Verso una nuova visione pastorale

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Il cammino del processo sinodale in cui la Chiesa a tutti i suoi livelli – da ormai due anni – è chiamata e sollecitata ad impegnarsi sta mettendo in evidenza la fatica del cambiamento rispetto a schemi e abitudini pastorali consolidati ma non più efficaci.

Perché tutta questa fatica, nonostante la grande ed encomiabile buona volontà messa in campo?

Una possibile ipotesi sta nel fatto che saper cambiare richiede il saper apprendere. A ben vedere, infatti, il cambiamento è sempre frutto di un apprendimento e – a certe condizioni – l’apprendimento è il cambiamento.

La domanda allora diventa un’altra: ma le realtà pastorali, specie quelle più prossime al territorio e alla gente, sono capaci di apprendimento e soprattutto di nuovi apprendimenti? Sanno apprendere il processo del cambiamento per scoprirsi capaci di cambiamento?

Intrecciare l’apprendimento

Per provare a rispondere a questa ulteriore domanda, va tenuto conto che una realtà ecclesiale organizzata (diocesi, parrocchia, comunità religiosa), al pari di altre organizzazioni, può apprendere soltanto se ad apprendere sono i singoli membri che la costituiscono.

Questi apprendimenti costituiscono la cosiddetta conoscenza tacita, quella conoscenza – esperienziale o pratica – che si deposita nelle singole persone (credenze, abilità, abitudini, orientamenti…) spesso difficilmente formalizzabili e comunicabili.

La vediamo all’opera soprattutto in quelle figure di collaboratori pastorali “insostituibili”, visceralmente individualisti (in quanto si percepiscono indispensabili) che, messi insieme, finiscono per formare una “siepe” di separazione tra l’interno e l’esterno della comunità ecclesiale, quando non addirittura una sorta di “cerchio magico” (spesso suo malgrado) attorno al presbitero/religioso/a alla guida della comunità stessa.

Ovviamente questo non basta a generare un apprendimento organizzativo comunitario, ovvero condiviso e verificabile. Quanto appreso non può restare retaggio dei singoli, se non si vuole correre il rischio che vada persa quando gli individui lasciano la comunità o subire il loro “ricatto pastorale”…

La conoscenza tacita dovrà essere trasformata in conoscenza esplicita dell’organizzazione pastorale, ovvero una conoscenza “codificata”, esprimibile attraverso un linguaggio sistematico e formale, ad esempio documenti scritti.

Entrambe sono importanti perché una comunità possa ritenere di essere in grado di apprendere: senza conoscenza tacita non si può avere conoscenza esplicita ma, senza la seconda, la prima non è utilizzabile dalla comunità.

Alla luce di questo, il cammino sinodale poteva, ma può ancora, costituire un’occasione per esplicitare, attraverso l’ascolto e il dialogo nei gruppi sinodali, una conoscenza condivisa frutto di un comune ascolto dello Spirito. Una conoscenza esplicita che permetta di elaborare un sogno missionario della propria comunità. Non tanto un documento da affiggere, ma un vero e proprio orientamento in cui potersi riconoscere e attraverso il quale operare delle scelte.

Apprendere a trasformare

Coniugare conoscenza implicita ed esplicita chiede inoltre alla realtà organizzativa ecclesiale di andare oltre il semplice apprendimento strumentale per saper operare un apprendimento comunicativo, quello davvero in grado di fare la differenza e generare cambiamento.

L’apprendimento strumentale – come ci ricorda Mezirow in La teoria dell’apprendimento trasformativo (R. Cortina, 2016) – riguarda l’impegno che mettiamo nel risolvere i problemi posti dal dover portare a buon fine un’iniziativa pastorale.

Spesso le nostre comunità sono molto abili nell’apprendimento strumentale, sviluppando particolari capacità in termini di problem solving. Ma questo non basta, perché non basta aver imparato a saper fare le cose per cambiare le situazioni.

Occorre considerare un altro tipo di apprendimento, l’apprendimento comunicativo. Oggi per le comunità cristiane è di gran lunga più importante comprendere il significato di ciò che altri comunicano su valori, ideali, sentimenti, decisioni etiche, o ambiti di vita come famiglia, lavoro, ambiente. È proprio la capacità di apprendimento comunicativo che invece scarseggia nelle nostre comunità e realtà pastorali.

L’apprendimento comunicativo non si concentra sull’esercizio di un controllo più efficace sulle relazioni causa-effetto ma sull’attivare un processo che produce cambiamenti nella propria cornice di riferimento.

Non si tratta allora di dare risposte o soluzioni quanto di cercare, anche intuitivamente, immagini, metafore e narrazioni attraverso cui ricondurre il non familiare a una prospettiva di significato, ovvero comprendere che cosa l’altro sta comunicando nelle sue diverse forme.

