Il percorso de «La bottega delle idee» promosso dall’Ufficio catechistico nazionale (UCN) per sviluppare modalità corrette di annuncio, quest’anno ha preso come tema il kerygma, aspetto suggerito da papa Francesco nell’incontro per i 50 anni dell’UCN. Così si rivolgeva ai direttori responsabili: «Il cuore del mistero è il kerygma, e il kerygma è una persona: Gesù Cristo. La catechesi è uno spazio privilegiato per favorire l’incontro personale con Lui. Perciò va intessuta di relazioni personali. Non c’è vera catechesi senza la testimonianza di uomini e donne in carne e ossa».[1]
Nella due giorni di incontro (Roma 27-28 gennaio) i rappresentanti della consulta ed esperti di varie discipline si sono incontrati per un pomeriggio di confronto sollecitati da una proposta di don Antonio Pitta, ordinario di Nuovo Testamento presso la Pontificia Università Lateranense.
Nella mattinata successiva il prof. Umberto Utro ha fatto scoprire, in una coinvolgente visita guidata, il museo Pio-Cristiano, dove sono raccolte le testimonianze delle comunità cristiane dei primi secoli.
Il kerygma nelle comunità protocristiane
La fede nella vita oltre la morte non è una novità per l’ambiente del Nuovo Testamento, ma appartiene sia al contesto giudaico, sia a quello greco-romano. Nel contesto giudaico si contraddistingue il movimento farisaico che riscontra nella risurrezione uno dei suoi capisaldi. Nella stessa traiettoria, in occasione del suo arresto a Gerusalemme, Paolo confessa di essere fariseo e di essere chiamato in giudizio a causa della speranza nella risurrezione dei morti (cf. At 23,6).
Sin dalle sue origini il movimento cristiano è incentrato sulla morte e risurrezione di Gesù Cristo. Senza quest’essenziale nucleo, il cristianesimo si snatura, sino a perdere la propria identità. Tuttavia, dopo duemila anni, non è semplice identificare le novità dell’evangelo della morte e risurrezione di Cristo.
Don Pitta ha lanciato ai partecipanti alcune domande provocatorie: che cosa oggi renderebbe accattivante la predicazione cristiana rispetto alle altre religioni e nel panorama sincretistico contemporaneo? Come si relaziona l’evangelo della risurrezione con gli sviluppi e le sfide del nostro tempo?
È indubbio che fra Gesù e Paolo non c’è il vuoto in riferimento alla risurrezione. Paolo consegna alle sue comunità quanto, a sua volta, ha ricevuto dalle comunità protocristiane di Gerusalemme e di Antiochia di Siria.
I cosiddetti frammenti prepaolini attestano la fede nella risurrezione presente nelle comunità protocristiane, tra gli anni 40 e 50 dell’era cristiana. Il frammento esplicito o diretto di 1Cor 15,3-5 gravita attorno ai quattro verbi della confessione di fede: «Anzitutto vi ho consegnato ciò che ho ricevuto: Cristo morì per i nostri peccati, secondo le Scritture, fu sepolto, è risorto al terzo giorno secondo le Scritture e fu fatto vedere a Cefa e ai Dodici».
I quattro verbi sono interdipendenti ed essenziali poiché ruotano intorno alla morte e alla risurrezione di Cristo, la sepoltura e le prime apparizioni sono le conseguenze dell’una e dell’altra.
Il realismo della morte di Cristo è confermato dalla sua sepoltura, contro qualsiasi forma di gnosticismo antico e nuovo. A loro volta, le prime apparizioni non intendono dimostrare la risurrezione di Cristo, bensì confermare la realtà.
Ugualmente importante è il versetto di Rm 10,9: «Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo». Più che “professione”, è una “confessione” di fede condivisa fra i credenti. Mentre la professione di fede può essere proclamata anche da un non credente, la confessione di fede è propria del credente che per essa è disposto a mettere a rischio la propria esistenza.
L’accento è posto sulla salvezza che deriva dalla confessione di fede con il cuore e la bocca. Una salvezza non parziale, limitata soltanto all’anima, bensì integrale della persona umana.
Inoltre, si tratta di una salvezza che è, nello stesso tempo, salute e santità, per chi crede nella risurrezione di Cristo. In tale connubio, si decide l’essenza della confessione cristiana.
La partecipazione dei credenti alla risurrezione
È comunque anche importante ricordare che non c’è lettera paolina in cui non si accenni alla risurrezione di Cristo e alla fede nella sua morte e risurrezione.
