Infuriossi allor Tancredi, e disse:
Così abusi, fellon, la pietà mia?
Torquato Tasso, Gerusalemme Liberata, XIX, 26
Il verbo “abusare” e il sostantivo “abuso”, presenti nella nostra lingua fin dai primi passi del volgare in forza della chiara matrice latina, sono entrati nel lessico giuridico solo in tempi relativamente recenti, intercettando e sostanziando emblematici cambiamenti a livello di percezione e di consapevolezza dei diritti individuali della persona.
Quando comincia l’abuso?
Se, in senso generico, il termine “abuso” si presta ad indicare l’uso eccessivo di qualsiasi cosa – dal fumo agli alcolici, dai farmaci alla pazienza, e perfino, col Tasso, alla pietà –, il dizionario giuridico ricomprende, nella parola, diverse ipotesi di reato che hanno come elemento comune l’uso illegittimo di una cosa o l’esercizio illegittimo di un potere; si può parlare, perciò, di abuso di autorità e di abuso d’ufficio, di abuso edilizio e di abuso dei mezzi di correzione e di disciplina.
La specializzazione del significato in senso tecnico-giuridico si è poi, a sua volta, riverberata, secondo un movimento di ritorno non infrequente nella storia delle parole, sul piano della comunicazione quotidiana, così che i termini legati al campo semantico del verbo abusare (abuso, abusatore, abusato) vengono oggi ad associarsi e sovrapporsi, nell’uso corrente, all’idea di reato contro la persona commesso per mezzo di violenza, fisica o psicologica; in particolare, nel linguaggio giornalistico, “abuso” è usato per significare tout court “abuso sessuale” nei confronti di minori o di partner non consenzienti.
Utor e patior
La matrice latina della parola “abuso” si trova nel verbo utor. Utor è il verbo delle relazioni, il verbo che mette il soggetto in relazione con il mondo: il suo significato di base, “usare”, è un significato neutro, aperto, che trova precisazione sul piano connotativo solo a partire dalla parola con cui il verbo si accompagna. Così – secondo la lingua latina – io posso usare gli occhi, cioè vedere; posso usare la voce, cioè parlare; posso usare una casa, cioè abitare. Posso usare, cioè godere, di buona salute; usare, cioè assumere, una carica politica; usare, cioè, prendere, delle decisioni.
Se usare è, in italiano, prevalentemente servirsi di oggetti, in latino utor è un verbo dall’apertura connotativa molto più ampia: utor dice che posso usare, cioè avere e coltivare, delle relazioni d’amicizia e d’affetto, dei legami familiari e sentimentali.
Utor indica il porsi del soggetto nel mondo in modo attivo; in questa prospettiva, può essere considerato come speculare a patior: entrambi questi due verbi, infatti, fanno i conti con il mondo, stabilendo una relazione fra il soggetto e il mondo; ma, mentre in patior la relazione con il mondo è giocata sulla passività del soggetto, sul suo portare, sopportare, tollerare, resistere, al mondo, in utor il soggetto va verso il mondo per agire, nel mondo e sul mondo, attraverso qualcosa o qualcuno.
Tra l’uso e l’abuso
Dall’uso, l’usanza, la consuetudine che reitera le pratiche fino a farle diventare costume sociale. Ma dall’uso anche l’abuso.
Tra l’uso e l’abuso c’è di mezzo la preposizione ab, la preposizione del moto da luogo e dell’allontanamento, un allontanamento che facilmente si declina nel senso dell’eccesso e della dismisura: da abusare nel senso di usare fino in fondo, usare del tutto, e quindi consumare, esaurire (Quousque tandem abutere, Catilina, patientia nostra? Fino a quando abuserai, Catilina, della nostra pazienza?), si arriva così al significato peggiorativo di abusare come usare oltre i limiti legittimi, usare male, usare in modo ingiusto.
L’ab-uso sta oltre l’uso. Ab è il prefisso che marca la distanza, l’allontanarsi da una soglia oltre la quale la relazione prende il colore della violenza ingiustificabile, sul piano personale, sociale e giuridico: perché un’usanza venga percepita come abuso, deve maturare la coscienza di una soglia che non può essere oltrepassata; perché l’abuso si configuri come reato, deve venire elaborata una prospettiva comune e condivisa di norme.
