Il dono della vocazione presbiterale: così suona il titolo della Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis che la Congregazione per il clero ha pubblicato l’8 dicembre 2016. Un testo di 92 pagine la cui sostanza (il dono del sacerdozio) è più facilmente riconoscibile, ad esempio, nella beatificazione avvenuta l’11 dicembre a Vientiane (Laos) di un giovane missionario (Mario Borzaga) o nel riconoscimento delle virtù eroiche (2 dicembre) di don Mario Ciceri, generoso prete milanese (1900-1945). Molto si capisce del «dono» anche nella commovente e drammatica testimonianza di un prete anziano dell’attuale Irlanda (don Brendan Hoban).
Luci e ombre del documento
Il vissuto dice più dei documenti, ma i testi non vanno sottovalutati perché indirizzano a lungo la formazione. La ratio precedente è del 1970, parzialmente modificata nel 1985. È prevedibile che l’attuale possa rimanere di riferimento per alcuni lustri. L’impressione complessiva è di un documento in parte aggiornato e in parte volto al passato. Aggiornato con alcune annotazioni importanti relative alla propedeutica, il primo momento formativo delle vocazioni seminaristiche, come anche all’attenzione ai media e al loro contesto performativo, o al delicato tema della valutazione psicologica e alla prevenzione degli abusi, o all’insistito e pregevole richiamo alla maturità umana come attenzione continua nel processo formativo, o ancora alla formazione spirituale e intellettuale.
E, tuttavia, è ancora il seminario post-tridentino a fare da riferimento; lo slittamento dei numeri alle nuove Chiese non produce novità rilevanti; il rapporto fra seminaristi e il presbiterio locale è più enunciato che sviluppato; i protagonisti restano i formatori, non i singoli e la comunità; si tace del clero uxorato della tradizione orientale (anche se il testo non è indirizzato a loro) e non si dice nulla sulla lunga questione dei “viri probati”. Anche in un contesto mondiale di crescita del clero (406 mila nel 2005, 415 mila nel 2014) e dei seminaristi (114 mila nel 2005 e 116 mila nel 2014) vi sono aree in forte sofferenza (Europa e America del Nord) e altre (Asia e America Latina) praticamente ferme. Pur nel contesto di una crescita complessiva della popolazione cattolica.
«L’idea di fondo è che i seminari possono formare discepoli missionari “innamorati” del Maestro, pastori “con l’odore delle pecore” che vivano in mezzo a esse per servirle e portare loro la misericordia di Dio. Per questo è necessario che ogni sacerdote si senta sempre un discepolo in cammino, bisognoso costantemente di una formazione integrale, intesa come continua configurazione a Cristo» (introduzione).
Le tappe della formazione
La formazione iniziale comporta quattro tappe: propedeutica, discepolare (studi filosofici), configuratrice (studi teologici), sintesi vocazionale (pastorale). Un percorso che si sviluppa in circa 7-8 anni, alla cui definizione partecipano in tono minore le Conferenze episcopali e i singoli seminari. Pur confermando i seminari minori o forme similari (comunità di accoglienza, gruppi vocazionali ecc.), si guarda anche alle vocazioni adulte (chiedendo particolare attenzione ai “convertiti”), agli indigeni e ai migranti.
Tra i fondamenti della formazione il riferimento è all’identità presbiterale in connessione con il battesimo, come configurazione a Cristo. «La progressiva crescita interiore nel cammino formativo deve tendere principalmente a fare del futuro presbitero un “uomo del discernimento”» (n. 43), sia su se stesso come sugli altri. Accompagnati in questo dai formatori come dalla comunità.
La tappa propedeutica punta sulla maggiore coscienza di sé e della Chiesa (Catechismo della Chiesa cattolica), anche rispetto al punto di partenza (parrocchia, associazione, movimento o altro); quella discepolare (studi filosofici) induce un lavoro sistematico sulla personalità, sul carattere e nella relazione profonda con Gesù. Qui è previsto uno specifico accompagnamento psicologico e spirituale. Il momento degli studi teologici (tappa configuratrice) persegue la formazione spirituale propria del presbitero, la progressiva configurazione a Cristo e una sorvegliata integrazione fra maturità umana e spirituale, fra preghiera e teologia. Dopo l’ordinazione diaconale si apre la quarte a ultima fase, quella pastorale, con percorsi che possono svilupparsi anche fuori del seminario.
