Il tema della coscienza è complesso e rinvia alla costitutiva dimensione trascendentale dell’essere umano. In un tempo che ci vede vivere oltre gli smarrimenti della post-modernità e che quotidianamente ci costringe a prendere qualche distanza dalle derive di un persistente nichilismo, intendiamo porre la questione della “coscienza”.
Immediatamente essa ci si rivela come auto-consapevolezza: è il centro prospettico dal quale guardiamo tutto ciò che rientra nella nostra esperienza e, insieme, è il centro decisionale dal quale scaturiscono gli atteggiamenti pratici qualificanti le nostre scelte di vita.
La coscienza come processo
La grecità ha trasmesso un orizzonte semantico della parola coscienza come consapevolezza di sé e del proprio essere, come possibilità di guardare nel proprio intimo e di assumere decisioni conseguenti e regole morali estranee al proprio particolare, come opportunità obiettiva di discernere bene e male.
Storicamente la nozione di coscienza va oltre ciò che di essa ci consegna l’etimologia. Questa la fa derivare dal latino consciens (essere consapevole), participio presente di conscíre, composto da cum e scire (sapere, conoscere). Ma la coscienza è più della semplice consapevolezza che ho di me, delle mie azioni e di ciò che mi circonda.
La coscienza mi pone in relazione con la sfera dell’interiorità nella quale maturano – attraverso ricerca, illuminazione e discernimento – decisioni che riguardano me, la mia vita, le mie relazioni, i miei giudizi e la direzione da imprimere a essi. In maniera libera e convinta. Ciò fa della coscienza un processo che porta con sé i tremendi ed esaltanti doni della libertà e della responsabilità.
Se la prima suggerisce di dar esecuzione a certi progetti, lasciandone in disparte altri, la seconda ci ricorda che sempre siamo chiamati a render conto delle nostre scelte e ad assicurare ad altri la stessa libertà e la stessa responsabilità. Non c’è nulla, infatti, che giustifichi il tentativo di sostituirsi agli altri nelle loro decisioni, mettendo in atto veri e propri “abusi di coscienza”, soprattutto nei confronti di persone fragili e vulnerabili.
Avere coscienza nella Bibbia vuol dire però qualcosa di più.
In primo luogo, implica essere dotati di un luogo di valutazione sottratto all’appannaggio di un’unica matrice culturale. È qualcosa di universale, il decisivo appello a cui chiunque può affidarsi per il solo fatto di essere umano.
Secondariamente, significa disporre di un luogo di progettazione che diviene voce pressante di Dio, anche se non può rifarsi a parole precise di Dio, a situazioni già verificatesi. Esso deve inserirsi nel discorso della storia della salvezza, riferirsi al suo nucleo centrale – Cristo morto e risorto – che è il vero luogo ermeneutico in cui capire il disegno di Dio e la sua logica costante.
Il controllo dell’opinione
«La coscienza non può abdicare interamente nelle mani di nessuna creatura, fosse il più grande degli uomini o il più santo. Il cristiano, pur obbedendo alle gerarchie ecclesiastiche che tengono quaggiù il luogo del Signore, non fa rinuncia alla propria anima. Non ci si salva per delega. Ognuno risponde della propria anima, come risponde del proprio prossimo. Il comandamento di qualsiasi uomo può avere qualche cosa di falso o di ingiusto, poiché il Signore, all’infuori dell’infallibilità del pontefice contenuta in termini rigidissimi, non ha garantito nessuno contro le sorprese del maligno. Quindi, anche l’ultimo cittadino ha il dovere di obbedire con gli occhi aperti e coscienza vigile»[1].
Ultimamente, chiunque espone la sua opinione personale, in pubblico o in privato, è immediatamente censurato e corretto come “mormoratore” o fomentatore di “chiacchiericcio”. Si mira ad esercitare un controllo totalitario dell’opinione, scegliendo accuratamente per dirigere i mezzi di formazione incaricati che siano esclusivamente portavoce dell’atteggiamento ufficiale.