Basta volgere, anche di poco, lo sguardo all’indietro, ed ecco che la nostra storia occidentale ci appare tutta costellata di usanze che, nella prospettiva dell’oggi, non esiteremmo a qualificare come abusi: negare la libertà personale e tenere in schiavitù esseri umani considerati inferiori, per natura o per sorte; chiudere in monastero le figlie, imporre il sacerdozio ai figli; sfruttare il lavoro minorile, picchiare e minacciare i bambini; torturare gli imputati, tagliare le mani ai ladri, seviziare i condannati a morte, fare scempio dei loro corpi prima dell’esecuzione della pena capitale.
Chi o cosa stabilisce la soglia tra l’uso e l’ab-uso?
Una (brutta) storia veneziana
Ai primi di novembre dell’anno 1561, mentre a Trento si stavano organizzando le sessioni conclusive del Concilio, in Piazza San Marco a Venezia veniva condotto al patibolo un prete di nome Giovanni Pietro Lion. Due lettere del 9 e del 15 novembre 1561, inviate al cardinale Carlo Borromeo dal nunzio apostolico presso la Serenissima, il vescovo mantovano Ippolito Capilupi (1511-1580), ci rendono note le motivazioni dell’esecuzione.
Nelle carceri veneziane – scrive Capilupi nell’informativa del 9 novembre – è prigioniero un prete, «già condannato alla morte, chiamato Gio. Pietro, il quale haveva il governo del Monastero delle Convertite, et era loro Confessore. Costui, essendo il più scellerato huomo del mondo, haveva nondimeno acquistata tanta opinione di santità, che non solo in Venetia, ma in questi contorni era chiamato per consigliere et per esecutore di tutte le opere buone che si disegnavano di fare; et coprendo i vitii suoi con mirabil arte et con faccia affumicata et con digiuni finti, ha per spatio di XIX anni ingannata tutta questa città».
Il racconto è molto dettagliato: il prete quarantatreenne, dotto di latino, greco e Sacra Scrittura, si era imposto con una vera e propria tirannide sulle quattrocento monache del monastero delle Convertite, combinando lusinghe e corteggiamenti con crudeltà e torture. Per scegliere le suore di suo gradimento, durante l’estate le faceva spogliare ed entrare nude nella cavana, il ricovero coperto delle gondole, «et havendole a suo bell’agio considerate parte a parte, et fatta nell’animo suo elettione delle più belle et più vaghe secondo il giudizio suo», con subdole arti cercava di convincerle ad assecondare i suoi desideri.
Nello stesso tempo, procurava di mantenere esteriormente un’immagine più che rispettabile, celebrando la messa quasi ogni giorno; e, quando qualcuna delle suore “sue concubine” non voleva comunicarsi perché si sentiva in peccato mortale, egli «le sforzava a farlo con dire loro che egli haveva studiato, et che sapeva meglio di loro quel che si poteva fare».
La confessione era uno strumento indispensabile per mantenere lo stato di sudditanza delle donne: «et per conservar l’imperio, che si haveva acquistato sopra di loro, non permetteva che si confessassero mai da altri che da lui (…), perché dubitava che colla occasione della confessione fatta ad altri non palesassero le sue scellerità; per la qual cosa è avvenuto molte volte, che ne sono morte senza confessione (…). In somma costui era padrone dei corpi, delle anime, e della roba et delle fatiche di queste poverelle, dalle quali si faceva adorar come papa».
Alcune monache, fuggite dal convento, riferirono alle autorità quanto avveniva dietro le mura delle Convertite. Ma la fama di cui godeva questo prete era tale che – prosegue Capilupi – non si dava mai peso a chi non parlasse di lui in modo meno che onorato.
Quando, finalmente, e «non senza vergogna per la credulità loro che è durata tanto tempo», la verità dei fatti venne appurata, le autorità veneziane decretarono la condanna a morte del prete e il rogo pubblico del suo cadavere, in ossequio alla severa legislazione della Serenissima che considerava un sacrilegio la fornicazione con le monache.
Nella seconda lettera, del 15 novembre, il nunzio presenta al cardinal Borromeo un dettagliato e macabro resoconto dell’esecuzione della pena, cui lui stesso aveva personalmente assistito: prima il boia «gli diede più di otto colpi colla mazza sulla accetta che gli aveva posta sul collo, et non potè tagliarlielo»; poi, uno dei membri della confraternita che accompagnavano i condannati al patibolo, presa la mazza del boia, tentò ripetutamente di staccargli la testa; alla fine il boia, «con un coltello datogli dal birro finì di tagliargli il collo». Lapidario il commento del vescovo: «et parve che Dio gli volesse dar maggior pena di quella che gli era stata costituita dalla giustizia et pietà di questi Signori».
