferiscono il diritto di rivolgersi a una comunità insigne come quella di Roma. Si presenta come apostolo, come araldo del vangelo e come servo di Gesù (v. 1).
Sono tre titoli significativi: il primo per ricordare ai suoi lettori l’autorità che ha ricevuto direttamente da Cristo di fondare, fra i pagani, nuove chiese; il secondo è per lui un motivo di vanto: si ritiene onorato di essere stato scelto da Dio per annunciare la lieta notizia della risurrezione di Cristo; il terzo – “servo del messia Gesù” – ha, nell’ambiente culturale ellenistico, un senso dispregiativo: onorati erano i signori, non gli schiavi, ma, a chi è aduso al linguaggio biblico, questo termine richiama i grandi personaggi dell’AT, i servi di Dio: Mosè, Giosuè, Davide e soprattutto il “Servo del Signore” di cui ha parlato il profeta Isaia.
Nella parte centrale del brano (vv. 2-6) viene presentata la persona di Gesù: è nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, ma la sua vera identità, quella di figlio di Dio, è stata rivelata nel giorno di Pasqua, quando, con un gesto di potenza, il Signore lo ha risuscitato dai morti. È il Risorto che Paolo è chiamato ad annunciare.
Il versetto conclusivo (v. 7) indica i destinatari della lettera, i cristiani di Roma – “diletti da Dio” e “santi per vocazione” – e contiene il saluto, tipico dello stile epistolare orientale, cui Paolo aggiunge l’augurio della “pace” che, nel linguaggio giudaico, equivale all’augurio di ogni benedizione di Dio.
Vangelo (Mt 1,18-24)
18 Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. 19 Giuseppe suo sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto. 20 Mentre però stava pensando a queste cose, ecco che gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. 21 Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”.
22 Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: 23 “Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele”, che significa Dio con noi. 24 Destatosi dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa.
“Ecco come avvenne la nascita di Gesù”. Così inizia il brano evangelico di oggi, ma invece di parlare della nascita, racconta l’annuncio a Giuseppe della maternità verginale della sua sposa.
Luca, a differenza di Matteo, narra l’annuncio dell’arcangelo Gabriele a Maria e ricorda solo marginalmente Giuseppe.
La tentazione di fondere i due racconti, come se fossero reportage di due giornalisti, è grande, ma è pericolosa: ci colloca inevitabilmente di fronte a interrogativi cui è arduo, se non impossibile, dare una risposta, come tra poco vedremo.
Sia Luca, sia Matteo fanno riferimento a fatti reali, anche se difficilmente definibili nei dettagli, ma non scrivono pagine di cronaca, fanno teologia: presentano Gesù come, dopo la Pasqua e alla luce dello Spirito, le comunità cristiane della fine del I secolo sono giunte a conoscerlo.
Vediamo come Matteo struttura il suo racconto e quale messaggio vuole dare.
Al tempo di Gesù il matrimonio avveniva in due tappe. La prima consisteva nel contratto stipulato fra i due sposi davanti ai genitori e a due testimoni; dopo questa firma, il ragazzo e la ragazza erano marito e moglie, ma non andavano a convivere, lasciavano trascorrere ancora un anno, durante il quale non si potevano incontrare.
Questo intervallo serviva alle due famiglie per una migliore conoscenza e ai due sposi per maturare: ci si sposava infatti molto giovani, 12-13 anni la ragazza, 15-16 il ragazzo. Questa doveva essere l’età di Maria e Giuseppe.
Passato l’anno di attesa, veniva organizzata una festa, la sposa era condotta alla casa del marito e i due iniziavano la vita in comune.
Fu durante questo intervallo che ebbe luogo l’annunciazione a Maria e la sua gravidanza per opera di spirito santo.
Matteo mette in risalto questo fatto fin dall’inizio del suo racconto, per evitare che si insinui il dubbio che Gesù sia stato generato per l’intervento di un uomo.