I contributi di Paolo alla risurrezione evidenziano in particolare la dimensione escatologica, la partecipazione e la conformazione a Cristo. Prima la risurrezione era descritta come ingresso in un luogo: il paradiso, lo Sheol, da una parte, e l’Ade, dall’altra.
Per Paolo la risurrezione è evento relazionale. Non dove si risorgerà, bensì con chi si risorgerà mediante il passaggio dall’essere «in Cristo» all’essere «con Cristo»: essere per sempre con lui è la novità principale della predicazione di Paolo sulla partecipazione alla risurrezione di Cristo.
La debolezza della carne o dell’umanità, «sino alla morte di croce» (Fil 2,8) è la via obbligata per il transito dalla morte alla risurrezione. Di conseguenza, il realismo della risurrezione di Cristo si fonda sulla storicità della sua crocifissione e non il contrario. Non perché è risorto, si è sottoposto alla morte di croce, ma poiché è morto sino alla morte di croce.
Importante è la riflessione offerta da don Pitta quando ha richiamato il dato che, protagonista per la partecipazione alla risurrezione di Cristo è lo Spirito. È rilevante il fatto che lo Spirito è dato a tutti gli esseri umani come caparra (2Cor 5,6). Di fatto però, mentre lo Spirito è donato in anticipo a tutti, soltanto i credenti sono nello Spirito e in/per mezzo di lui gridano «Abba, Padre» (Rm 8,15). Da tale differenza, che non discrimina alcuno, deriva il primato dello Spirito sui sacramenti.
Per Paolo non si è prima battezzati e quindi si riceve lo Spirito, ma poiché si riceve lo Spirito si è battezzati, altrimenti il battesimo si riduce a un rito non diverso dai culti misterici antichi e moderni. Contro tale riduzionismo Paolo non esita a conferire nella sua azione il primato all’evangelo. Lui si sente mandato dal Signore a evangelizzare e non a battezzare affinché non si svuoti la croce di Cristo e con essa la risurrezione (1Cor 1,17).
Una delle questioni più originali affrontate è l’inizio della risurrezione. Si è soliti asserire che questa cominci con il passaggio dalla vita terrena a quella celeste, mediante la morte. In realtà, la vita nuova in Cristo inizia con la partecipazione alla sua morte, alla sua sepoltura, al proprio essere connaturati e conformati in Lui in vista della condivisione della sua risurrezione.
I segni della vita nuova
Nonostante l’abbondante materiale sulla risurrezione nelle lettere paoline, è sintomatico che Paolo non ricorda mai il sepolcro vuoto per dimostrare la fede nella risurrezione. E neppure accenna al sepolcro vuoto per indurre i destinatari delle sue lettere a credere nella risurrezione di Cristo. Se in 1Cor 15,4 ricorda la sepoltura di Cristo, è per sottolineare che la sua morte non fu apparente, ma storica e non soltanto reale.
Per Paolo la fede nella risurrezione è la condizione quotidiana dell’essere «in Cristo» mediante la morte, per essere «con Cristo» nella propria risurrezione.
Tutta la mistica cristiana per Paolo si gioca nell’interscambio della vita del Risorto con quella dei credenti in lui, al punto che non sono più loro a vivere, ma Cristo vive in loro. Il Risorto non è soltanto la via, la verità e la vita, bensì il vivere, al punto che il morire diventa un guadagno (Fil 1,21). Paolo non disprezza la vita terrena, ma questa assume valore diverso, in dipendenza del vivere Cristo. Qui si innesta il valore dell’esperienza di Paolo e del credente nel rapporto con Cristo.
La riuscita della predicazione di Paolo sulla risurrezione consiste nel parlare di Cristo come persona viva che l’ha amato e ha consegnato sé stesso per lui. La fede nella risurrezione non si fonda su una proiezione psicologica del credente, e nemmeno su una convinzione collettiva di natura sociologica, ma è la presenza del Risorto nel credente e nella sua comunità che accredita la fede nella risurrezione.
Proprio per il fatto che la conformazione al corpo glorioso di Cristo è già in atto, i segni della risurrezione si trovano nella continua metamorfosi e trasfigurazione della propria esistenza. Fra le trasfigurazioni che anticipano e tendono verso la vita nuova generata dalla risurrezione di Cristo, il prof. Pitta ha segnalato la trasfigurazione della:
- Scrittura in Parola di Dio
- Comunità in corpo di Cristo, mediante i carismi e i ministeri
- Sequela in testimonianza
- Progressiva imitazione di Cristo.