Che differenza esiste fra questo modo di operare e l’annullamento della coscienza personale? Forse non si sta sostituendo in questo modo Dio con la “volontà dei superiori”? Sì, effettivamente si suole ripetere che bisogna ricevere tutto quello che essi dicono come “volontà di Dio”.
È un’autentica “divinizzazione” della struttura di governo, alla quale tutti debbono “sottomettere” il giudizio personale delle loro coscienze, come se si trattasse di un oracolo divino. Tutto ciò viene chiamato docilità o obbedienza.
È una manifestazione esemplare del potere pastorale di cui ha parlato Michel Foucault e l’applicazione di uno schema diffusissimo nel cattolicesimo, un canovaccio che garantisce la salvezza a chi sa farsi gregge e sottomettersi alla volontà divina tramite la mano ferma di un conduttore[2].
Abusi nella Chiesa
È evidente che, nei casi di abuso, siamo dinanzi a un uso gravemente distorto del potere pastorale, ma è altrettanto chiaro che quel modello crea tutte le premesse perché si arrivi all’abuso perché comunque genera spesso una dipendenza che è una mancanza di autonomia grave in un adulto. Sarebbe ora forse di avviare una riflessione sulle conseguenze di questo delicato meccanismo. Ritengo che il potere pastorale e spirituale sia molto più subdolo e insidioso del potere temporale. Paradossalmente, la mondanizzazione di cui parla spesso papa Francesco è più facile che si insinui attraverso il meccanismo del potere spirituale che non temporale.
Urge rivedere il modello di relazione diffuso ed eccessivamente enfatizzato: quello dell’affidamento completo e obbediente a una guida (direttore, accompagnatore) spirituale.
Nessun uomo può definirsi o essere definito Dio e può quindi chiedere o dare ubbidienza assoluta. Solo quando si accetta pienamente l’identità di creatura – figlio di Dio o della vita – sarà possibile la danza che nasce dal gioco della propria soggettività con quella altrui. L’ubbidienza ha senso come scelta di fiducia e di amore che non può mai richiedere l’annullamento della propria coscienza. Mai l’ubbidienza può pretendere o includere l’annullamento della coscienza.
È sul terreno della coscienza che tutti gli umani dovrebbero confrontarsi per camminare insieme. È la coscienza l’organo da esaltare per indicare la vera dignità di ogni uomo e di ogni donna: un organo che va assolutamente esercitato, per lasciare alle nuove generazioni un abbozzo di criticità, di resistenza, per abilitarle alle scelte che esse dovranno, con responsabilità e creatività, assumere ed esercitare.
La persona non può essere mai trattata come “mezzo” o strumento, tanto meno per fini religiosi, mettendo l’istituzione davanti alla legittima autonomia morale della coscienza. Quanto resta lontana tale prassi dall’antropologia e dagli insegnamenti morali di Giovanni Paolo II, a cominciare dalla sua prima enciclica Redemptor hominis!
La prima urgenza da affermare è che nessuna persona può esercitare autorità sulla coscienza dell’altro. È un principio che non sopporta eccezioni o deroghe, benché talvolta siano addotte “per il bene della persona”. Pretendere di avere autorità sulla coscienza dell’altro significa voler prendere il posto che spetta solo a Dio. Ha affermato il Concilio: «Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale deve obbedire… L’uomo ha una legge scritta da Dio dentro al cuore… La coscienza è il nucleo più segreto e intimo dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità» (Gaudium et spes 16).
Nessuna autorità umana ha il diritto di intervenire nella coscienza di qualcuno, anche se questa non è un oracolo infallibile, ma abbisogna di ascolto, di confronto, di ricerca. Naturalmente, non si tratta di perseguire un individualismo narcisistico e autoreferenziale. Ci si deve muovere invece verso una maggiore identificazione della soggettività individuale rispetto ai soggetti istituzionali e collettivi che tentano di primeggiare sugli individui.