Per la formazione permanente si insiste sulla fraternità presbiterale, sull’accompagnamento dei giovani preti (da non esporre a situazioni gravose e delicate), sulla verifica del proprio operato (debolezze, confronti culturali, routine, celibato ecc.). L’incontro amicale, la direzione spirituale, gli esercizi, la mensa, le associazioni sacerdotali possono risultare importanti. La vita comune nel clero diocesano è strutturata attorno alla preghiera, alla Parola, allo scambio e al confronto. «La vita comune mira anche a sostenere l’equilibrio affettivo e spirituale di coloro che vi partecipano e promuove la comunione con il vescovo. Bisognerà curare che tali forme rimangano aperte all’intero presbiterio e alle necessità pastorali della diocesi» (n. 88e).
Formazione integrale
Si insiste molto sul concetto di formazione integrale, denunciando il pericolo di «una mera adesione, esteriore e formale, alle richieste educative» (n. 92). Torna l’insistenza «a una retta e armonica spiritualità (in una) ben strutturata umanità» (n. 93), ivi compreso il rapporto con la famiglia e le donne. La dimensione spirituale è posta sotto il segno dello Spirito e della Parola. Il sacramento (eucaristia e penitenza) introduce alla considerazione dei “voti”. «Sarebbe gravemente imprudente ammettere al sacramento dell’ordine un seminarista che non abbia maturato una serena e libera affettività, fedele alla castità celibataria» (n. 110). Senza una solida competenza filosofica e teologica e una preparazione culturale generale, non si affrontano le sfide del ministero. Lo stile pastorale è quello caratterizzato da una «serena accoglienza e vigile accompagnamento di tutte le situazioni, anche di quelle più complesse, mostrando la bellezza e le esigenze della verità evangelica, senza scadere in ossessioni legaliste e rigoriste» (n. 120).
Al ruolo centrale del vescovo e dei formatori si unisce un cenno al presbiterio, alla famiglia, ai consacrati, agli esperti e agli stessi seminaristi. Dei molti numeri dedicati all’organizzazione degli studi mi limito a segnalare il rilievo concesso alla teologia pastorale, alla dottrina sociale e all’ecumenismo.
L’ultima parte del documento è dedicata ai criteri e alle norme per l’ammissione e l’abbandono del seminario. Con una prima accentuazione sulla verifica attenta dei seminaristi provenienti da altri seminari e istituti e la conferma del rifiuto di accettare omosessuali con tendenze profondamente radicate o adesione alla «cultura gay» (nn. 198-199). «Massima attenzione dovrà essere prestata al tema della tutela dei minori e degli adulti vulnerabili» (n. 202).
La tenuta del modello del seminario tridentino dice della sua straordinaria forza spirituale e intelligenza, ma anche della fatica di andare oltre e di adattarlo a tempi e culture assai diverse. È difficile vedere la continuità fra l’insistita e sincera sottolineatura della comunità del seminario con la sostanziale individualità dell’esercizio del ministero, così come rimane da scrivere la novità del «corpo presbiterale» attorno al vescovo (Vaticano II) senza spostare il centro dalla formazione iniziale a quella permanente. Se il frutto del concilio di Trento in ordine al ministero è stato il seminario, oggi è il presbiterio attorno al vescovo locale a segnare la nuova coscienza ecclesiale. Il timore di strutture più piccole (n. 188) e di investimenti più essenziali nel personale educativo attraversano l’intero documento. Così come, da un punto di vista del cammino di studi, non si vede in atto la riconosciuta priorità della Scrittura. L’impianto complessivo privilegia la dogmatica e la filosofia sul resto.
Non particolare rilievo viene riconosciuto ai movimenti ecclesiali, compresi i neocatecumenali che contano 103 seminari (con 2.000 preti e 2.200 seminaristi). Si suggerisce per i seminaristi che provengono dalle loro file di «sviluppare legami più profondi con la realtà diocesana» (n. 60) e si apprezza il ruolo di alimentazione spirituale per i preti in pastorale (n. 88f). Considerato archiviata la tensione diocesani-movimenti, anche l’ambiguo riferimento alla liturgia non preoccupa gli estensori, che però rimarcano: «I seminaristi apprendano il nucleo sostanziale e immutabile della liturgia e quanto invece appartiene a particolari sedimentazioni storiche ed è perciò suscettibile di aggiornamento, osservando comunque diligentemente la legislazione liturgica e canonica in materia» (n. 167).
E dove i preti scarseggiano?