Tali segni accreditano molto di più del sepolcro vuoto.
Infine, segno visibile della fede nella risurrezione è la speranza in vista della quale si è stati salvati. La speranza è Cristo in persona, «speranza della gloria» (Col 1,27).
Non è un caso se l’unico fallimento della predicazione di Paolo sulla risurrezione si è verificato in occasione dell’incontro con i filosofi all’Areopago (At 17,22-34). Con tale fallimento, Luca intende dimostrare alcuni tratti più propri della predicazione di Paolo. Senza la fede nel Crocifisso, quella nella risurrezione appartiene al mito che induce più all’incredulità che alla fede, e nel discorso all’Areopago manca qualsiasi accenno al Crocifisso. Morte e risurrezione di Cristo sono inscindibili. Tale connubio diventa il criterio fondamentale che distingue gli scritti confluiti nel NT dai successivi scritti apocrifi.
Conseguenze catechistiche
L’intima correlazione tra morte e risurrezione proposta dal kerygma e ben argomentata dall’intervento di don Pitta, sollecita la catechesi a un ripensamento e alla valorizzazione di aspetti che hanno incidenza con il vissuto delle persone. Li indichiamo per punti.
1) L’attenzione alla dimensione escatologica. Il futuro è un tratto costitutivo del vivere la risurrezione perché è la capacità di risalire al senso inerente alla vita e di coltivare il bene comune. Tale capacità, che va risvegliata e affinata, conferisce alle persone la loro storicità. Perdere questa facoltà equivarrebbe a trovarsi in un tempo indifferenziato, una sincronia sempre uguale, dove non ci sono svolte, progressi e aperture per mettersi in cammino verso una condizione migliore.
La capacità di orientare la storia della Chiesa, delle comunità cristiane e delle persone si esercita a una condizione. Ci si deve riconoscere come comunità solidale che abbraccia tutti i popoli uscendo dalla maledizione delle identità particolari ed esclusive, riaffermate di continuo da una molteplicità di ideologie deliranti: sessismo, razzismo, settarismo, nazionalismo, populismo. La risurrezione è dono per tutta l’umanità. Ciò che sembra riguardare uno o pochi, riguarda tutte e tutti.
2) Un annuncio che fa storia. Fare storia significa elaborare la vita senza tradirla, significa trasformare la condizione di vita in modo che sia più adeguata alla dignità nostra e del mondo, in modo che risulti più consonante con la vita come dono condiviso.
La storia implode a causa del concretizzarsi del male, in qualsiasi modalità accada, mentre si riapre ed è rigenerata ogni volta che il bene prevale. Se esiste un progresso autentico, non è mai puramente tecnico o culturale, politico o economico, dev’essere anche moralmente qualitativo; dunque, deve comportare una crescita in umanità, in giustizia, solidarietà e condivisione. Deve dilatare lo spazio per la pace e dare seguito a una storia etica.
Questa visione richiede una rilettura della presenza del Crocifisso. Ogni autore del NT presenta una visione diversa del Crocifisso. Questo è un evento fondativo che cerca di individuare quale azione comporta per la comunità. È importante ripensare questa istanza ecclesiologica presente nel kerygma, come pure è fondamentale prendere atto che non si parla mai della risurrezione del singolo, ma del noi della comunità.
Va recuperato il fatto che la sequela è per tutti, ma non è di tutti. Non è mai popolare. Quando diventa popolare, assume i tratti del populismo.
3) Connessione crocifissione-risurrezione, morte-vita. Morte e risurrezione troppe volte nella catechesi vengono vissute come due momenti distinti come se il Crocifisso non fosse il Risorto e il Risorto non fosse il Crocifisso, mentre non è così nell’assunto dogmatico.
La pasqua di Gesù evoca una dinamica dell’esistenza. L’esistenza “cristica”: «per Cristo, con Cristo, in Cristo», viene ad indicare come la nostra storia si attraversa con Cristo. Proprio perché la pasqua è una dinamica dell’esistenza, nell’annuncio di Gesù non si è chiamati solo a credere a un contenuto di fede, ma a una dinamica che abbiamo scritto dentro.
Morte e vita è la mistica del quotidiano, la mistica del credente. Non va vista come fatto eccezionale, ma come possibilità di andare oltre. La metamorfosi è sempre un ritorno al passato, morte e vita è un essere trasfigurati in vista del futuro.