Coscienza e magistero
Nella sua famosa lettera al duca di Norfolk, il card. Newman scriveva: «La coscienza è il primo di tutti i vicari di Cristo»[3]. È una frase talmente nota che viene citata giustamente anche dal Catechismo della Chiesa cattolica, in un numero dedicato al giudizio della coscienza morale[4].
Questa affermazione mette in guardia la tradizione cattolica da un pericolo, che si è molto accentuato negli ultimi 200 anni: quello di fare del papa, vicario di Cristo, una sorta di “schermo”, di “scappatoia”, di “riparo” o di “alibi” della coscienza. Dovremmo ricordarci, anche alla fine, delle parole che il card. Newman ha scritto con la giusta ironia nella stessa lettera al Duca di Norfolk: «Certamente se io dovessi portare la religione in un brindisi dopo un pranzo – cosa che non è molto indicato fare – allora io brinderei per il papa. Ma prima per la coscienza e poi per il papa».
Intimamente legato alla coscienza è quindi il tema dell’obbedienza. Francesco d’Assisi nella terza parte della terza Ammonizione dichiara che il frate non deve obbedire quando il superiore gli dà un comando contrario alla coscienza. Ma subito dopo indica il segno che garantisce della validità del giudizio della coscienza del frate: che non si separi dal suo superiore, che resti nell’amore. In altre parole, con una chiarezza geniale, Francesco afferma – in piena originalità nei confronti della spiritualità monastica del tempo – che l’obbedienza (anche quella religiosa) tra gli umani ha senso solo come amore.
Un’“obbedienza cieca” conduce a non avere pensiero proprio, a cedere costantemente nelle idee personali, a mandar giù qualunque boccone contrariamente a quello che ciascuno personalmente potrebbe capire che è reclamato dalla carità o che è la spiritualità secolare, vissuta con coscienza della propria vocazione.
Siamo in presenza di un governo inteso come dominio delle coscienze. Per molto nobili che possano essere i fini delle istituzioni ecclesiastiche, non sarà mai lecito invertire i termini delle relazioni: ogni istituzione è al servizio delle persone e non il contrario, e questo ancor più nel caso delle strutture canoniche. Per questa strada si finisce in una prassi nella quale la coscienza personale è sostituita dall’obbedienza di regime: un’obbedienza senza restrizioni, universale, che riguarda tutti gli atti e tutti i tipi di atti. È una “coscienza sequestrata”.
Creatività e profezia
Cos’è dunque la coscienza? È la voce di Dio in ogni uomo creato a sua immagine e somiglianza (cf. Gen 1,26-27), capax boni et capax mali. Sicché per ogni persona il criterio ultimo e definitivo del proprio pensare, parlare e agire scaturisce dalla coscienza: dev’essere la coscienza a suggerire e a ispirare il sentimento e il comportamento umano.
La coscienza non è dunque una voce che ci ricorda una legge “già fatta”, una legge da applicare in modo meccanico, ma è una voce che ci chiede creatività, regalità, profezia nel discernere situazioni nuove sempre illuminate dal principio fondamentale dell’amore.
Per questo la coscienza è inviolabile, è un santuario, è il tesoro che ogni uomo ha ricevuto in dono da Dio, affinché fosse dotato di un luogo interiore per la sua relazione con Dio stesso. La coscienza è il luogo per pensare davanti a Dio, per pregare, per ascoltare la sua voce, per conoscerlo e per conoscersi meglio. È quel luogo in cui Dio è più intimo di quanto ognuno di noi possa esserlo a se stesso (“interior intimo meo”)[5].