Lo spirito, in questo racconto, non rappresenta l’elemento maschile (ruah- spirito in ebraico è femminile), indica una forza, un soffio divino creatore. “Mandi il tuo spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra” – dice il salmista (Sal 104,30) che pensa probabilmente allo spirito di Dio che aleggiava sulle acque all’inizio del mondo (Gn 1,2).
Il concepimento verginale, che è ricordato esplicitamente anche da Luca (Lc 1,26-39), non ha lo scopo di sottolineare la superiorità morale di Maria, né, ancor meno, costituisce un deprezzamento della sessualità. È introdotto per “rivelare” una verità fondamentale per il credente: Gesù non è unicamente uomo, egli viene dall’alto, è lo stesso Signore che ha assunto forma umana. Per farci comprendere questa verità, affermano concordi Matteo e Luca, Dio è ricorso a un atto creativo.
Ciò che è successo in seguito non è facile da stabilire e solleva parecchi interrogativi. Appare incredibile che Giuseppe, nonostante la sua rettitudine, pensi di prendere provvedimenti drastici nei confronti di Maria, senza neppure averla consultata. Come poteva sospettare che gli fosse stata infedele? In che senso Giuseppe era “giusto”: forse perché voleva separarsi da Maria? Non c’era alcuna legge che obbligasse a divorziare dalla moglie infedele. Del resto non sarebbe stato un bel gesto quello che Giuseppe stava per fare, anche se veniva compiuto “in segreto”. Come mai Maria non ha detto nulla a Giuseppe dell’annuncio che aveva avuto dall’arcangelo Gabriele? Oppure, se glielo ha detto, perché Giuseppe non le ha creduto?
A queste domande qualcuno risponde: Maria deve aver detto al suo sposo che il figlio che aspettava veniva da Dio; non avrebbe avuto alcun motivo di mantenere il segreto su un fatto che egli era in diritto di sapere. Il dubbio di Giuseppe allora non verterebbe sulla fedeltà o infedeltà della sposa, ma sul suo ruolo in questo avvenimento straordinario. Come avrebbe potuto dare il nome a un figlio non suo? Non sarebbe stata un’intromissione indebita nel progetto di Dio? Non sapendo come comportarsi, aveva pensato di tirarsi in disparte e attendere che Dio gli facesse conoscere la sua volontà.
Mentre egli andava meditando queste cose, il Signore gli rivelò il suo progetto e la missione alla quale lo chiamava: doveva dare il nome a Gesù; così il figlio di Maria sarebbe entrato di diritto nella sua famiglia, sarebbe divenuto discendente di Davide “secondo la carne”, come ha detto Paolo nella seconda lettura.
Questa spiegazione è interessante e contiene elementi sicuramente accettabili – come, per esempio, il fatto che Giuseppe sia chiamato “giusto”, perché aveva deciso di farsi da parte per non frapporre ostacoli al piano di Dio che non riusciva a capire – ma ha il limite di essere una supposizione alla quale il testo evangelico dà solo un fragile fondamento.
È meglio non tentare di trovare nel vangelo risposte a interrogativi, che noi legittimamente ci poniamo, ma che a Matteo non interessavano.
Egli non era preoccupato di darci informazioni o di soddisfare le nostre curiosità. L’unica cosa che gli premeva era che ci rendessimo conto che il figlio di Maria era l’erede del trono di Davide, promesso dai profeti.
La conclusione del racconto è solenne. Tutto il brano sembra sia stato scritto per dimostrare l’adempimento di ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: “Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che significa Dio con noi” (vv. 22-23).
Abbiamo già visto qual era il significato letterale di questa profezia: l’annuncio della nascita del figlio di Acaz, Ezechia. Egli fu realmente un “Emmanuele”, cioè un segno che Dio proteggeva il suo popolo e la dinastia di Davide, ma non rispose a tutte le attese che erano state riposte in lui e nemmeno realizzò le promesse di felicità, di benessere e di pace descritte da Isaia. Non fu “un prodigio di consigliere, un guerriero invincibile, un padre per sempre, un principe della pace…” (Is 9,5-6).
