Quando l’Impresa Sociale segue la logica del profitto a detrimento di risposte personalizzate ai bisogni essenziali, perde la propria identità.
Con la subdola infiltrazione del profitto, è in atto la lottizzazione del dolore. Solo quattro righe di storia. Che non è solo storia!
Nel febbraio del 1981, con l’aiuto di Felice Scalvini – che si potrebbe chiamare il padre della cooperazione sociale –, di fronte a un notaio, precisamente a Bologna in via Santo Stefano 5, ho firmato uno dei primi statuti di cooperazione sociale.
Era assolutamente necessario che le tante iniziative promosse dalla sensibilità sociale del dopo ’68, acquistassero valore giuridico. Solo così potevano avere un effettivo riconoscimento pubblico.
La cooperazione sociale diventa legge dieci anni dopo.
Prima dell’approvazione però, una significativa discussione sul titolo. Allora si diceva: discussione tra cooperative bianche e cooperative rosse. Cooperative sociali o cooperative di solidarietà sociale? Le parole pesano! La scelta è stata: “Disciplina delle cooperative sociali”; L. 381/1991.
A completamento della scelta precedente, dopo il decreto legislativo 112/2017, la cooperazione sociale è diventata anche “Impresa Sociale”. Sui tavoli di riflessione, più volte ho sostenuto che si potevano evitare i rischi se si considerava l’Impresa Sociale un mezzo e non un fine. Un’organizzazione moderna, mantenendo la filosofia di fondo.
Ho capito che questo non può accadere quando, nelle corde del vivere, ci sta esclusivamente il sistema capitalistico.
Potrebbe sembrare un discorso di pura lana caprina se non si vedessero già le gravi conseguenze operative. Un’operatività umiliante sul piano della democrazia e tragicamente condizionante per i servizi socio-sanitari.
Non si dà uno scorpione a chi ti sta chiedendo un pesce. Espressione un po’ forte solo in apparenza.
Descrivo quello che è già drammaticamente in atto. La legge della cooperazione sociale prevedeva una democrazia diffusa. Un protagonismo attivo dei soci, che rafforzava motivazioni e stimolava una progettualità legata ai bisogni percepiti. Per questo si diceva che piccolo era bello e che le cooperative sociali dovevano crescere come i campi di fragole.
Ora la democrazia è solo apparente. L’Impresa Sociale ha bisogno di grandi numeri per avere significatività economica e accedere ai benefici e i dirigenti – alcuni eletti altri di supporto – devono prendere decisioni in tempi stretti, organizzare forme gestionali efficaci, porre attenzione alla concorrenza, promuovere logistiche opportune. Tutto questo per essere impresa sociale (non merita la maiuscola!) efficiente ed efficace.
Impresa Sociale che diviene anche luogo di lavoro per far funzionare il tutto secondo criteri imprenditoriali. E qua ci sta la conseguenza più grave che giustifica la metafora del pesce e dello scorpione. Nei servizi socio-sanitari, dove le motivazioni e la continuità sono componenti essenziali della professionalità, l’Impresa Sociale segue la logica delle opportunità di contratti risparmiosi, a detrimento di risposte personalizzate di cui necessitano i bisogni essenziali.
I criteri dell’impresa sono – per natura loro – in contrapposizione con le solenni affermazioni di principio che stanno nei primi articoli degli statuti.
Contratti a tempi brevi, tirocini con la prospettiva di (non) essere assunti. Le conseguenze sono già visibili. Drammaticamente gravi soprattutto nei luoghi dove la sofferenza è presente e le conseguenze di un minimo di futuro sereno fortemente incerto.
Occorre un esempio? L’operatore che assiste a domicilio va cambiato ogni mese per evitare che si crei una relazione significativa e che i tempi poi si allunghino. Ma proprio solo un esempio!
Fanno bene i tanti giovani a far mancare la loro presenza a questo sistema. Male invece quelli che si adeguano, come se lo stare con chi è nel dolore fosse un lavoro come un altro.
Impariamo a indignarci per inventare qualcosa di nuovo (“Indignez-vou!” Stèphane Hessel).