«Numerosi istituti religiosi, in particolare diocesani, arrivano al termine della loro missione in ragione della mancanza di vocazioni da lunga data. In tale situazione, spesso dolorosa, sono necessarie nuove regole e soluzioni per i problemi pratici incontrati». Così inizia il saggio di Johannes Hendriks, vescovo di Amsterdam (Olanda) apparso su Vies consacrées (n. 1/2023).
Il riferimento immediato alle “linee guida” elaborate in merito riguarda una ventina di istituti diocesani, ma fra i vescovi e i religiosi olandesi si considera ragionevole che, dei circa 170 congregazioni e monasteri attuali, solo una trentina supereranno i prossimi decenni e metà di essi sarà costituita da monasteri contemplativi.
Si aprirà una pagina di storia cristiana totalmente nuova che archivia una straordinaria esperienza che ha interessato il 19° e 20° secolo.
Splendore e tramonto
Con la riforma protestante i Paesi Bassi passano al calvinismo riconosciuto come religione ufficiale, anche se il cattolicesimo popolare sopravvive nelle campagne in forma nascosta. La situazione cambia con la libertà di culto concessa da Napoleone che avvia l’emancipazione e la crescita del popolo cattolico.
Esso ha conosciuto un enorme sviluppo e il fiorire di numerosi istituti religiosi, rapidamente estesi ad altri paesi europei, ma in particolare verso le nuove terre dell’Indonesia, Nuova Guinea, America Latina e Africa. Le famiglie religiose con radici internazionali, pur fortemente contratte nei numeri a livello locale, sono vivaci per la loro fecondità internazionale.
Quelli a dimensione ridotta o diocesana vanno verso l’estinzione per il tracollo vocazionale che ha interessato tutta la vita consacrata a partire dagli anni ’70 del ’900.
Dapprima, c’è stata la dismissione dalle grandi opere (scuole, collegi, ospedali ecc.), affidate a laici e all’intervento pubblico, con la spinta a privilegiare piccole comunità inserite nei contesti della marginalità sociale e nell’animazione delle comunità cristiane. Ma l’esaurirsi delle vocazioni ha ridotto le comunità e ha portato l’età media a oltre 80 anni. Molti istituti religiosi sia maschili che femminili hanno constatato di non potere più ricevere nuove vocazioni per l’impossibilità di garantire la formazione e il futuro.
La possibilità di estinzione per gli istituti più piccoli è diventata realtà. Dal 2014 sono state elaborate delle linee-guida per il governo e l’amministrazione dei beni degli istituti diocesani in chiusura, che, nel settembre del 2022, hanno ricevuto l’approvazione in via definitiva dal dicastero dei religiosi e della vita consacrata.
Emerge il riferimento al vescovo diocesano e il ruolo della conferenza nazionale dei religiosi. Il vescovo è chiamato a garantire la specificità e l’indirizzo dell’istituto, sorvegliando e talora nominando i responsabili economici e finanziari. Esponenti della conferenza nazionale dei religiosi hanno costruito i testi e le prassi assieme ai vescovi e sono coinvolti, a livello di singole competenze, a gestire il tramonto degli istituti.
Vescovi e conferenze nazionali dei religiosi
Le norme canoniche nel Codice sono molto esigue in ordine alla chiusura degli istituti religiosi ed è stato necessario aprire nuovi indirizzi. L’indicazione più recepita è quella di far assorbire l’istituto morente con uno con carisma simile, dotato di maggiore vitalità. Ma non sempre questo è possibile, vista la difficoltà comune delle congregazioni.
La chiusura formale di una famiglia religiosa è in capo alla Santa Sede, ma, alla morte dell’ultimo associato e associata, chi può informare e perfezionare la pratica?
I segni dell’avvicinarsi della fine sono leggibili nell’impossibilità dell’istituto di provvedere alle figure apicali e necessarie. In particolare l’economo, il provinciale o la provinciale, e il suo consiglio.
Le linee-guida dei Paesi Bassi prevedono la possibilità del vescovo nella cui diocesi risiede la casa madre di nominare persone non dell’istituto alle funzioni di economo e alle responsabilità di ordinario-provinciale. Un’indicazione suggerisce, inoltre, che, prima di arrivare a constatare l’impossibilità di proseguire, si consigli di far scrivere al capitolo generale una sorta di testamento spirituale che indichi a quali fini possano essere destinati i propri beni. E questo per facilitare il compito del vescovo e dei suoi collaboratori ed evitare che improprie “generosità” facciano arrivare i beni a istituzioni non ecclesiali.