Una storia di abusi – senza la parola abuso
Il carteggio del vescovo Capilupi col cardinale Borromeo ci è tramandato in un’opera di carattere biografico del 1893 dello storico mantovano Giovanbattista Intra.[1] Dal confronto tra la fonte cinquecentesca e la cornice storiografica ottocentesca emergono alcune significative osservazioni.
Innanzi tutto, in questa brutta storia di abusi la parola “abuso” non viene mai utilizzata, né nella fonte, né dallo storico. La sensibilità contemporanea, invece, vedrebbe configurarsi il reato di abuso almeno su due livelli:
- il livello della colpa, con l’abuso, spirituale e sessuale, del prete nei confronti delle monache;
- il livello della pena, con l’abuso di potere da parte dello Stato nei confronti del reo, a motivo della ferocia disumana della pena stessa.
In secondo luogo, interessante è osservare la diversità dei registri lessicali utilizzati. Per Capilupi il registro di riferimento è di carattere sacrale: la colpa si configura come sacrilegio, in quanto attentare alla castità di una monaca, sposa di Dio, significa compiere un crimine contro Dio stesso; e che la pena corrisponda ad una precisa volontà divina appare confermato proprio dallo stesso prolungarsi dell’agonia del condannato.
Tre secoli dopo, la narrazione della vicenda da parte di Giovanbattista Intra sposta il registro sul piano morale: la colpa è definita scandalo («questi scandali accadevano e così a lungo duravano nel Governo allora ritenuto il più oculato e più civile d’Europa»), mentre la pena è giudicata eccessiva, esorbitante («questi scandali», una volta scoperti, «erano con pene esorbitanti puniti»).
Dalla sfera sacrale (sacrilegio, punizione divina), alla sfera sociale e morale (scandalo, pene esorbitanti), alla sfera dei diritti della persona (abuso). Dal Cinquecento, all’Ottocento, al terzo Millennio: cinque secoli, e un significativo cambiamento di prospettiva nel leggere i medesimi fatti. Cosa è accaduto?
Diritti e consapevolezza
Il discrimine significativo è stato la presa di consapevolezza dei diritti umani individuali: il diritto individuale rappresenta la soglia oltre la quale l’uso (l’usanza…) diventa ab-uso. Se non è chiara la soglia dei diritti, non c’è possibilità di definizione di abuso.
L’Illuminismo promosse le prime rivendicazioni dei diritti politici e civili «dell’uomo e del cittadino»; l’Ottocento mise a tema i diritti sociali dei proletari e lottò per contrastare il lavoro minorile; la prima ondata del femminismo richiese il diritto di voto per le donne, ma anche la parità di salario.
Poi, con la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale, ebbe inizio “l’età di diritti”, secondo la felice definizione di Norberto Bobbio.
La lunga storia dei diritti umani, iniziata con l’idea di libertà e affermatasi con l’idea di uguaglianza,[2] ha lentamente scardinato alcune istituzioni accettate per secoli dalla nostra società come naturali e incontrastabili – la schiavitù, la tortura, il lavoro minorile, la condizione di emarginazione e subordinazione delle donne, dei neri, degli stranieri, dei poveri, degli omosessuali.
L’emergenza della questione “abusi” anche all’interno della Chiesa dice, tra tante altre cose, che anche all’interno della Chiesa sta nascendo una nuova grammatica delle relazioni: utilizzare il termine “abuso”, anziché sacrilegio o scandalo, per definire la violenza nei confronti delle religiose, significa avere assunto consapevolezza del valore della singola individualità e dei diritti della donna come persona. Non è poco.
[1] Giovanbattista Intra, Di Ippolito Capilupi e del suo tempo, Milano 1893. L’opera digitalizzata è consultabile online sul sito della emeroteca braidense: http://emeroteca.braidense.it/eva/sfoglia_articolo.php?IDTestata=26&CodScheda=113&CodVolume=780&CodFascicolo=2108&CodArticolo=60894
[2] L’EUROPA È PER I DIRITTI UMANI, Relazione di Elena Paciotti, Presidente della Fondazione Basso, Ufficio d’informazione a Milano del Parlamento Europeo, 12/11/2012.