La coscienza morale è un’istanza che mi dice: «Diventa più conforme a ciò che tu sei, diventa un essere umano, svolgi il tuo mestiere di uomo o di donna, cioè fa’ il bene, ricerca ciò che umanizza ed evita il male»[6]. È sul terreno della coscienza che credenti e non credenti, cristiani e non cristiani, insomma gli esseri umani tutti dovrebbero confrontarsi e ascoltarsi per camminare insieme.
Non è facile arrestarsi sulla soglia della coscienza altrui. Quando siamo convinti, tentiamo spesso di usare tutti i mezzi per spingere gli altri ai comportamenti e ai pensieri che ci sembrano giusti.
La coscienza è un terreno da coltivare, da custodire e di cui condividere i frutti. Fa parte di questo lavoro sulla coscienza, accettare di fronteggiare alcune minacce che sono presenti dentro e fuori di noi.
La questione seria
Tra queste menzionerei: la superficialità, a tratti ingenua, a tratti fiera (e le correlate visioni semplicistiche, magari condensate intorno alla figura di qualche guru o leader “forte”); la lamentela professionistica (che si cronicizza nel vittimismo); l’ostinata ricerca di nemici o di colpevoli (per abdicare al dialogo e alla cooperazione). E, al di sopra di tutte, anche in persone nutrite di buoni sentimenti e di rette intenzioni, l’indisponibilità al cambiamento (con la conseguente rinuncia a mettersi in gioco per esplorare nuove strade).
Come fossero gemelli siamesi, da queste minacce è possibile rinvenire le dinamiche virtuose che ispirano e nutrono la nostra coscienza: l’attitudine alla curiosità e la pratica della ricerca; la valorizzazione delle cose che funzionano e degli esempi edificanti; la capacità di ascolto e di confronto soprattutto con chi ha idee diverse; la pratica dell’empatia e della comunicazione non violenta. Nessuno può sottrarsi al lavoro sulla propria coscienza, a tenere accesa la luce della «stanza interiore».
Quello della coscienza è “the hard problem”[7]; “la coscienza è un processo, non un oggetto”[8]; “la coscienza non è una cosa tra le cose, ma è l’orizzonte che contiene ogni cosa”[9]. Nella confusione che sovente regna nel nostro cuore, la coscienza è il luogo in cui matura e cresce la ricerca di una verità che dà libertà. Senza che ciò allontani del tutto dubbi, perplessità e desiderio di cercare ancora, dopo aver trovato. Perché la coscienza è, nello stesso tempo, reale e irriducibile.
Mettere al centro la coscienza è mettere in primo piano le persone reali nel loro vissuto: vuol dire allora interiorità, maturazione mentale, assunzione di responsabilità, di conseguenza vuol dire fede adulta, semplice come di colomba ma accorta come di serpente!
È il problema di sempre, quello di creare armonia tra l’uomo e il sabato, che devono trovare il modo di coesistere e interagire! Ma non più a prezzo di questo o quel capro espiatorio, se al tempo stesso una presa di coscienza e un’assunzione di responsabilità non avviene anche da parte delle istituzioni.
[1] P. Mazzolari, La chiesa, il fascismo, la guerra, Vallecchi, Firenze 1966.
[2] Cf. L. Cremonesi, Genealogie del governo: la questione del potere pastorale in Michel Foucault, in Aa. Vv., Teologie e politica. Genealogia e attualità, Qodlibet, Macerata 2019, pp. 299-315.
[3] J.H. Newman, Lettera al duca di Norfolk. Libertà e coscienza, Paoline, Milano 1999.
[4] CCC n. 1778.
[5] Agostino, Confessioni III,6,11; PL 32,688.
[6] X. Thévenot, Ha senso la sofferenza? Qiqajon, Bose 2009.
[7] Cf. D. Chalmers, Che cos’è la coscienza? Castelvecchi, Roma 2020.
[8] Cf. G.M. Edelman, Un universo di coscienza. Come la materia diventa immaginazione, Einaudi, Torino 2000.
[9] Cf. E. Husserl, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, FrancoAngeli, Milano 2014.