Il vescovo Handriks annota: «Progressivamente queste direttive sono introdotte nel governo e nell’amministrazione di un numero crescente di istituti diocesani di vita consacrata e di società diocesane di vita apostolica nei Paesi Bassi. Il cammino che questi istituti devono percorrere è certo doloroso in ragione della secolarizzazione della società e della mancanza di vocazioni. D’altra parte, i membri degli istituti sono riconoscenti per tutto il bene che essi hanno potuto compiere con l’aiuto di Dio. Hanno potuto esercitare un ricco e fruttuoso apostolato, fondando una rete di scuole, ospedali, orfanatrofi e altre istituzioni di assistenza sociale e religiosa. La storia di molti di questi istituti è stata recentemente scritta per tramandarne la memoria. Le direttive approvate e pubblicate dal dicastero per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica costituiscono un importante ed eccellente contributo al buon compimento di tale percorso».
Logica dei segni e della rete
Se, nelle aree dell’Occidente secolarizzato, la vita consacrata rischia un drastico ridimensionamento, non così in altre. Per la prima volta nella storia del cattolicesimo i consacrati e le consacrate hanno messo radici autonome e autoctone fuori dell’ambito europeo. E, ancora per la prima volta, tutte le confessioni cristiane, protestanti comprese, considerano la consacrazione come una scelta preziosa nella testimonianza cristiana.
In ogni caso, anche nelle aree più aride è possibile il passaggio dall’ottica delle opere e dei numeri a quella dei segni e della rete. Una presenza più limitata e puntuale che risponde a un cristianesimo chiamato ad essere scuola di vita e di sapienza in un contesto in cui prevale l’agnosticismo e l’analfabetismo religioso.
Vale la pena ricordare un passaggio di p. Timothy Radcliffe, già maestro generale dei domenicani: «Oggi nell’Europa occidentale molte congregazioni, comunità, monasteri e province devono affrontare la morte. Per evitare tale realtà esistono diverse strategie. Possiamo beatificare il fondatore, iniziare costosi programmi edilizi, redigere splendidi documenti su progetti che non saranno mai realizzati… Se non siamo in grado di affrontare la prospettiva della morte, allora cosa abbiamo da dire al Signore della vita? Una volta dovetti visitare un monastero domenicano in Inghilterra insieme ad un vecchio frate. Era evidente che il monastero stava per estinguersi, tuttavia una delle suore disse al mio compagno: “Sicuramente, padre, il buon Dio non permetterà che questo monastero muoia!”. Ed egli rispose: “Non ha lasciato che morisse suo figlio?”».
In effetti, “saper morire”, nel senso di accogliere/accettare che una stagione si chiude, richiede due cose di fondo. Una buona dose di “maturità psicologica”: equilibrio, buon senso, aderenza alla situazione, consapevolezza di non essere i salvatori del mondo. Una “fede adulta”: senso di gratitudine per ciò che Dio ha compiuto attraverso un fondatore e i suoi seguaci, capacità di rimettersi a Dio (“il Signore ha dato, il Signore a tolto”). Come alternativa a questa opzione abbiamo gli atteggiamenti di immaturità che non portano a vivere la propria fine con serenità (pur nel comprensibile dolore, ma non disperazione). Di conseguenza si creeranno climi di vita comunitaria invivibili e frustranti. Una cosa è certa: sia chi entra nell’orizzonte che ormai qualcosa stia terminando sia chi non vuole accettarlo (magari accusando l’altro gruppo di essere dei miscredenti e dei secolarizzati) moriranno. Con un’unica differenza: gli uni vivranno più serenamente il tempo che è dato a loro trascorrere, gli altri da disperati.
Mi sbaglio o leggo un malcelato compiacimento nel fatto che la vita monastica muoia? Ma cosa c’è da gioire? Vero che Gesù è morto ma poi è risorto. Invece i monasteri muoiono e non risorgono. Semplicemente si estinguono. Fra qualche decennio nessuno si ricorderà mai più che siano esistiti. Pare che qualcuno nella Chiesa sia perfino contento di questo: i monasteri non sono troppo in sintonia con la nuova chiesa in uscita.
o forse cambiano, come sono cambiati nei secoli.
vedi l’interesse nel mondo protestante per il ‘New Monasticism’ che vole vivere in modo radicale secondo i principi del Discorso della Montagna