Anche qui il cammino sinodale può costituire lo spazio in cui realizzare quei setting/luoghi utili ad un vero apprendimento comunicativo. Piccoli gruppi dove, alla luce di una regola di comunicazione spirituale, si possa realizzare uno spazio di profonda condivisione che vada oltre i muri frutto di aspettative o rivendicazioni personali. Luoghi già di per sé trasformativi, perché, mediante la regola del dialogo spirituale, si creano le condizioni per accedere a risorse di significati più profondi di quelli di partenza.

Apprendere a disapprendere

Il cammino sinodale chiede alle comunità ecclesiali, a tutti i livelli, di sviluppare la capacità di rendersi conto delle cornici pastorali di riferimento implicitamente utilizzate, per modificarle in senso missionario.

Una cornice di riferimento comprende componenti cognitive, emotive ed operative che si riassumono in due principali aspetti: le abitudini mentali e i punti di vista. Sono questi due aspetti che producono e consolidano le cornici di riferimento del “si è sempre fatto così”, che diventano gabbie e prigioni ostacolanti il cambiamento.

L’apprendimento richiesto alle comunità cristiane riguarda la trasformazione di una cornice di riferimento che riteniamo incerta, allo scopo di renderla più affidabile per le nostre decisioni e azioni pastorali, generando nuove opinioni, punti di vista, interpretazioni o, se si preferisce, una conversione frutto del discernimento.

In questo modo si può attivare comunitariamente un apprendimento trasformativo, un cambio di prospettiva: diventare criticamente consapevoli del perché e del come i nostri presupposti abbiano finito per limitare il modo in cui percepiamo, comprendiamo e sentiamo il nostro agire pastorale e in particolare missionario.

Quello che va incoraggiato, accompagnato, sostenuto perché il cammino sinodale possa produrre frutto è la capacità delle comunità cristiane di apprendere il processo di riflessione a posteriori su quanto fatto e appreso in passato.

La capacità di riflettere sui presupposti è necessaria perché si realizzi un autentico discernimento critico, quel processo che mette alla prova la validità dei presupposti su cui si basano gli apprendimenti precedenti.

Si tratta di apprendere a disapprendere, accogliere con coraggio e fiducia la possibilità e necessità di riflettere sulle premesse ovvero quegli aspetti che tendono ad essere dati per scontati.

Qualche principio guida

Non si cambia per il gusto di cambiare, non si realizza un sinodo sulla sinodalità per “ordine dall’alto”. Così pure non si cambia solamente per un atto di volontà o, peggio, di “buona volontà”: sarebbe come volersi sollevare da terra tirandosi per i capelli!

Cosa può attivare o aiutare questo apprendimento trasformativo?

Gli apprendimenti trasformativi sono innescati e facilitati da una serie di eventi che, se ben esaminati, diventano eventi provvidenziali. Ad esempio:

  • un dilemma disorientante
  • il riconoscere che la nostra insoddisfazione è condivisa da altri
  • l’esigenza di esplorare nuovi ruoli, relazioni e azioni
  •  tentativi provvisori di costruire nuove competenze e forme di autostima.

Tenendo inoltre conto che l’acquisizione di una nuova visione pastorale non può essere improvvisa ma richiede tentativi ed errori, tempo, sforzi, risorse e creatività, ecco alcune strategie che i responsabili e operatori pastorali possono adottare per gestire la transizione e aumentare le probabilità di successo:

1) Segnalare le proprie intenzioni: è meglio dedicarsi a un paradigma nuovo, piuttosto che a migliorare il vecchio. In questo modo, lo scopo non è diventare un po’ più efficienti o migliorare il vecchio modello, ma cambiare approccio.

2) Seminare. Significa impegnarsi per una “crescita buona”, non solo per una crescita religiosa. Pensate alle idee – e ai progetti in generale – come a dei semi. Questi semi possono prendere ogni tipo di forma: culturale, materiale, spirituale. Per esempio, in una parrocchia in un quartiere degradato si possono piantare i semi di un nuovo sistema di mutuo sostegno e azioni solidali. Su scala più piccola, anche una singola struttura, non diversamente da un albero, può “restituire” qualcosa.

3) Essere pronti a spingersi ancora oltre. Per quanto il vostro operato pastorale sia valido, ricordate che il perfezionamento di un bene esistente non è necessariamente l’investimento migliore. È il momento di continuare a fare quello che stiamo facendo o è invece il momento di creare una nuova proposta? Per innovare bisogna saper cogliere i segnali che vengono dall’esterno: dalla comunità, dall’ambiente e dal mondo intero. Siate pronti ad anticipare questo cambiamento, e non limitatevi a subirlo.

Se le realtà ecclesiali vogliono veramente fare esperienza sinodale, occorre non limitarsi a custodire quanto affidato loro.
Gli scienziati credono che le ali, in origine, fossero arti coperti di piume allo scopo di riparare dal freddo, che in seguito furono impiegati in altro modo.

Prendiamo esempio dalle ali: molti nuovi apprendimenti che, uniti a uno sforzo di pensiero riflessivo, serviranno a farvi volare e volteggiare, generando speranza.

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2 Commenti

  1. Pompei Arnaldo 14 marzo 2023
  2. don marino barbieri 14 marzo 2023

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