Ecco cosa intende dire Matteo: è Gesù colui che ha adempiuto queste profezie, è lui il figlio della vergine annunciato dal profeta. Egli è realmente l’“Emmanuele” il “Dio con noi”. A lui sarà dato un regno eterno e in lui si compiranno tutte le speranze di Israele.
Siamo all’inizio del vangelo di Matteo. Il tema dell’“Emmanuele” torna anche alla fine del libro. Nell’ultimo capitolo si dice che, dopo la risurrezione, Gesù si manifestò ai suoi discepoli sul monte della Galilea, li inviò nel mondo intero a far discepole tutte le nazioni e aggiunse: “Ecco, io sono con voi (…Ecco io sono l’“Emmanuele”) tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Il richiamo al “Dio con noi” apre e chiude tutta l’opera di Matteo perché – ci dice l’evangelista – in Gesù, Dio si è messo, e rimane per sempre, a fianco dell’uomo.
In questa conclusione del brano ritorna il tema della “vergine”. Abbiamo già spiegato il significato del concepimento verginale di Maria. Vogliamo ricordare altre implicazioni bibliche di questo termine.
Per noi “vergine” significa “ammirevole, degna di stima”. Nella Bibbia invece ha un diverso significato. La verginità di una donna era apprezzata prima del matrimonio, ma colei che rimaneva vergine per tutta la vita mostrava solo l’incapacità di attirare su di sé lo sguardo di un uomo. Degna di lode in Israele era la donna sposata che aveva figli; la vergine era considerata un albero senza frutti, meritevole di commiserazione (Is 56,3-6).
Questo termine ricorre spesso nella Bibbia, in senso figurato, per indicare una condizione spregevole. L’espressione vergine Sion non vuol dire: “Gerusalemme pura, immacolata, senza macchia”, ma “povera, disprezzata, priva di vita” (Ger 31,4; 14,13). La terra d’Israele annientata dagli assiri è paragonata da Amos alla vergine che non ha potuto realizzare il suo sogno di essere madre: “ È caduta, non si alzerà più, la vergine d’Israele; è stesa al suolo, nessuno la fa rialzare” (Am 5,2). Anche Babilonia, la sanguinaria, viene maledetta dal profeta: “Sarai ridotta in polvere, vergine Babilonia” (Is 47,1).
E Maria?… Parla di sé come se fosse la “vergine Sion”, disprezzata e senza valore (“…ha guardato la bassezza, la povertà della sua serva”) e riconosce che tutto quanto è avvenuto in lei è opera del “Potente” che ha fatto in lei grandi cose (Lc 1,48-49).
Maria vergine è la prova della grandezza e della forza dell’amore di Dio, il solo che dall’utero sterile sa trarre la vita.
Quando celebriamo la “verginità” di Maria, ci rallegriamo perché verifichiamo in lei ciò che il Signore sa fare con i “vergini”, con chi non ha valore, con chi può presentargli solo la propria indigenza e la propria semplicità. Da Maria il Signore ha tratto un capolavoro. Un artista come lui sa fare solo capolavori, indipendentemente dalla pochezza e dalla povertà del materiale che ha a disposizione. Ogni uomo è destinato a divenire un suo capolavoro.
In questo tempo di Avvento, Maria vergine invita a contemplare ciò che il Signore ha compiuto in lei e a credere nella vittoria della vita, anche dove si vedono solo segni di morte.
Il termine vergine nella Bibbia assume anche un altro significato metaforico: indica la persona che ama con cuore indiviso.
L’infedeltà di Israele è paragonata a una prostituzione (Ger 5,7); la sua contaminazione con gli idoli è considerata un adulterio, una divisione del cuore fra il Signore, l’unico sposo, e gli idoli delle nazioni, i suoi amanti (Os 2).
La verginità è il simbolo dell’amore totale per il Signore.
È in questo senso che Paolo impiega il termine quando scrive ai corinti: “Io provo per voi una specie di gelosia divina, avendovi promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo” (2 Cor 11,2).
Maria ha certamente realizzato alla perfezione anche questo ideale di verginità.
È, per ogni cristiano, il modello sommo di amore totale e indiviso a Dio.
Grazie del bellissimo commento