A partire da alcune date significative come la coincidenza, nel 2025, della celebrazione della Pasqua da parte di cattolici e ortodossi e, sempre nel 2025, dei 1700 anni del concilio di Nicea, l’autore auspica un provvidenziale incontro tra papa Francesco e il patriarca Bartolomeo I ad Antiochia, città-culla del cristianesimo delle origini, finestra verso il Levante. Potrebbe significare anche la rinascita di questa città oggi devastata dal terremoto.
Ho associato nei miei pensieri il devastante terremoto anatolico al colloquio di papa Francesco coi gesuiti che lavorano in Congo, pubblicato proprio in quelle ore. Questa coincidenza mi ha fatto pensare quanto sarebbe bello, importante, che il papa andasse ad Antiochia, nel 2025!
Pochi sanno che esista ancora Antiochia e pochi ricordano il suo significato per i cristiani, se non chi lo studia. L’oblio è il prodotto della scomparsa del cristianesimo levantino, ossia del Levante di cui quasi più nessuno parla, quasi che il Levante e i suoi scali non siano stati l’animo del Mediterraneo e dell’incontro tra i popoli e le culture del bacino, per secoli.
Dobbiamo rassegnarci alla frattura tribale e dimenticare le origini della storia del cristianesimo? Da laico, non lo credo possibile, né tanto meno auspicabile. Per questa ragione vorrei tanto che il papa andasse là, ad Antiochia, nel 2025. Possibile? Quel che ho appreso nelle ore del devastante sisma sembra dire di sì.
Il 2025 è nell’agenda del papa
Nella conversazione che ha avuto in Congo coi gesuiti, Francesco ha detto, come puntualmente riferito sull’ultimo numero de La Civiltà Cattolica, che, insieme al patriarca ecumenico di Costantinopoli, massima autorità del mondo ortodosso, sta lavorando all’idea di trovare una data comune per tutti i cristiani per la celebrazione della Pasqua. Dunque, dopo cinque secoli, tanti quanti ci separano dall’introduzione del calendario gregoriano che ha differenziato anche la data della Pasqua, tutti i cristiani potrebbero trovare una data comune per celebrare la morte e la risurrezione di Cristo, nella stessa notte santa. Sarebbe un fatto di importanza straordinaria.
Per riuscire nel proposito, Francesco sta pensando di riunire tutti i capi delle Chiese cristiane, o almeno così sembra. Nel 2025 – occasionalmente ma assai significativamente – la data della Pasqua coinciderà sui calendari giuliano e gregoriano. Sarà così nei Paesi dell’Europa orientale e nelle Chiese ortodosse, come qui da noi.
Nella conversazione a cui faccio riferimento il papa ha detto: «Sì, stiamo preparando un incontro per il 2025. Con il patriarca Bartolomeo vogliamo arrivare a un accordo per la data della Pasqua, che proprio in quell’anno coinciderà. Vediamo, se così possiamo accordarci per il futuro. E vogliamo celebrare questo Concilio come fratelli. Ci stiamo preparando».
Il nuovo “concilio” al quale Francesco ha accennato sembra proprio poter assumere un carattere ecumenico – dallo stile sinodale – di una portata tale da coinvolgere di persona il papa, sua beatitudine Bartolomeo I, patriarca di Costantinopoli, e gli altri capi delle Chiese cristiane orientali.
Non so più di questo, ma mi appare piuttosto evidente il rimando al primo Concilio, quello di Gerusalemme, nel quale si trovò l’intesa tra la linea della Chiesa di Gerusalemme e quella proposta da san Paolo.
Inoltre, proprio nel 2025 ricorrerà il centenario del Concilio di Nicea (325) in cui si concordò la formula della Professione di fede dei cristiani. Dunque – sebbene nulla sappiamo del programma a cui stanno lavorando il papa e Bartolomeo I – Gerusalemme e Nicea possono essere possibili sedi.
Perché non andare anche ad Antiochia?
Per un papa che sta facendo di tutto per conferire una dimensione sinodale alla Chiesa cattolica, questi primi riferimenti sono evidentemente molto importanti, nella prospettiva di una nuova comunione – da ridefinire – tra tutti, verso quella unità cristiana che sia rispettosa delle diverse specificità.
Se teniamo conto del momento storico in cui ci troviamo, l’incontro tra Chiese disseminate in Paesi coinvolti in tremendi conflitti, acquista spessore politico, oltre che culturale, di grandissimo rilievo: in un mondo fratturato, il papa torna a definirsi «vescovo di Roma» e a rendere il modello cristiano profondamente umano, nel rispetto reciproco delle Chiese e nella valorizzazione della diversità.
Perché, dunque, non andare anche ad Antiochia? Nella mia semplicità teologica propongo a Francesco e a Bartolomeo anche quella sede nel programma del 2025. È presto detto perché Antiochia, ancora.
Antiochia oggi è dimenticata prima che distrutta del sisma. Ad Antiochia affondano origini e identità della Chiesa ortodossa siriaca, della Chiesa siriaca giacobita, di quella maronita, della Chiesa cattolica sira e delle Chiese malankarese, ortodossa e cattolica.
Nei testi cattolici – e non solo – leggo che Antiochia è il luogo ove, per la prima volta, i credenti in Gesù Cristo, morto e risorto secondo la fede, sono stati definiti “cristiani”.