Torna con regolarità l’attenzione alla famiglia, sia d’origine, sia come istituto di vita cristiana. Con una sottolineatura della donna. La familiarità «con la realtà femminile, così presente nelle parrocchie e in molti contesti ecclesiali, risulta conveniente ed essenziale alla formazione umana e spirituale del seminarista e va sempre intesa in senso positivo» (n. 95). Anche la vita consacrata ha il suo ruolo, ma viene citata in particolare sul tema dei carismi, assai meno su quello dei “voti” e della vita comunitaria.
Il celibato è ampiamente evocato: «Come segno di questa dedizione totale a Dio e al prossimo, la Chiesa latina ritiene la continenza perfetta nel celibato per il regno dei cieli specialmente conveniente per il sacerdozio» (n. 110). Non essendo applicabile alle Chiese orientali cattoliche, la ratio può ignorare il tema del clero uxorato, anche se i preti di rito orientale sposati sono già diffusi nella diaspora. Così come può tacere sulla dibattuta questione dei “viri probati”, cioè dell’ordinazione per uomini adulti e sposati. La pratica e l’urgenza pastorale di alcune Chiese dell’Occidente e non solo, suggerirebbero almeno la percezione del problema. In un testo di A. Borras (Quand les prêtres viennent à manquer, Mediaspaul, Paris, 2016) si avverte lo stato di «precarietà assoluta» di clero in alcune Chiese, non risolvibile né con l’«immigrazione» di clero straniero né con l’utilizzo «improprio» dei diaconi permanenti. In questo caso, «senza rimettere in causa la disciplina comune alla Chiesa latina, si potrebbe tuttavia prevedere delle dispense a questa regola non in nome del bene degli individui interessati, ma per quello delle comunità in attesa di preti». Va da sé che questo avrebbe qualche ricaduta sul tema dei seminari.
Si richiama da vicino la predicazione di papa Francesco soprattutto in alcuni passaggi come quello relativo alle tentazioni e alle virtù del presbitero. Fra le prime si può accennare al clericalismo, all’esercizio indebito del potere, alla piegatura da funzionari del sacro, alla routine e alla mondanità spirituale. Per le seconde, al n. 115, si citano: la fedeltà, la coerenza, la saggezza, l’accoglienza di tutti, l’affabile bontà, l’autorevole fermezza, il disinteresse, l’impegno, la fiducia nella grazia. Richieste persino eccessive se non trovassero luminosa conferma nella vita concreta di preti che hanno segnato e segnano la vita cristiana di molti.
Ho letto con calma e attenzione il documento. Condivido di fondo le tue considerazioni nell’articolo.
Ne aggiungo alcune.
Tra i punti positivi sottolineo anche:
1) la maggiore integrazione tra formazione iniziale e permanente;
2) il miglioramento di singole parti (es. esperienza pastorale è definita meglio; maggiore enfasi sulla capacità del futuro prete di collaborare con consacrati, laici e donne; inserimento sensibilità ecologica; collocazione del diritto canonico entro l’ecclesiologia del Vaticano II che comunque lo supera);
3) più precisione e rigore negli scrutini e nell’accoglienza di chi precedentemente è stato in altri seminari oppure ha avuto ricoveri per problemi psichiatrici.
Di negativo: credo che non si tiene conto di chi sono i seminaristi (almeno in Europa e Nord America) e questo è un errore. Non si dice nulla circa le loro precedenti esperienze di studio, lavoro, affettive… su come valorizzare le competenze già acquisite, su come dare spazi di libertà di scelta e responsabilità, su come evitare che una persona che entra in seminario a 36 anni ne esca a 44…
Si cerca di omologare tutti tramite la propedeutica, in modo che il seminario rimanga quello di sempre, compresi aspetti oggi indifendibili. Ad esempio: 1) separazione tra filosofia e teologia, espressione dell’apologetica; 2) lettorato e accolitato per tutti anche se sono ministeri laicali e qui rimangono come residuo dei vecchi ordini minori; 3) liturgia delle ore, messa quotidiana e adorazione, lectio, devozioni mariane e persino a san Giuseppe, pietà popolare e confessione frequente anche se, ad esempio, la teologia dice che la confessione è nata per i peccati gravi e l’esperienza dice che un prete non può tenere questo ritmo per la propria preghiera personale.
Infine il documento non solo non affronta la questione dei viri probati e del ministero uxorato ma anche quella della reale situazione delle famiglie e dei presbitèri. Ripresenta un’immagine idealizzata di entrambi, negando così che un reale cammino di crescita richiede in molti casi di saper prendere distanza e solo in seguito di riavvicinarsi (alla propria famiglia e al proprio ideale di presbiterio) in modo più realistico e maturo.