4) Annuncio di un’esperienza. I racconti di apparizione rispondono all’esigenza umana di dar carne a qualcosa che, di per sé, trascende l’immaginazione e la comprensione. Si può parlare della risurrezione solamente perché se ne è fatta esperienza: tutto ciò che di Gesù è stato vissuto viene nuovamente esperito dalla prospettiva di Dio.
A questo proposito, possiamo elencare tra le prime apparizioni del Risorto quella al centurione pagano: «Allora il centurione che gli stava di fronte vistolo spirare in quel modo disse: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio» (Mc 15,39). Ciò che appare al centurione non è semplicemente un corpo, ma una vita donata per amore.
Per accogliere la morte e la risurrezione è fondamentale la lettura esistenziale del kerygma. Paolo fa della sua esperienza una via maestra. Non si limita a parlare del Signore, ma parla di «mio Signore», ne fa una narrazione personalizzata. Egli esperimenta che, divenuto testimone della risurrezione, da persecutore diventa perseguitato. Quando c’è una narrazione esistenziale, diventa vero il messaggio. Questo dato è rilevante per ogni annunciatore e per ogni annuncio.
5) La riscoperta dei segni. Nel segno c’è l’espressione del riconoscere e riconoscersi. Per quanto riguarda l’aspetto pedagogico, significa che i sacramenti non sono solo un culto misterico, ma momenti di trasfigurazione in atto. Nel rapporto con i sacramenti, noi siamo ancora nei culti misterici. E i culti misterici stanno erodendo il nostro modo di essere cristiani.
La più grande fatica da superare è data dal fatto che i sacramenti vengono vissuti nella singolarità e non nella dimensione di comunione e separati dall’azione dello Spirito.
Il più bello degli effetti della risurrezione è generato dall’azione dello Spirito. A livello catechistico diventa fondamentale mettere in luce il fatto che lo Spirito non è a disposizione della Chiesa, ma la Chiesa è a disposizione dello Spirito. La Chiesa arriva sempre dopo lo Spirito, perché è il motore che produce l’effetto. La Chiesa è dello Spirito e non del movimento carismatico. I confini dell’evangelizzazione sono determinati dallo Spirito: «raggiungi quel carro» (cf. At 8,29).
6) Una proposta per adulti. Queste indicazioni reclamano un’azione di annuncio e di catechesi con e per gli adulti. Per evangelizzare gli adulti alla maniera di Paolo c’è un solo segreto: stare con le persone che si evangelizzano. In questo modo il loro linguaggio diventa il nostro linguaggio, ed è importante «farsi tutto a tutti per salvare ad ogni costo qualcuno» (cf. 1Cor 9,22). Questa è adattabilità. Se si utilizza un linguaggio per iniziati, si consegna una proposta che non ha niente da dire alla vita. Nell’evangelizzazione la “mimesi”, l’imitazione, diventa estremamente importante.
Conclusioni
L’essenza del cristianesimo si decide sulla morte e risurrezione di Cristo che diventa credibile con l’elezione o la chiamata in Cristo. I credenti in Cristo non attendo un Godot che non arriva mai, bensì ogni giorno vanno incontro al loro Signore con la condivisione della fede e dell’amore.
L’azione di annuncio e di catechesi è chiamata a rimettere al centro il fatto che la risurrezione di Cristo e dei credenti non è fondata sul loro ritorno alla vita terrena bensì sulla trasformazione di questa oltre la morte.
La risurrezione può essere valutata in sede storica legandola alla morte in croce di Cristo.
La storicità della risurrezione viene accreditata soprattutto dagli effetti che produce sui soggetti e dalla presenza del Risorto nella comunità dei credenti. Effetti che non si misurano, ma diventano segno qui e ora; per questo, ridire il kerygma in maniera adeguata all’oggi è una sfida per i direttori delle 227 diocesi italiane. Il loro compito è prezioso perché sono chiamati a formare, promuovere, approfondire e far risuonare il kerygma nelle diocesi e nell’accompagnamento di tanti annunciatori.
Ad oggi, i direttori degli uffici catechistici sono 234: di questi 187 sono presbiteri, 17 religiosi, 3 diaconi, 25 laici, 2 vescovi. In riferimento al sesso: 201 uomini, 24 donne. Dal 2018 ad oggi 114 diocesi hanno cambiato direttore. Che cosa ci dicono questi dati? La facile sostituzione e il cambiamento veloce non depongono a favore di un lavoro e di un’azione in profondità.
[1] https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2021/january/documents/papafrancesco_20210130_ufficio-catechistico-cei.html