Antiochia è una delle sedi patriarcali dell’antica pentarchia, con Gerusalemme, Alessandria, Costantinopoli e Roma. Ma oggi la città antica è rimossa persino dalle carte geopolitiche essendo stata serrata nel suo contesto siro-libanese, periferia turca. Ora è anche distrutta dal terremoto. Le testimonianze ci dicono che non resta «pietra su pietra» di questa dimenticata città della Turchia.
La storia dei primi secoli racconta che un sisma di pari gravità la devastò nel 115. La presenza ad Antiochia dell’imperatore romano Traiano e di suo figlio Adriano, proprio in quella circostanza – posto che entrambi riuscirono a salvarsi – facilitò la ricostruzione della città. Quasi tutti i preziosi mosaici sono – o erano – successivi al terremoto del 115.
Antiochia “finestra sul Levante”
Chi è proiettato al futuro sa quanto sia importante avere un passato e conservare un legame con esso. Per i cristiani dell’Oriente arabo il passato non si chiama soltanto, naturalmente, Gerusalemme, ma anche Antiochia. L’annuncio di una visita, tra due anni, del papa e dei capi delle Chiese cristiane non avrà forse un effetto di ricostruzione paragonabile alla presenza di Traiano e di Adriano, ma per questo Mediterraneo fratturato e il suo cristianesimo – che annaspa – potrebbe significare una ricostruzione ancora più importante.
Significherebbe restituire a quel che resta del cristianesimo – in quelle terre – un futuro, risalendo dalle radici affondate nel Levante nei secoli, ossia in quel mondo, prodromo dell’Europa, che andava dalla Grecia alla Siria all’Egitto. Oggi quel Levante è identificabile soprattutto nelle Chiese di Antiochia, appunto: quella siro-libanese che si affaccia all’Iraq e quelle Chiese cristiane che fanno da finestre della casa arabo-islamica.
Solo le finestre cristiane possono consentire ai cittadini di quei popoli di affacciarsi sul mondo plurale, quale caratteristica storica e propria del Mediterraneo, aiutando l’Europa a ritrovare la propria anima pluralista.
È importante, per me, sostenere che i cristiani sono le finestre del mondo arabo-islamico: è solo un’immagine, ma con un ancoraggio importante nelle realtà. Le case arabe avevano le finestre sui patii interni, mentre le mura erano chiuse verso l’esterno. Furono i missionari cristiani – da Beirut – a introdurre l’urbanistica dei viali e quindi le finestre ad affaccio su di essi, con l’apertura verso la socialità e la vita in comune. Perciò qualcuno, con grande visione, ha parlato delle Chiese del Levante come «Chiese dell’Islam», espressione oggi dimenticata – se non peggio – ma usata da qualche patriarca, anche in tempi recenti.
Posta in oblio ben prima del terremoto, Antiochia conserva, anche sotto le macerie, radici cristiane vive non soltanto per i tre Stati oggi senza confini certi (Siria, Libano e Iraq), bensì persino per l’India. Le Chiese di Antiochia sono, dunque, le Chiese del Levante: vero patrimonio mediterraneo senza del quale una nuova comunione e una nuova fraternità mediterranea sarà impossibile.
Ne sono convinto. Andare ad Antiochia per parlare al Levante – nel parlare ai cristiani del Levante – sarebbe un modo concreto per riaprire quel mondo separato, fratturato, scisso dal suo luogo d’origine: Antiochia. L’alternativa è la l’isolamento della cultura arabo-islamica, precipitata nella chiusura senza più relazioni: senza ebrei, senza cristiani.
Un messaggio alle genti del Mediterraneo
I cristiani orientali – più di tutti gli altri – rischiano di non avere futuro. La loro estinzione costituirebbe l’estinzione del cristianesimo storico. Mentre riscoprire il passato, nel momento della sua distruzione, potrebbe enormemente giovare per ricostruire la terra da fratelli, nel legame tra i popoli, con case, chiese e moschee, piene di porte e finestre.
Traggo solo un esempio dalla catastrofe: oggi, in Libano, con uno stipendio mensile medio si acquistano 3 “barili” di benzina (l’unità di calcolo locale, pari a circa 20 litri), mentre con lo stesso stipendio, nel 2018, se ne acquistavano circa 30, 10 volte tanto.
In tutto il Levante storico nessuno si sente più cittadino: a Damasco, a Beirut, Latakia o Aleppo, fino a Baghdad. Non si tratta più di città, bensì di accampamenti che stanno degradando nel possesso delle tribù, ove i capi fanno e disfano, dettano legge. Restano le macerie economiche, spirituali, ora anche quelle murarie, con l’isolamento culturale.
Le rovine di Antiochia parlano dunque della storia e delle possibilità di vita insieme di tutti i levantini, nella loro connaturata pluralità. Per tutto questo che ho cercato di esprimere, ritengo che sarebbe proprio bello che Francesco e Bartolomeo ci andassero insieme nel 2025, almeno per una sosta di poche ore. Lo facciano per consentire alle genti del Mediterraneo di ritrovare sé stesse. Per me sarebbe un messaggio decisivo, comunque alto!
Articolo davvero suggestivo.