Arabia Saudita-Iran: accordo a Pechino

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Dopo oltre due anni di negoziati – mai peraltro celati – in Iraq e  in Oman, la scelta di Iran e di Arabia Saudita di sottoscrivere a Pechino un’intesa di riapertura, entro due mesi, delle rispettive ambasciate, ristabilendo le relazioni interrottesi dopo l’assalto alla sede diplomatica saudita a Tehran nel 2016 (in seguito all’esecuzione della pena capitale inflitta da Riyadh al leader sciita Nimr al Nimr), ha dato sicuramente lustro al presidente cinese Xi Jinping.

Pechino è il primo partner commerciale dei sauditi e il principale acquirente del greggio dell’Iran, con cui, dal 2021, ha stabilito un accordo di cooperazione venticinquennale. Il peso dell’intesa è politico-diplomatico, non solo commerciale. È evidente.

È forse finita la “guerra mondiale islamica”, ossia la scelta di esportare la rivoluzione khomeinista della teocrazia sciita al di fuori dai confini iraniani, in Iraq, Siria, Libano, Yemen e altrove? Il protagonista indiscusso del movimento iraniano è il corpo miliziano creato da Khomeini, quello dei Pasdaran -, potenza economica, oltre che militare, che ha organizzato, in tutti questi anni, la diffusione del verbo rivoluzionario khomeinista, dal quartier generale di Hezbollah, a Beirut sud, sulle coste del Mediterraneo.

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L’accordo firmato a Pechino prevede una sola – notevole – clausola: il rispetto della sovranità degli Stati. Si può credere che sia, dunque, davvero, finita un’epoca? Oppure si tratta di un auspicio limitato alla sovranità degli Stati contraenti questo accordo? Il testo ufficiale, recita il «rispetto della sovranità degli Stati e la non ingerenza negli affari interni degli Stati», senza meglio precisare se dei soli Stati contraenti o anche degli altri.

I negoziati – così conclusi – erano iniziati ben prima dell’altra, vera, rivoluzione: quella interna iraniana col movimento donna, vita, libertà, che nel, mentre ha sconvolto il Paese, con una estensione imprevista dal regime e che si sta tuttora auto-alimentando con la violenza delle esecuzioni capitali di semplici manifestanti disarmati. Sappiamo che i negoziati sono stati sospesi e poi ripresi, nella incertezza stessa della volontà di procedere. C’è poi stata l’accelerazione: è stata la situazione interna iraniana a fungere da acceleratore?

Tehran – agli occhi di un popolo che ormai, quasi interamente, contesta il regime – aveva bisogno di un successo diplomatico, proprio ora, per mostrare ancora forza e credibilità internazionale. Io penso che questo accordo risponda, innanzi tutto, a tale esigenza. Viene ufficializzato nell’epoca di presidenza del “duro” Raisi, non del “moderato” suo predecessore Rowhani.

Dunque, i “falchi”, ossia i Pasdaran, potranno permettersi di sabotare un trattato firmato da un guerrafondaio come Raisi? Si consideri che l’accordo è stato firmato il 10 marzo, cioè quattro giorni dopo che il capo di Hezbollah, Hasan Nasrallah aveva detto «chi pensa a un accordo tra Iran e Arabia Saudita dovrà aspettare ancora molto a lungo».

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I banchi di prova del testo appena sottoscritto sono almeno due: le elezioni presidenziali libanesi – ove il Parlamento che deve eleggere il nuovo Capo dello Stato è paralizzato da ottobre -; e il prossimo vertice della Lega Araba in cui Tehran apprezzerebbe la riammissione dell’amico siriano, Bashar al- Assad. Vedremo.

Guardiamo ora a Riyadh: quali sono gli elementi politici di quadro per Riyadh? I giornali statunitensi, in questi giorni, hanno scritto che i sauditi stanno insistendo con Washington per avere, in cambio di un possibile trattato di pace con Israele, l’assistenza Usa al proprio programma nucleare – naturalmente definito ad uso civile – e la fine della limitazione alla vendita di armi Made in Usa per il proprio esercito. Washington – scrive la stampa statunitense – sta resistendo alla lusinga, nel timore di innescare una ulteriore spirale militare regionale. È questa resistenza che ha fatto scattare la molla saudita verso la sede di Pechino? Non è domanda di poco conto.

