Quello che segue non è un articolo sui diritti veri o presunti delle coppie omosessuali. Non un’ennesima valutazione su una prassi ormai comune. Neppure una soluzione a basso costo al problema del riconoscimento dei bambini concepiti all’estero attraverso tecniche di procreazione medicalmente assistita. È piuttosto uno spunto per cogliere alcuni degli elementi in gioco ed essere aiutati a un discernimento cristiano.
I fatti attuali
La commissione Politiche Europee del Senato ha recentemente bocciato una proposta di regolamento europeo che prevederebbe la creazione di un «certificato europeo di filiazione» delle coppie omogenitoriali e ha invitato il Governo italiano a far valere il proprio veto nel Consiglio europeo. Il punto critico di tale regolamento – visto dall’Italia – sarebbe il rischio che ne derivi una sanatoria per pratiche vietate nel nostro paese (legge 40 del 2004), ma consentite all’estero. Tra esse la più controversa è quella dell’utero in affitto.
A onor del vero, da quando entrò in vigore, la legge 40 sulla procreazione assistita suscitò, da subito, non solo polemiche ma «raggiri» da sanare con «sentenze del giorno dopo». Pian piano, a colpi di sentenze, molti paletti sono stati tolti, ma l’utero in affitto è rimasto una pratica vietata, che la Corte Costituzionale definisce: intollerabile offesa alla dignità della donna e spesso occasione di abusi e di sfruttamento (sentenza n. 33/2021). Ecco perché la Corte suprema di Cassazione, a Sezioni Unite, ha escluso che un atto di nascita firmato all’estero per un bambino nato da maternità surrogata e consegnato alla coppia dei committenti come figlio di entrambi, possa essere trascritto in Italia nei registri dello stato civile.
Da qui la bagarre politica, giuridica e mediatica cui stiamo assistendo in questi giorni, che sta infiammando e dividendo l’Italia e le coscienze degli italiani. Al netto delle intenzioni colpevolmente finalizzate a disorientare e dei modi molto faziosi nel presentare la questione sui media, occorre mostrare la complessità della situazione reale.
Infatti, il tema chiama in causa molte discipline come la medicina, l’economia, la filosofia, il diritto, la morale, la teologia. È un intreccio forse troppo complesso per chi ha bisogno di avere certezze, verificate o presunte, per schierarsi pro o contro. Ma questo clima confuso trasforma la ricerca del massimo bene possibile per i bambini, che di fatto ci sono, in un fuoco incrociato di accuse reciproche, campagne denigratorie, perentorie e inappellabili conclusioni.
In questo ginepraio è più onesto e prudente cercare di farsi le domande giuste, per giungere a non confondere almeno il punto di partenza: non esiste per nessuno il diritto ad essere genitori. Ma esiste il diritto ad essere figli. E possibilmente ad essere figli concepiti ed accolti perché figli e non «prodotti pagati». E questo vale per ogni coppia: omo o etero che sia.
Non bastano i dati di fatto
Dagli anni Settanta sono in corso in tutto il mondo ricerche empiriche per confortare o contestare la bontà della genitorialità di coppie omosessuali. Analizzando le conclusioni a cui i ricercatori delle diverse posizioni giungono, esse sembrano sempre costruite ad hoc per sostenere la tesi di partenza di ciascuno.
Tralasciando questo vizio di fondo, in sé piuttosto rilevante, occorre osservare che le ricerche condotte sul campo sono sempre «descrittive» e non «normative». Descrivono le realtà di fatto e non ciò che dovrebbe realizzarsi. Ma qui c’è un problema: affermare che le realtà già esistenti indichino necessariamente la direzione da percorrere e la norma da seguire è una forzatura, tecnicamente un caso di «fallacia naturalistica». Detto in altri termini: si confondono le questioni di fatto con quelle dei valori.
Nel nostro caso, la fallacia si potrebbe esprimere così: poiché gay e lesbiche sono persone a pieno diritto, allora tutti i modelli di famiglia sono uguali. Se sono uguali, possono avere in ogni caso il desiderio/bisogno/diritto di genitorialità.
La realtà dei fatti, detto questo con tutto il rispetto, è in verità diversa. L’incontro nell’amore, che è un incontro di tutta la persona corpo compreso, non consente sempre di dare inizio a una nuova vita. È un dato di fatto. Tante coppie accettano questo limite doloroso, spesso lo accettano con sofferenza, e ricercano insieme un diverso equilibrio.
A introdurre elementi nuovi oggi intervengono le tecnologie applicate alla medicina, capaci di forzare i limiti umani: è ormai possibile generare in molti modi e con grande fantasia. La Procreazione Medicalmente Assistita permette tecnicamente risultati impensabili fino a pochi decenni fa. E così, perché non realizzare un desiderio legittimo tra persone che si amano? Se il portafoglio, per così dire, lo permette, chi può impedirci di raggiungere il nostro diritto?
Da desiderio a diritto il passo è brevissimo: iniziano entrambi con la lettera «d» e finiscono con la vocale «o»… Il Rubicone è varcato: il figlio desiderato diventa un diritto invocato. E, se è un diritto mio, diventa un dovere da parte degli altri il riconoscerlo e realizzarlo.