Come noto, nel 2015 – quando la Russia interveniva militarmente in Siria al fianco dell’Iran e a difesa di Bashar al-Assad – Barack Obama firmava l’intesa sul nucleare con Tehran, assieme a russi, cinesi ed europei.  La scelta di Obama era allora chiara: significava il ritiro americano dal Medio Oriente e l’avvicinamento all’Iran, per sottrarlo all’influenza cinese. La dottrina Obama – temporaneamente rovesciata da Trump – è stata ripresa da Biden, che ha cercato di ripristinare l’intesa sul nucleare fino alla feroce repressione dell’inattesa rivolta iraniana. Così, alla fin fine, sembra che la politica americana abbia prodotto un avvicinamento di entrambi i contendenti – Arabia e Iran – a Pechino: per Washington è un disastro.

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Cosa farà ora, dunque, Washington del nucleare iraniano, sempre prossimo – o non molto lontano, secondo le fonti – all’approdo alla bomba atomica?

Il documento di Pechino non dice nulla al riguardo. Ma il capo della diplomazia saudita, il principe Faisal bin Farhan al-Saud, ha pubblicamente chiesto perché mai sul nucleare iraniano debbano negoziare con Tehran solo Paesi lontani e non quelli vicini: naturalmente il suo, in primo luogo.

In qualche modo gli ha fatto eco il riformista iraniano – cioè l’esponente del campo che si richiama all’ex presidente Khatami – Mohammad Reza Javadi-Hesar, secondo il quale, così come si tratta direttamente con Pechino, si dovrebbe negoziare con Washington e Riyadh. Ricordo, peraltro, che i negoziati “nucleari” tra Usa e Iran – sia con Obama che con Biden – sono stati e restano indiretti, ossia che le rispettive delegazioni comunicano per interposte figure europee.

Dopo il colpo diplomatico di Pechino, Washington ha tentato sinora due risposte. La prima, già scritta, sottolinea che, come le bugie, anche le intese – molto spesso in Medio Oriente – abbiano le “gambe corte”: purtroppo questo è stato – anche se non sempre – vero; ma l’effetto della prima risposta appare paragonabile alla crema da sole sulla scottatura.

La seconda, sta invece in un piccolo gesto: Washington ha infatti sbloccato, simultaneamente, 500 milioni di dollari di asset finanziari iraniani, bloccati dalle sanzioni, in Iraq. Si tratta di un tentativo per rientrare pienamente in gioco, anche se dall’entrata secondaria, ovvero è un segnale collegato al tono non pessimistico scelto dal capo della AIEA – l’agenzia per l’energia atomica – impegnato in questi giorni in una delicatissima visita a Tehran? Tehran avrebbe finalmente promesso di aprire i suoi siti agli ispettori dell’AIEA da cui aveva tolto persino le loro telecamere.

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È evidente che la Cina sta segnando diversi punti, da tempo. La scelta di Obama non ha prodotto, a suo tempo, mutamenti sostanziali nelle relazioni internazionali di Tehran, mentre è riuscita ad irritare i suoi vecchi alleati. Quell’irritazione – nonostante Trump – è rimasta.

La scelta dei sauditi di andare a firmare a Pechino non sembra tuttavia indicare una scelta di campo, bensì una scelta che io definirei delle “mani libere”. Pechino non ha calato la pax cinese e non ha toccato fili troppo scottanti, salvo prendere molto sul serio la promessa del rispetto della «sovranità degli Stati».

A me sembra, dunque che Riyadh abbia scelto di tenersi libere le mani, per poterne stringere, al bisogno, almeno due. Il punto cardine è, per me, capire davvero che cosa, in due anni di negoziato, si siano detti e abbiano convenuto tra loro sauditi e iraniani, a tu per tu e quindi quale segnale abbiano voluto dare al mondo andando a firmare i loro affari a Pechino. Ovviamente per Tehran è stata una scelta più facile. Per Riyadh? Una scelta di campo? Un messaggio a Biden? Di tutto un po’.

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