Sarebbe doveroso che tutti ci si fermasse a riflettere e a confrontarsi sulle tante questioni aperte dal nuovo scenario, che interpellano altrettante discipline. Fermarsi, ascoltarsi con desiderio di verità e ricercare il bene, declinando i diritti fondamentali dei più deboli e dei più piccoli. Tanto piccoli da non esserci ancora. E, infine, decidere e legiferare.
Madri in prestito, bambini fabbricati
Purtroppo, il nuovo modello antropologico, in cui ciò che abilita ad amare e generare è il rispetto delle esigenze soggettive, il creare vincoli più che rispettare regole, scambiare bisogni e desideri per diritti, sembra non sentire più alcun bisogno di riflessione. Reclama ciò che crede gli appartenga.
Chi apre il portafoglio per raggiungere un presunto diritto negato nel proprio paese e lo fa per avere ciò che vuole, è poco attento anche alla dignità e ai diritti di chi affitta il proprio corpo, cioè se stessa, per mettere qualche banconota nel suo borsellino. Tante battaglie per la dignità delle donne per poi calpestarla ritenendo un diritto andare a sfruttarle altrove…
E così, aggirato il limite della corporeità, aggirata la legge italiana, aperto il portafoglio, realizzato il proprio desiderio, un nuovo essere umano apre gli occhi e grida alla vita. Chi è? Da dove arriva? È difficile dirlo. C’è un intreccio assai variegato di cromosomi, ovuli, spermatozoi e uteri e di molti non si conosce neppure la provenienza. Quanto tutto questo incide e inciderà nel tempo sul nuovo cucciolo d’uomo? Non lo sappiamo in modo evidente.
Ma il bambino c’è. E questo apre la seconda parte del discorso. Che si fa? Certamente avere il coraggio di riprendere in mano tutti questi passaggi è importante e necessario, ma chiede tempo, onestà intellettuale e libertà interiore nel cercare il bene. E, considerando che il nuovo essere umano c’è e ha già visto troppi dei suoi diritti colpevolmente calpestati, non si può attendere ancora.
Con due sentenze nel 2021 la Corte Costituzionale ha affermato l’esistenza di un grave vuoto di tutela dei diritti di questi bambini, ma il Parlamento non ha accolto il monito ricevuto di colmarlo. Il 30 dicembre 2022 la Corte di Cassazione ha stabilito che solo il padre biologico (cioè quello che ha donato il seme affittando un utero) può essere registrato come genitore e la prefettura, su indicazione del Viminale, ha chiesto il fermo delle registrazioni all’anagrafe. La questione è diventata politica (nel senso bieco della parola) e così, se possibile, ancora più controversa e complicata.
E sono sempre i più piccoli a farne le spese.
E come cattolici?
Cercare una soluzione che possa tendere al massimo bene possibile per i più fragili è difficile in una cultura sempre più individuale e individualista. Tuttavia è obbligatorio per evitare non le battaglie tra opposte posizioni quanto la morte civile e personale (non fisica) delle donne e dei bambini.
Come cattolici abbiamo ben chiaro che i genitori sono maschio e femmina e che il matrimonio sacramento si pone dentro una visione di fede per cui non ha concorrenti e rivali. Infatti, al pari di ogni altra decisione cristiana di vita, è una decisione profetica per natura sua controcorrente e auto-giustificantesi. E così ogni essere umano è sempre un dono per gli altri e mai un mezzo in sé. In particolare, i figli sono dono di Dio, non fabbricazione umana.
Esplicitata nuovamente questa certezza antropologica-teologica, è evidente che su questi temi elaborare soluzioni realmente e totalmente condivise è una speranza remota. Le differenze sono abissali sia a livello antropologico sia etico.
E allora che si fa? Come indirizzarsi sul massimo bene possibile evitando un irrealizzabile dialogo tra menti, di fatto, chiuse? È difficile saperlo. Non abbiamo difficoltà a riconoscere che tanti interrogativi, oggi, non trovano risposte preconfezionate.
Se non si può trovare un accordo fra tutte le posizioni, si deve lavorare per controllare la coerenza interna di queste diverse posizioni: in nome di che cosa viene attribuita una grandezza e verità alla propria posizione? In altre parole, come si giustifica ciò che si propone? Si dovrebbe passare da «famiglie arcobaleno sì o no» alla riflessione giustificata «perché sì e perché no».
Questo lavoro di chiarificazione, come scritto prima, non può essere affrontato solo con i dati delle ricerche o con l’ideologia dei diritti, ma con la presentazione di valori in grado o meno di reggere gli urti della vita. E questi valori, umani prima che cristiani, chiedono che tutte le persone siano tutelate al massimo possibile a partire dalla loro debolezza.
Ovvio che una soluzione bisognerà trovarla, ma occorre esigere che sia il frutto di un vero lavoro di conoscenza, informazione e riflessione. Non dell’attuale scontro fra opposte propagande. La soluzione probabilmente non sarà l’ideale, ma dovrà essere il massimo bene possibile. E oggi ognuno, in coscienza e non per interesse personale, deve fare la sua parte.
- Pubblicato sul settimanale diocesano di Torino, La voce e il tempo, 23 marzo 2023.
Qui ci sono più risposte che domande. Quindi è sbagliato il titolo.
Ogni tanto le risposte servono.
Mai come questa volta poi è facile rispondere: “I figli non si comprano”.
E non è una questione di diritti ma di doveri.